L’ultima raccolta di Stefano Carrai, La traversata del Gobi, pubblicata dai tipi di Nino Aragno Editore, è una delicatissima opera di resistenza contro il fluire della storia che cancella e appiattisce. L’autore stesso confessa, nelle note in chiusura, di non essere mai stato nel Gobi; pertanto, questo deserto deve considerarsi un «paesaggio dell’anima», che – spiega Niccolò Scaffai nella preziosa postfazione – è immagine «di quel che nella vita resta indietro, non trova più posto, si perde sepolto sotto la sabbia». L’allegorica traversata compiuta da Carrai è dunque il disperato tentativo di resistere all’oblio, di portare in salvo anche soltanto un piccolo pezzetto di un mondo e di una vita inesorabilmente trascorsi.
Ordinario di Letteratura italiana a Siena, nei versi di Carrai troviamo citazioni più o meno scoperte di molti dei grandi del Novecento, dalle tre moderne “corone” – Montale, Ungaretti e Saba – ai vari Gozzano, Sereni, Fortini e Caproni. Non per questo, tuttavia, il canto di Carrai si fa meno personale: la sua è una voce delicata e autoironica, dimessa e comunque incisiva e, benché l’autore rimanga sempre scettico rispetto a ogni dimensione metafisica, egli è capace di dare alle piccole cose quotidiane un’alta tensione e un’ulteriorità che invitano a riflettere. Basti pensare, a tal proposito, a Diagnostica, dove «Radiografie / TAC / risonanze magnetiche» divengono «prove che è esistito il mio corpo [e che] sono esistiti i suoi danni», destinate tuttavia a essere un giorno buttate. Pochi versi che regalano al lettore tutta l’angoscia di un’immanenza non desiderata e tuttavia non rinnegabile, sofferta per la sua concreta evidenza. Carrai si dimostra così un uomo sempre «di qua dall’infinito», com’è scritto in un emblematico verso de Un pomeriggio a Genova 2.
L’autore è dunque un uomo in trappola, come il protagonista di Un esame in carcere, il giovane Antonino, che confessa – con un pluralia denso di significato – «noialtri siamo ospiti / di questa bella terra / e non ne vediamo nulla / soltanto / le celle». Questa è per Carrai la condizione umana, un incessante peregrinare «senza requie» e «nulla che ci aiuti a capire l’immenso / ingordo / incessante / ingoiare strati / su strati» (Dopo il sogno). La miseria dell’uomo domina infatti la prima parte della raccolta con litanica ripetizione ed è centrale anche nella poesia eponima, I topolini del Gobi, che per prosopopea vanno a raffigurare l’umanità intera: essi «ripetono gli stessi movimenti / irriflessi / ripercorrono / senza / saperlo / le vie di fuga già corse /dalle madri e dai padri / crescono / ripopolano il deserto».
In tanta miseria, il poeta può tuttavia aggrapparsi alle persone care, talvolta anche soltanto nel ricordo. È così che nasce la sezione Tre graffiti, dedicata alla moglie, Mila, e alle due figlie, Livia e Claudia. Parimenti, il Canzoniere di Carrai si popola di commoventi ritrattini ripescati dalla memoria personale e collettiva: dall’ammirato ricordo di Rosanna Bettarini, con «le sue eleganti spiegazioni / tutte tremito / alla lavagna» (Spiaggia d’Inverno), a quello per Guido Capovilla, collega di Carrai tristemente venuto a mancare nel 2011 (Sulla foce). Trova spazio tra i versi anche un anonimo «bidello coi mustacchi», cui tocca chiudere una discussione di dottorato protrattasi troppo lungamente «battendo un colpo di bastone / sul pavimento» e ricordando con severa saggezza «Hora est!».
Il corso della Storia, tuttavia, non può essere arrestato dai ricordi e il mondo sembra sempre più convintamente procedere verso il macello dei valori. Così, Carrai può confessare al poeta e amico Sauro Albisani «che pena fanno le ore che spariscono / e le giornate». Così, passando davanti al caffè Paszwkoski, una mattina, il poeta non può che provare un’immensa solitudine nel notare come nessuno si fermi a commemorare la triste sorte toccata proprio in quel luogo alla gappista Tosca Bucarelli per mano dei fascisti: «le persone sorseggiano un drink / spensieratamente / che poi non c’è /scritto su nessun muro / che fu qui che la Toschina fu presa / e del resto sono fatti lontani». A nessuno interessa più il ricordo, se perfino il Monumentino partigiano del Cimitero del Pino a Firenze dedica ai compagni della sezione Gavinana soltanto una «scritta umile / secca / sintatticamente sgraziata», «di tanta passione / e di tanto coraggio» solo un anacoluto, quasi fosse una memoria interrotta.
Ci avevano avvertiti Pasolini, scrivendo del consumismo come nuova e perfezionata veste del totalitarismo, e Fortini, parafrasando Gramsci, con il celebre «Scrivi mi dico, odia». Torna ad avvertirci anche Carrai, che si pone in questo stesso solco ed esorta a odiare l’indifferenza del bugnato (Omaggio a [Virgilio] Giotti) e a «cammin[are] sul bagnasciuga / sperando di incappare nella stella / sopra questo mosaico / di plastiche rotte e gusci d’arsella» .
Dopo il sogno
Dopo il sogno
la sferza
del risveglio e si riparte col proprio
sacchetto di reperti
il ritmo del cammello che ti culla
si distoglie lo sguardo dagli scheletri
che emergono intrecciati nella lotta
dalle uova covate fino all’ultimo
nella bufera
con la forza cieca
che dà l’amore
e ora
gelida
le accarezza
una vipera gialla
ma nulla che ci aiuti
a capire l’immenso
ingordo
incessante
ingoiare strati
su strati
seppellire
nella terra
nell’argilla
soffocare gli strati
calpestare gli strati
senza requie.
Spiaggia d'inverno
Ora i miei professori non ci sono
più
a Natale è andata la Rosanna
che ero stato a trovare poco prima
e si è brindato con lo sciampagnino
che nelle orecchie ho ancora la sua voce
la Rosanna
che guardavo più lei
di quelle sue eleganti spiegazioni
tutte tremito
alla lavagna…
anche la Rosanna
con gli altri miei maestri
ora
compresi quelli putativi
dentro la notte illune.
Ma gli anni vanno
e già
mi vedo non avere più davanti
aule piene
mi figuro la vita
tutta come questa sera
che l’onda
fa spiaggiare e ammarare
pezzi di legno
corde
brandelli di rete
valve svuotate
mentre io cammino sul bagnasciuga
sperando d’incappare nella stella
sopra questo mosaico
di plastiche rotte e gusci d’arsella
o annego nel ricordo di quel giorno
a Leida che il bidello coi mustacchi
entrò
battendo un colpo di bastone
sul pavimento
e disse
Hora est!
tagliando secco la parola in bocca.
Paszkowski, una mattina
Davanti a Paszkowski la gente fa
capannello intorno a dei musicisti
di strada
o passa freneticamente
mi sento il solo ingenuo
a cui vengono in mente
idee come
peccato che i luoghi
non possano parlare
non dicano la storia.
Fu dentro questo bar che una ragazza
ventunenne rimase intrappolata
nella calca di ufficiali e di belle
dame senza coscienza
fu arrestata da tedeschi e fascisti
con la bomba che aveva nella borsa
le dettero di troia terrorista
poi fu portata via e seviziata
segnata per il resto della vita.
Ma le persone sorseggiano un drink
spensieratamente
che poi non c’è
scritto su nessun muro
che fu qui che la Toschina fu presa
e del resto sono fatti lontani.
Rimpiango di aver lasciato morire
gli ultimi partigiani
senza andare a cercarli
quando ancora portavano le borse
della spesa o giocavano
coi nipoti ai giardini
rimpiango soprattutto
di non aver parlato che una volta
e poi per telefono con la Chicchi
Mattei
e fece in tempo
a dirmi che Saba a Roma piangeva
chiedendo la morfina…
Entriamo e ci sediamo
e bevendo un caffè
dico al mio vecchio amico
senza enfasi
è il sonno della memoria
che genera il sonno della ragione.
Lui mi sorride senza dire nulla
ma è sottinteso
veteromarxista
velleitario
idealista.