Sabato, 08 Luglio 2017 10:00

«Sopra questo mosaico di plastiche rotte e gusci d'arsella»: recensione a "La traversata del Gobi"

Scritto da Guido De Simone
Deserto del Gobi Deserto del Gobi

L’ultima raccolta di Stefano Carrai, La traversata del Gobi, pubblicata dai tipi di Nino Aragno Editore, è una delicatissima opera di resistenza contro il fluire della storia che cancella e appiattisce. L’autore stesso confessa, nelle note in chiusura, di non essere mai stato nel Gobi; pertanto, questo deserto deve considerarsi un «paesaggio dell’anima», che – spiega Niccolò Scaffai nella preziosa postfazione – è immagine «di quel che nella vita resta indietro, non trova più posto, si perde sepolto sotto la sabbia». L’allegorica traversata compiuta da Carrai è dunque il disperato tentativo di resistere all’oblio, di portare in salvo anche soltanto un piccolo pezzetto di un mondo e di una vita inesorabilmente trascorsi.

Ordinario di Letteratura italiana a Siena, nei versi di Carrai troviamo citazioni più o meno scoperte di molti dei grandi del Novecento, dalle tre moderne “corone” – Montale, Ungaretti e Saba – ai vari Gozzano, Sereni, Fortini e Caproni. Non per questo, tuttavia, il canto di Carrai si fa meno personale: la sua è una voce delicata e autoironica, dimessa e comunque incisiva e, benché l’autore rimanga sempre scettico rispetto a ogni dimensione metafisica, egli è capace di dare alle piccole cose quotidiane un’alta tensione e un’ulteriorità che invitano a riflettere. Basti pensare, a tal proposito, a Diagnostica, dove «Radiografie / TAC / risonanze magnetiche» divengono «prove che è esistito il mio corpo [e che] sono esistiti i suoi danni», destinate tuttavia a essere un giorno buttate. Pochi versi che regalano al lettore tutta l’angoscia di un’immanenza non desiderata e tuttavia non rinnegabile, sofferta per la sua concreta evidenza. Carrai si dimostra così un uomo sempre «di qua dall’infinito», com’è scritto in un emblematico verso de Un pomeriggio a Genova 2.

L’autore è dunque un uomo in trappola, come il protagonista di Un esame in carcere, il giovane Antonino, che confessa – con un pluralia denso di significato – «noialtri siamo ospiti / di questa bella terra / e non ne vediamo nulla / soltanto / le celle». Questa è per Carrai la condizione umana, un incessante peregrinare «senza requie» e «nulla che ci aiuti a capire l’immenso / ingordo / incessante / ingoiare strati / su strati» (Dopo il sogno). La miseria dell’uomo domina infatti la prima parte della raccolta con litanica ripetizione ed è centrale anche nella poesia eponima, I topolini del Gobi, che per prosopopea vanno a raffigurare l’umanità intera: essi «ripetono gli stessi movimenti / irriflessi / ripercorrono / senza / saperlo / le vie di fuga già corse /dalle madri e dai padri / crescono / ripopolano il deserto».

In tanta miseria, il poeta può tuttavia aggrapparsi alle persone care, talvolta anche soltanto nel ricordo. È così che nasce la sezione Tre graffiti, dedicata alla moglie, Mila, e alle due figlie, Livia e Claudia. Parimenti, il Canzoniere di Carrai si popola di commoventi ritrattini ripescati dalla memoria personale e collettiva: dall’ammirato ricordo di Rosanna Bettarini, con «le sue eleganti spiegazioni / tutte tremito / alla lavagna» (Spiaggia d’Inverno), a quello per Guido Capovilla, collega di Carrai tristemente venuto a mancare nel 2011 (Sulla foce). Trova spazio tra i versi anche un anonimo «bidello coi mustacchi», cui tocca chiudere una discussione di dottorato protrattasi troppo lungamente «battendo un colpo di bastone / sul pavimento» e ricordando con severa saggezza «Hora est!».

Il corso della Storia, tuttavia, non può essere arrestato dai ricordi e il mondo sembra sempre più convintamente procedere verso il macello dei valori. Così, Carrai può confessare al poeta e amico Sauro Albisani «che pena fanno le ore che spariscono / e le giornate». Così, passando davanti al caffè Paszwkoski, una mattina, il poeta non può che provare un’immensa solitudine nel notare come nessuno si fermi a commemorare la triste sorte toccata proprio in quel luogo alla gappista Tosca Bucarelli per mano dei fascisti: «le persone sorseggiano un drink / spensieratamente / che poi non c’è /scritto su nessun muro / che fu qui che la Toschina fu presa / e del resto sono fatti lontani». A nessuno interessa più il ricordo, se perfino il Monumentino partigiano del Cimitero del Pino a Firenze dedica ai compagni della sezione Gavinana soltanto una «scritta umile / secca / sintatticamente sgraziata», «di tanta passione / e di tanto coraggio» solo un anacoluto, quasi fosse una memoria interrotta.

Ci avevano avvertiti Pasolini, scrivendo del consumismo come nuova e perfezionata veste del totalitarismo, e Fortini, parafrasando Gramsci, con il celebre «Scrivi mi dico, odia». Torna ad avvertirci anche Carrai, che si pone in questo stesso solco ed esorta a odiare l’indifferenza del bugnato (Omaggio a [Virgilio] Giotti) e a «cammin[are] sul bagnasciuga / sperando di incappare nella stella / sopra questo mosaico / di plastiche rotte e gusci d’arsella» .

 

 

Dopo il sogno

 

Dopo il sogno

                              la sferza

del risveglio                        e si riparte col proprio

sacchetto di reperti

il ritmo del cammello che ti culla

 

si distoglie lo sguardo dagli scheletri

che emergono intrecciati nella lotta

dalle uova covate fino all’ultimo

nella bufera

                              con la forza cieca

che dà l’amore

                              e ora

gelida               

le accarezza

una vipera gialla

 

ma nulla che ci aiuti

a capire l’immenso

ingordo

                incessante

                                    ingoiare strati

su strati

                 seppellire

                                       nella terra

nell’argilla

                    soffocare gli strati

calpestare gli strati

                                    senza requie.

 



 

Spiaggia d'inverno

 

Ora i miei professori non ci sono

più

a Natale è andata la Rosanna

che ero stato a trovare poco prima

e si è brindato con lo sciampagnino

che nelle orecchie ho ancora la sua voce

la Rosanna

                       che guardavo più lei

di quelle sue eleganti spiegazioni

tutte tremito

                       alla lavagna…

                                                     anche la Rosanna

                        con gli altri miei maestri

ora

                      compresi quelli putativi

dentro la notte illune.

 

Ma gli anni vanno

                                                e già

mi vedo non avere più davanti

aule piene

                           mi figuro la vita

tutta come questa sera

                                      che l’onda

fa spiaggiare e ammarare

pezzi di legno

                                    corde

brandelli di rete

                                     valve svuotate

mentre io cammino sul bagnasciuga

sperando d’incappare nella stella

sopra questo mosaico

di plastiche rotte e gusci d’arsella

o annego nel ricordo di quel giorno

a Leida che il bidello coi mustacchi

entrò

         battendo un colpo di bastone

sul pavimento

                               e disse

                                                 Hora est!

tagliando secco la parola in bocca.

 

 

 

 

Paszkowski, una mattina 

Davanti a Paszkowski la gente fa

capannello intorno a dei musicisti

di strada

                  o passa freneticamente

 

mi sento il solo ingenuo

a cui vengono in mente

 

idee come

                      peccato che i luoghi

non possano parlare

non dicano la storia.

Fu dentro questo bar che una ragazza

ventunenne rimase intrappolata

nella calca di ufficiali e di belle

dame senza coscienza

fu arrestata da tedeschi e fascisti

con la bomba che aveva nella borsa

 

le dettero di troia terrorista

poi fu portata via e seviziata

segnata per il resto della vita.

 

Ma le persone sorseggiano un drink

spensieratamente

                                   che poi non c’è

scritto su nessun muro

che fu qui che la Toschina fu presa

e del resto sono fatti lontani.

 

Rimpiango di aver lasciato morire

gli ultimi partigiani

senza andare a cercarli

quando ancora portavano le borse

della spesa o giocavano

coi nipoti ai giardini

 

rimpiango soprattutto

di non aver parlato che una volta

e poi per telefono con la Chicchi

Mattei

e fece in tempo

a dirmi che Saba a Roma piangeva

chiedendo la morfina…

 

Entriamo e ci sediamo

e bevendo un caffè

dico al mio vecchio amico

senza enfasi

                         è il sonno della memoria

che genera il sonno della ragione.

 

Lui mi sorride senza dire nulla

ma è sottinteso

                                veteromarxista

velleitario

                              idealista.