Fuori tempo, al di là della storia: sulla poesia di Fortini
Scritto da Francesca Dolce
[Pubblichiamo una selezione dei testi che le studentesse e gli studenti del corso "Poesia italiana del Novecento e contemporanea", Cds in Lettere - Curriculum contemporaneo dell'Università del Salento, hanno utilizzato per i loro seminari autogestiti]
Della raccolta d’esordio di Fortini, Foglio di Via, pubblicata nel 1946, Italo Calvino scriverà su “L’Unità” di un “giovane poeta fiorentino di cui Einaudi ci presenta [questo] folto quaderno, [e che] è nell’interezza della sua opera, poeta della resistenza.” Legato al lessico militare, il titolo “è la bassa di passaggio che nei trasferimenti accompagna il soldato isolato”, scriverà Fortini. Questa sorta di lasciapassare necessario per spostarsi tra le divisioni sarà anche il protagonista di una poesia contenuta nella terza sezione della raccolta intitolata Atri versi. Il componimento in questione è esemplificativo:
Dunque nulla di nuovo da questa altezza
Dove ancora un poco senza guardare si parla
E nei capelli il vento cala la sera.
Dunque nessun cammino per discendere
Se non questo del nord dove il sole non tocca
E sono d'acqua i rami degli alberi.
Dunque fra poco senza parole la bocca.
E questa sera saremo in fondo alla valle
Dove le feste han spento tutte le lampade.
Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.
Rintracciamo già nel primo Fortini l’uso dell’allegoria che abiterà tutta la sua produzione poetica. Qui non si descrive semplicemente il passaggio della frontiera da parte del soldato-partigiano, ma si nasconde qualcosa di molto più profondo, una vera e propria discesa nell’Ade, un viaggio nell’oltretomba dove il poeta si imbatte in una folla indifferente che non parla, come gli stessi amici che finiscono per non riconoscerlo. Quel buio che si deve sconfiggere non è altro che il male storico: c’è bisogno di uno sforzo collettivo per giungere ad una “patria abitabile”.
Anche in Una volta per sempre, pubblicata nel 1963, la tensione civile della sua poesia si salda a uno sguardo più universale verso un sentimento quale è l’amore. Spicca in questo deserto sconfinato di parole, volte a smuovere le coscienze, anche quella che viene definita “un’oasi poetica” rappresentata dal componimento L’edera:
Molti anni fa, quando non eravamo
ancora marito e moglie, in un pomeriggio
di marzo o aprile, lungo le rive di un lago,
un poco scherzando, un poco sul serio, colsi
al piede di un abete un breve ramo di edera,
simbolo di fedeltà dei sentimenti,
per ricordo di quella passeggiata tranquilla
ultima di un’età della nostra vita.
Senza turbamento non so guardarla.
La luce ha scolorito a poco a poco
le foglie che erano verdi e nere.
Mutamenti impercettibili, sintesi
molto lente, alterazioni invisibili.
Come se non vent’anni ma molti secoli
fossero passati. Ora quel ramo somiglia
tante cose che inutile è qui nominare.
Pure, solo così impallidendo, ha vissuto.
Se una volta era degno di sorriso
ora è più somigliante figura d’amore.
Il salto temporale che percorre la poesia porta il poeta a ritrovarsi più adulto, ad evocare quell’amore giovanile ed ingenuo rappresentato da quel ramoscello che nonostante lo scorrere del tempo si è conservato. Gli anni in realtà sembrano secoli in grado di plasmare, trasformare ma anche conservare.
Ancora una volta, all’idillio (o all’elegia: ai sentimenti) e alla natura Fortini assegna un significato più vasto. Anche in Questo muro, del 1973, le due parole chiave sono “natura” e “idillio” che si intrecciano diventando un tutt’uno. Con le parole di Pier Vincenzo Mengaldo: “Natura e idillio in Questo muro hanno una doppia connotazione: evasione e inveramento. Insomma, si profila un’opposizione tra uomo storico e uomo privato che non è più solo quella ironica ma ‘anche’ quella dell’individuo che può conservare in sé una ‘verità0, fosse solo un’immagine di armonia che la Storia ha disperso. A sua volta la natura è duplice: è sporcata per sempre dalla tecnologia della società moderna, ma allo stesso modo è una perenne, o rinascente per miracolo, anti-società, anti-storia o diciamo meglio anti-presente.”
Il componimento Agli déi della mattinata vede questi due temi svilupparsi quasi l’uno dentro l’altro fino a fondersi:
Il vento scuote allori e pini.
Ai vetri, giù acqua.
Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti,
poi nulla.
La mattinata si affina nella stanza tranquilla.
Un filo di musica rock, le matite, le carte.
Sono felice della pioggia.
O dei inesistenti,
proteggete l’idillio, vi prego.
E che altro potete,
o dei dell’autunno indulgenti dormenti,
meste di frasche le tempie?
Come maestosi quei vostri luminosi cumuli!
Quante ansiose formiche nell’ombra!
Nella poesia spicca il fenomeno naturale che con la sua carica distruttiva suscita allarmi e paure e che per il poeta è sempre allegoria degli sconvolgimenti e dei conflitti della storia. Poi lo sguardo si sposta all’interno, in questa “stanza tranquilla” che sembra sospesa e fuori dal tempo. Da lì, l’invocazione agli “dei inesistenti” che vivevano un tempo come “luminosi cumuli”, e che oggi sono sostituiti dalla frenetica società iper-velocizzata e tecnologica. Anche in Composita solvantur, l’ultima raccolta del 1994, i testi “indifesi” di Fortini convivono con un risvolto positivo, un attaccamento finale alla vita che prevale anche nelle situazioni più tragiche ed intricate, come una promessa di futuro che è il residuale compito della poesia.
Come in una struttura circolare, ritorna anche in quest’ultima raccolta (così come in quella d’esordio) la voglia di non smettere di testimoniare. Fortini affronta la miseria del suo tempo ma non si arrende: la sua poesia luminosamente oscura lo rende un poeta “fuori dal tempo” ma anche “oltre il tempo”, estremamente attuale, amato, studiato, scoperto. Il Centro di ricerca Franco Fortini (https://www.ospiteingrato.unisi.it/ ) oggi si impegna a trasmettere e diffondere la sua voce tra le giovani generazioni. La sorte che aveva prefigurato in un componimento intitolato Parabola (da Poesia ed errore) è stata smentita:
Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliare
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.
Il tema dello scarto, del non riconoscimento, dell’incompiutezza che si possono leggere nelle parole di Fortini è al centro di una riflessione di Roberto Galaverni, con la quale si chiude il mio intervento: «il suo verso vive proprio dell’essere in discontinuità col presente, fuori tempo, perfino al di là della storia. […] Così, se non è mai il tempo della sua poesia, è però sempre il tempo per la sua poesia. Questo è il suo paradosso originario, e non può essere sciolto».