Sabato, 05 Agosto 2023 17:50

Il metro dell’abbandono. Su "Belluno, andantino e grande fuga" di Patrizia Valduga

Scritto da Stella Schito

 

 

Durante la pausa estiva ripubblicheremo alcuni articoli presenti nell'Archivio del Centro di ricerca.

Buone vacanze dal Pens!

 


 

 

Belluno, andantino e grande fuga (Einaudi, 2019) è il frutto di dieci giorni di una felicità nella disperazione, un’eccitazione nella calma: così afferma la poetessa Patrizia Valduga in un’intervista rilasciata a Silvia Raghi per Medium Poesia.

Considerato il breve tempo di stesura e l’euforia che l’ha accompagnata potremmo presumere che Patrizia Valduga si sia ritrovata, per servirci di una vividissima immagine esposta dall’autrice stessa, in un nuovo “punto di sella”[i]. Uno stato di perfetto equilibrio tra ebbrezza e lucidità. Un punto di ispirazione che conduce alla scrittura di raccolte così formalmente pulite e, insieme, così profondamente viscerali.

È proprio la pulizia formale la caratteristica più evidente dell’intera produzione di Valduga, da ricondurre indubbiamente alla scelta, mai tradita, di riproporre forme metriche tradizionali. I metri scelti sono vari e spaziano dai più comuni, il sonetto o l’ottava, fino a quelli più insoliti come il sirventese della Corsia degli Incurabili (Garzanti, 1996). La presenza del sirventese, metro rarissimo nella tradizione letteraria italiana, è il risultato di una tendenza propria di quel movimento detto neometricismo, nel quale si colloca la stessa Valduga, volto a sperimentare forme anche rare e ricercate. Il rapporto dell’autrice con il tipo di metro utilizzato non è però limitato al puro sperimentalismo, è invece un atteggiamento, come viene detto da Cortellessa, quasi “vampiresco”[ii]; l’autrice sfrutta un determinato metro fino alla consunzione di tutte le possibilità espressive e, prosciugatone uno, si sposta verso un altro. Considerato questo tipo di atteggiamento, la forma più feconda sembra essere la quartina, forma che non ha ancora esaurito la sua potenzialità espressiva come dimostra la riproposizione in Belluno. Bisogna, però, fare una dovuta considerazione: le quartine della sua ultima raccolta sono ben lontane da quella straordinaria purezza formale che possiamo trovare nelle Cento Quartine (Einaudi, 1997): in questo nuovo libro notiamo che il metro tende ad incepparsi, a essere discontinuo, in qualche significativa seppur rara occasione.

 Proprio queste deviazioni metriche portano, ad esempio, Giancarlo Politi a definire Belluno un’opera “bellissima ma esile”, arrivando a chiedersi addirittura se l’autrice non stia esaurendo la sua “vena”[iii]. A sostegno di questa tesi Politi presenta alcuni versi dove il flusso poetico sembrerebbe incepparsi: “E non parlate tutti quanti insieme! / Mi rompete la metrica, imbecilli. / Ho nella testa qualcosa che preme…/ e non trovo nessuna rima in illi.” E poco più avanti “Vi sento: - Non sa più quello che fa! / Sì che lo so che non sono quartine:/ io mi concedo qualche libertà, / io mi edifico sulle mie rovine.”[iv]

Per una poetessa che ha fatto della padronanza del verso una sua propria firma, queste quartine potrebbero sembrare insolite e, a un primo sguardo, riconducibili a molteplici fattori, dall’affievolirsi della vena poetica, come riportato da Politi, alle condizioni pratiche di stesura della raccolta, affrontata senza il supporto fisico di rimari e zibaldoni. Se riportare tutto alla mancanza di un supporto materiale risulta oltremodo semplicistico, anche l’ipotesi di Politi viene a suo modo ridimensionata, se non smentita, dal testo stesso. Vediamo, ad esempio, nella parte iniziale della raccolta, una serie di quartine composte interamente dai nomi dialettali dei monti attorno a Belluno, accostati attraverso uno spiccato gioco fonico, frutto forse dell’influenza di Carlo Porta di cui l’autrice ha recentemente curato una traduzione. Queste quartine, seppur non confutano direttamente la tesi di Politi, sicuramente dimostrano ancora con quanta maestria Patrizia Valduga padroneggi il verso. In secondo luogo, invece, sono gli stessi versi, indicati come sintomo di un certo incepparsi del flusso metrico, che servono maggiormente a confutarlo: vediamo, infatti, come “l’errore”, la deviazione metrica, venga integrata fluidamente nella narrazione poetica riuscendo a diventarne parte integrante; in questo modo, ponendo in bella vista l’errore si riesce a camuffarlo, a rivendicarlo, così da non poterlo più chiamare errore o deviazione.

Continuando a rispondere a Politi, esaurito almeno in parte il discorso metrico, dobbiamo necessariamente prendere in esame il contenuto. Contenuto che sembra presentare numerose differenze con le raccolte precedenti. Lo stesso Politi afferma: “dal suo linguaggio è scomparso il dirompente e selvatico erotismo giovanile, la pornografia in rima, per lasciar posto a dissacranti invettive sociali.”[v]. Eccoci davanti a un altro punto focale: la narrazione erotica è scomparsa, niente eros e thanatos, niente impudico fotogramma erotico. Che sia questa la differenza più sostanziale dello “stile tardo” di Valduga?

Sicuramente la scomparsa di una tema molto presente nell’autrice, tema che alcuni hanno addirittura associato con l’intera sua opera, porta a un iniziale senso di spaesamento.

Per andare più a fondo in questa problematica è bene iniziare a presentare il contenuto di Belluno.  Nella raccolta, figura dominante non è, come si potrebbe pensare, quella della città da cui prende nome il titolo. Belluno, con i suoi monti, funge da scenografia unificante per il discorso in sé; il protagonista diventa, invece, lo sconforto e la solitudine di tutti gli anni del “dopo-Giovanni” (Raboni). A dimostrazione di ciò prendiamo in esame la quartina di apertura: “Più nessuno su cui poter contare:/ allora è questo diventare adulti? / E il cervello che prende a sobbalzare, / come in un pianto, come tra singulti…” e, subito dopo: “Ma cosa ho fatto in questi quindici anni?/ Mi pare di esser stata sempre sola…/ a infracidire… fradicia di affanni…/ Dilla per me, Johannes, la Parola![vi].

Oltre la presentazione di un tono e di un contenuto che saranno presenti in tutta la raccolta, frutto di una solitudine di quindici anni, di un’assenza che perdura, già da queste due prime quartine vediamo rispecchiate le parole impresse nella quarta di copertina: “[…] nella sua assenza Raboni si sdoppia in Johannes di Dreyer e si risdoppia in Don Giovanni di Da Ponte”. Esplicito è il riferimento a Ordet di Dreyer; poco più avanti, e innumerevoli altre volte, si ritroverà il Don Giovanni di Da Ponte. Appurata la correttezza dell’informazione della quarta è necessario provare almeno a spiegare cosa rappresentino queste due diverse figure. Johannes è l’uomo vicino a Dio che possiede la parola che risveglia i morti e, in quel gioco di riflessi che si sviluppa nella raccolta, Raboni possiede la parola che permette la “comunione dei vivi e dei morti”. D’altra parte, il significato dello sdoppiamento nel Don Giovanni è un po’meno evidente: se Raboni diventa Don Giovanni, allora questo sottintende un abbandono, come il protagonista dell’opera abbandona tutte le sue amanti. In questo duplice sdoppiamento possiamo quindi vedere come Raboni diventi il segno sia di una comunione che di un abbandono e come, a sua volta, il sentimento dell’autrice si scinda tra la frustrazione dell’amante abbandonata e il desiderio di ricongiungimento abbattendo la barriera della morte. A questa sfaccettata trattazione sentimentale si associa però una diversa disposizione del contenuto. Il tono improvvisamente cambia e, dal ripiegamento interiore, elegiaco se vogliamo, si passa ad una scrittura polemica, violenta, si inseriscono nel testo quelle invettive sociali a cui faceva riferimento Politi.

 

 

Senza poter rendere la finissima variazione dei temi presenti in Belluno, vale la pena di evidenziare il cambio, a volte improvviso a volte graduale, delle tonalità e del linguaggio, fuso grazie alla grandissima abilità di Patrizia Valduga, capace di mantenere omogenea una così svariata gamma di componenti in una narrazione poetica sostenuta e mai retorica.

Torniamo al problema che era stato evidenziato da Politi: la scomparsa della narrazione erotica. Iniziamo proprio con il prendere in esame quell’invettiva sociale che sembra aver apparentemente occupato il posto della “pornografia in rima”. Da premettere che tutto quello che noi qui consideriamo invettiva sociale non presenta mai, e non ha nulla a che vedere con un certo tipo di denuncia moralistica e sentenziosa: al contrario, la violenta polemica è data da una sottile e pungente ironia che bersaglia tutto, dai “capetti del PD” ai critici, ai quali è riservato un trattamento speciale nell’elencare sarcasticamente alcuni ritagli di frasi della loro “criticheria”.

La parte più polemica della raccolta deriva, come recita un verso di una delle quartine dell’incipit, dalla volontà di stare “nel mondo consapevolmente”. Per poter presentare al meglio questo aspetto prendiamo in esame una quartina che, nonostante forse non sia una delle più incisive, presenta apertamente il nodo centrale della polemica: “Dreyer è morto cinquant’anni fa:/ non ho visto una riga… Non conviene:/ al popolo si dà quel che sa già. / Ah! L’ignoranza la si insegna bene.”[vii] Da qui si può già iniziare a individuare quel filo che guida la polemica attraverso tutti i suoi bersagli: è proprio l’ignoranza, quella mancanza o distrazione culturale che vediamo denunciata in ogni frangente della raccolta. La ritroviamo nell’ “insipienza dei pezzi culturali”, nella “mancanza di spessore culturale” degli esponenti del Partito Democratico e, come abbiamo visto, nel popolo. Fatto tornare a galla il nodo centrale del problema, Patrizia Valduga conclude il discorso polemico con queste due quartine: “Ma cosa faccio, io, del mio Ideale, / in questa tirannia del capitale / che prescrive il regresso culturale / e fa fiera di falso universale? // Io dico a tutti i morti in fondo al mare: / perdonatemi di essere così… / La luna si nasconde e poi riappare. / Vorrei essere meglio di così”[viii].

È evidente che, in Belluno, la partitura erotica si sia eclissata; ma non è qualcosa di inaspettato. Segni di questo tipo si possono individuare anche nella raccolta precedente, Il libro delle laudi (Einaudi, 2012) dove, tra lo straziante compianto di Raboni e i ricordi d’infanzia, si infiltra un’invettiva polemica che ricorda, neanche troppo vagamente, quella presente in Belluno. Leggiamo ad esempio: “Tutto è prostituzione trionfante, /ripugnante oltre ogni misura. / Ehi direttori! Io vi denuncio per / vilipendio della letteratura[ix].

Ebbene, è chiaro come l’invettiva polemica non sia un’esclusiva della nuova raccolta. Il linguaggio utilizzato dalla Valduga sperimenta da tempo quell’accostamento di forma alta e di linguaggio basso, come è mostrato in questa quartina di Belluno, quasi un testamento o una dichiarazione di poetica: ““[…] è l’impoetico la mia poetica:/ il poetico ammazza la poesia[x]. In questi versi viene espresso uno dei punti cardine della produzione di Valduga, ossia “l’impoetico”: questa voluta impoeticità va accostata alla presenza persistente di una componente che potremmo azzardare a definire “poeticissima”, vale a dire la ripresa di elementi appartenenti alla più alta tradizione poetica, partendo dalla forma metrica scelta fino alle vere e proprie citazioni che costellano tutti i versi di questa poetessa (da notare ad esempio i calchi da Da Ponte, oltre quelle da Ezra Pound e, immancabilmente, dall’opera di Giovanni Raboni).

Questo straordinario accostamento viene spiegato da Cortellessa che afferma: “Sarà d’ora in poi - quest’infiltrazione del basso nelle partiture alte della tradizione più curiale sino al pornografico o al corporalitico delle Quartine - un connotato permanente dell’opera valdughiana.”[xi] Non sbagliava Cortellessa quando diceva “permanente”, perché neanche in Belluno la poetessa si discosta da quello che ha sempre contraddistinto la sua opera. Certamente adesso quell’impoetico, quel “basso”, non è dato dall’esplicita componente erotica ma dall’esplicita e feroce polemica sociale che produce lo stesso effetto straniante di sempre, e che rende unica e irripetibile questa forma poetica.

Sulla stessa questione dell’accostamento tra basso e alto è utile vedere cosa sostiene Andrea Afribo in riferimento alla prima raccolta di Valduga, Medicamenta (Guanda, 1982): “amore e morte, pornografia e desiderio di innocenza, trionfo e abiezione della corporeità si traducono in una miscela linguistica che fa cozzare il sublime letterario, l’aulicismo che è spesso arcaismo poetico, con gli opposti del comico e del disfemico. È appunto, in tale trasgressione, che per statuto chiede limiti e tabù, si situa al centro del sistema la legge della metrica tradizionale […]”[xii].

La forma metrica chiusa funziona quindi come “gabbia”, “come argine […] in cui ingabbiare un dirompente flusso di emozioni”. In Belluno troviamo gli stessi immancabili accostamenti di linguaggio che spaziano dal turpiloquio alla citazione letteraria alta. Il gioco di accostamenti e il contenitore del verso su cui si regge la scrittura di Valduga sono ancora presenti e restituiscono l’immagine di un’opera dove sacro e osceno ancora dialogano tra loro.

Questo rapporto di continuità e discontinuità con le sue precedenti raccolte contrassegna anche il persistere e le variazioni intorno al tema erotico. Secondo il pensiero di Susan Sontag in riferimento a Bataille, anche per Valduga l’eros “non è il sesso, bensì la morte”. È l’autrice stessa a rivendicare questa duplice natura dell’erotismo. Si legga questo passaggio tratto dalle Lezioni d’amore, in conclusione del terzo atto: “Essere scrittori erotici non è indizio di salute sessuale, Amare come amo io le parole non è indizio di salute sessuale. Parole e versi sono fiori sulla mia tomba, sono fiori morti su me morta[xiii]. Le caratteristiche di questo avvicinamento, se non proprio miscuglio di eros e thanatos possono essere sintetizzate e chiarite servendoci delle parole di Enrico Testa che vede l’erotismo di quest’autrice come “forma privilegiata di contatto con l’essere come origine e fine e quindi, nel vuoto di ogni trascendenza, strada maestra verso la morte”. [xiv]

L’incontro con la morte avviene in Belluno attraverso quella comunione dei vivi e dei morti esperita a diretto contatto con la memoria e con i versi di Raboni, comunione senza filtri che porta a questa quartina: “Sono a Belluno a Padova a Milano / i tre morti che mi tengono in vita… / che chiamo… che mi tengono per mano…/ e mi accoglieranno seppellita.[xv]

 

 

 


 

[i] Intervista di P. Valduga rilasciata in occasione del conferimento del Premio letterario Castelfiorentino 2012.

[ii]  A. Cortellessa, Patrizia Valduga, in Parola plurale, Luca Sossella Editore, 2005.

[iii]  G. Politi, La collezionista di rime baciate, rubrica Amarcord di «Flash Art», 25 luglio 2019.

[iv]  P. Valduga, Belluno, andantino e grande fuga, Einaudi, 2019, p. 22 e 45.

[v] G. Politi, La collezionista di rime baciate, cit.

[vi] P. Valduga, Belluno, andantino e grande fuga, cit., pp. 3 e 4.

[vii] Ivi, p. 57.

[viii] Ivi, pp. 77 e 78.

[ix] P. Valduga, Il libro delle laudi, Einaudi, 2012, p. 52.

[x]  P. Valduga, Belluno, andantino e grande fuga, cit., p. 82.

[xi] A. Cortellessa, Patrizia Valduga, in Parola plurale, cit.

[xii]  A. Afribo, Poesia italiana postrema, Carrocci, 2017.

[xiii] P. Valduga, Lezioni d’amore, Einaudi, 2004.

[xiv] E. Testa, Dopo la lirica, Einaudi, 2005.

[xv] P. Valduga, Belluno, andantino e grande fuga, cit., p.84.