Sabato, 19 Agosto 2023 18:21

Una parola che "suona bene". Umberto Fiori tra voce e scrittura

Scritto da Mariaelena Tucci
Umberto Fiori Umberto Fiori

Durante la pausa estiva ripubblicheremo alcuni articoli presenti nell'Archivio del Centro di ricerca.

Buone vacanze dal Pens!

 


 

 

 

La poesia di Umberto Fiori trae forma da un ineludibile e costante confronto con la canzone e con la sua “parola incarnata”. “Confrontarsi – come affermerà il poeta stesso – non significa adeguarsi”, al contrario, vuol dire essere consapevoli dei contrasti e delle differenze che sussistono nei legami tra musica e poesia per far sì che quest’ultima possa rivendicare “le ragioni profonde e antiche della propria disincarnazione” senza, tuttavia, rinunciare alle contaminazioni contemporanee[1].

Nato a Sarzana nel 1949, laureato in filosofia, studioso della canzone popolare americana, Fiori entrerà a far parte, nel 1973, come cantante e autore degli Stormy Six, tra i più importanti esponenti del rock progressivo italiano degli anni Settanta[2], periodo in cui l’irruzione della storia sociale nella musica trasformerà la canzone politica, originariamente intesa come canzone delle classi subalterne, in uno strumento finalizzato al coinvolgimento delle grandi masse[3]. In tal senso, Fiori si porrà come obiettivo la riabilitazione della canzone, la quale ha a lungo convissuto con un marchio di illegittimità culturale, trasformandola in “oggetto ideale per un approccio sociologico” e in elemento fondante per lo sviluppo della coscienza dell’individuo e della collettività[4].

Se i brani degli album Un biglietto del tram (1975) e L’apprendista (1977) toccheranno i temi della Resistenza (Dante di Nanni, 8 settembre), del mito del comunismo (in Stalingrado, ad esempio, si rievocano gli aspetti più cruenti, ma anche più gloriosi dell’omonimo assedio) e delle dure condizioni lavorative imposte dalla nuova società capitalistica (si vedano, a tal proposito, Buon lavoro! e la title track L’apprendista), gli ultimi due lavori degli StormySix (Macchina maccheronica, 1980 e Al volo, 1982) si discosteranno più nettamente dai contenuti politici a vantaggio di uno sguardo ravvicinato sulle innumerevoli contraddizioni della contemporaneità: la vita frenetica delle città e i percorsi solitari degli uomini sono raccontati con un linguaggio più criptico ed ermetico (dal brano Somario: “[…] è l’ombra del significato / si può seppellire / o pregare intatto”) che sembra ispirarsi al lessico esistenzialista di Nietzsche e di Heidegger, i quali hanno influito notevolmente sulla formazione del poeta di Sarzana[5].

 

 

Nei testi di Fiori i riferimenti filosofici si accostano a quelli letterari, da La sepoltura dei morti (1975), riadattamento di uno dei capitoli più celebri del poemetto Waste Land (1922) di T.S. Eliot sul dramma della carneficina di innocenti causata dalla guerra, a Cuore (1977), critica alla retorica deamicisiana sulle vicende patrie del Risorgimento, fino a Le lucciole (1980) ispirato a un articolo di Pasolini pubblicato qualche anno prima sul “Corriere della Sera” (dal titolo Il vuoto del potere, meglio conosciuto come L’articolo delle lucciole) per affrontare la perdita di ideali indotta dalla civiltà dei consumi (“Odio imperfetto, / dispetto, disperazione: / faccia-facciamo / che noi eravamo)[6].

Lungi, dunque, dall’essere semplici canzoni “di protesta”, i testi di Fiori si pongono come un vero e proprio prodotto socio-culturale, attraverso i quali egli stesso ha potuto elevare a un grado maggiore di problematicità la riflessione personale sui rapporti che intercorrono tra musica e letteratura, presagendo così la necessità di un certo tipo di linguaggio, quello poetico, più confacente a sé e al raggiungimento di una nuova dimensione espressiva[7].

Dopo lo scioglimento degli Stormy Six, infatti, Fiori attraversa una fase di “totale spaesamento”, in cui appaiono crollare anche tutte le certezze ideologiche legate alla sua scrittura[8], e in seguito alla quale dà vita a Case (1986), che si pone come una plaquette anticipatoria della sua prima vera raccolta di versi, Esempi, edita da Marcos y Marcos nel 1992[9]. Nonostante nelle prime prove poetiche l’idea di parola sia ancora legata alla sua esperienza di paroliere, attraverso la quale aveva istaurato un rapporto immediato, quasi fisico, con i suoi destinatari, l’autore ora percepisce nella creazione di versi “muti”, ossia finalizzati solo ed esclusivamente alla pagina e alla lettura e non più al canto, “un senso nuovo di libertà, di verità, di serietà”[10]. Il significato di questo trapasso creativo ed esistenziale è esplicitato in modo particolare nel suo saggio Etica e poesia (1993). Fiori percepisce il canto come “il discorso che si espone e si affida intero a chi ascolta, e così intero va incontro al fraintendimento[11], ma anche come un momento imprescindibile dalla poesia (“Per essere poeta, dunque, occorre saper cantare”), in quanto quest’ultima, a differenza del canto, non si limita soltanto ad arrivare alle parole, provare a parlare, provare cos’è parlare, ma va oltre, attraversando l’esperienza fino in fondo e fornendo gli esempi, appunto, “di quel parlare che riguarda ciascuno e tutti”[12].

In altre parole, Fiori nei suoi versi andrà alla ricerca di quella parola a lui comune, come un animale che ha dimenticato il proprio verso, e – “fischiando, soffiando, digrignando” – se lo cerca in bocca per ritrovare se stesso[13]; una parola che suona bene, che ha voce, “quella che più di ogni altra gli è nota, irrimediabilmente nota, quella che gli impone la sua assoluta familiarità come una norma non giustificata da scopi, non sostenuta da spiegazioni […]”[14]. Al contempo, però, egli proverà a negare la voce (“intesa non come udibile foné, ma come fonte singolare del discorso”) di quella stessa parola, in virtù di una soggettività sublimata, trasfigurata, o meglio ancora neutralizzata e disincarnata, tanto cara a Mallarmé e poi riformulata da una parte dei poeti italiani del Novecento come Montale e Fortini[15].

 

 

In tal senso, appare significativo che Fiori abbia scelto di inaugurare il suo percorso poetico “ufficiale” con una raccolta di versi intitolata Esempi: le sue poesie, infatti, prive di caratterizzazioni autobiografiche e storico-geografiche, sono in realtà degli apologhi, cioè quelle storie virtuali che in latino prendono proprio il nome di exempla, dove, analogamente, il tempo e i luoghi sono trattati astrattamente, genericamente, e i personaggi sono dei quidam[16]. È proprio da queste brevi narrazioni, esempi al massimo rappresentativi dei comportamenti umani, che sembrano prendere le mosse i versi del poeta di Sarzana, il quale, specialmente fino alla raccolta Chiarimenti (1995), eclisserà il suo io per sentirsi più libero “di spremere una lezione salutare da quei fatti quotidiani che sinteticamente racconta”[17]. Le poesie del “primo” Fiori sembrano così sviluppare quei temi già presenti in nuce nelle ultime canzoni composte per gli Stormy Six: anche qui, infatti, prevalgono spazi metropolitani indefiniti, strade e viali percorsi in continuazione dai mezzi pubblici e piazzole di sosta, fino alle stazioni, dove vite qualsiasi s’intrecciano senza mai incontrarsi (“Insieme a tutti gli spiriti, / da una distanza senza misure, / si reggono negli occhi / cose e persone”[18]). Il poeta continua a registrare la presenza e l’atteggiamento degli uomini nei luoghi della modernità, sottolineando il senso di smarrimento causato da quest’ultima[19]. Ecco, dunque, che la frequente ricorrenza dell’immagine delle “case” sembra rappresentare appieno questo stato di alienazione (“Come quando la luce va via / e nelle case / si sfiorano gli stipiti, si va da un buio / a un altro buio”[20]), laddove i “muri” creano una dimensione di sbarramento verso l’esterno e, quindi, verso la conoscenza dell’Altro, e si pongono come il riflesso degli sguardi pietrificati di chi vi abita all’interno (“Nei muri bui dei palazzi lì sopra / le finestre si aprono, si accendono […] Si tirano le tende /e si rimane intorno a questo urlo / come si sta in un campo / intorno a un fuoco”)[21]. La solitudine dell’uomo contemporaneo appare ancora più evidente nella prima poesia di Chiarimenti, intitolata emblematicamente Il discorso e la voce: dalle sette sezioni che la compongono, infatti, emergono dialoghi vuoti che spesso sfociano in una totale incomunicabilità tra gli interlocutori (“[…] a parte quando si ride/ nessuno è poi lì dov’è / nessuno parla – o ascolta – veramente”)[22]. Il “chiarimento” cui allude ironicamente il titolo della raccolta è, dunque, impossibile da raggiungere, in quanto ostacolato – come sosterrà l’autore stesso – dai limiti della dialettica e della ragione umana[23].

Nonostante, dunque, le evidenti analogie soprattutto con i testi di Macchina maccheronica e Al volo, le prime raccolte poetiche di Fiori presentano rispetto ad essi alcune significative differenze: vi è innanzitutto l’adozione di un certo lessico comune (oltre a “case”, ricorrono spesso parole come “gente”, “bambini”, “cani”, “cose”) ma, allo stesso tempo, riconoscibilissimo e letteralmente memorabile, quasi sempre finalizzato alla creazione, attraverso pochi tratti, di una storia munita di personaggi e costantemente distinta in due momenti[24];  il primo, come si è già visto, descrive la routine di ogni giorno, rassicurante e protettiva, ma anche monotona e devitalizzante; il secondo, invece, sovverte il primo, e lo fa “all’improvviso”, “di colpo”, con un evento tanto banale e casuale quanto inconsueto (come uno scontro involontario tra due passanti, lo squillo di un telefono o di una sveglia nell’appartamento del vicino), poiché in grado di rompere l’abitudine e di far vedere il mondo in una luce nuova, più vera[25]. Da ciò consegue che i predestinati all’annunciazione del miracolo o all’epifania siano degli uno qualsiasi, né migliori né peggiori di altri, e che tutti, potenzialmente, possano diventare dei santi, siano essi “una signora – / o magari un vigile” che, anche con una sola parola, rivelino il prodigio di una come nuova rinascita del mondo[26].

Nel momento epifanico, in cui Fiori attua un superamento rispetto alla critica degli aspetti negativi della contemporaneità che avevano caratterizzato la sua fase “canzonettistica”, le voci umane diventano una “musica rauca, velata”, come un “rumore di onde”[27]; il chiasso si trasforma in canto (“Quando poi in mezzo al chiasso, in una frase, / si è sentito quel timbro che fuori suona / gelido come dentro, è stato chiaro: / eravamo sul punto di cantare”[28]) e anche le cose inanimate, come i monti, i campi, i binari, i fiumi, “dove tutto si perde e manca […] Si lasciano ascoltare e vedere” in tutta la loro essenza[29].

 

 

 

Anche nelle raccolte successive, Tutti (1998), La bella vista (2002), Voi (2009), le poesie di Fiori ricalcano gli stessi moduli, lo stesso linguaggio e, quindi, gli stessi intenti, seppur con alcune significative modifiche[30]. A partire da Tutti, infatti, l’autore inizierà gradualmente a recuperare il suo io; non si tratterà, però, della comparsa di un io autobiografico in senso stretto, quanto piuttosto di un io lirico che, nel tentativo di descrivere, ancora una volta, paesaggi anonimi e persone senza identità, cercherà ora di contraddistinguere il suo senso di straniamento e, quindi, la sua presenza nel mondo[31]. Emblematica, in questo senso, è la poesia Volo, dove Fiori paragona la caduta improvvisa di alcuni “formiconi con le ali” su una tavola apparecchiata all’aperto alla sua caduta, “verso i trent’anni […] in mezzo alla gente vera”, rimandando così per la prima volta al suo io poetico, alla sua esperienza[32].

Ma non è tutto. Una volta piombato nella realtà, il personaggio “Umberto Fiori” tenterà di stabilire un contatto, una qualche forma di comunicazione autentica con gli altri, ma invano (“[…] sono salito/ sull’extraurbano delle sei e venti/ del mattino, pieno di gente, / e lì mi ha tolto il fiato la meraviglia / di ritrovarmi senza compagnia”[33]): si assiste così all’esibizione di un forte senso di inadeguatezza e di esclusione da una verità, da un’autenticità che sembra risiedere soltanto nei voi (“Voi siete il bene, noi io. Questo è vero. / Questo ci salva. Lo so. L’ho imparato”)[34]. Dall’impossibilità, dunque (maturata specialmente nell’ultima raccolta poetica) per l’io e il voi di fondersi nella prima persona plurale, il noi, Fiori acquisisce un’ulteriore consapevolezza, ossia che il momento epifanico sia rappresentato da una comunità che si ritrova, senza strategie di sovranità o annessione, e che aggrega le sue voci individuali in un canto (“Le rare volte che […] uno di voi si accende / da capo a piedi, e la voce precisa, / la voce che è sua / lo trova, lo riempie, e canta, /ascolto e tremo / di sgomento e di gioia”[35]) o, meglio ancora, in un coro (“Urlo con voi. La mia voce / si perde nel vostro coro”)[36].

È interessante notare come Fiori sembri partire da quest’ultimo punto, cioè da una rinnovata considerazione della “musicalità” nella parola poetica, per dare vita, insieme al chitarrista elettroacustico Luciano Margorani (molto attivo nella scena italiana del rock sperimentale), a un ambizioso progetto, chiamato Sotto gli occhi di tutti, un album nato nello stesso anno della raccolta di versi Voi e che, al contempo, si pone come seguito di Pseudocanzoni (2005), uscito solo a nome di Margorani, ma nel quale erano già presenti ben cinque brani scritti e cantati dal poeta di Sarzana[37].

 

 

Pseudocanzoni” appare la parola-chiave attraverso la quale è possibile comprendere al meglio Sotto gli occhi di tutti, il cui titolo si ispira al verso di un componimento dello stesso Fiori[38]. L’album, infatti, prende le mosse dalla riscrittura, a volte anche radicale, di alcune sue poesie, le quali, una volta trasformate, sono cucite solo su trame chitarristiche preziose ed essenziali: il risultato è dato da sedici tracce, tanto distanti dalla reading musicata quanto dalla canzone vera e propria, in cui le parole – come spiega lo stesso poeta – “emergono e trascorrono, e che solo la memoria “vede” intere, nel loro tremante costrutto”[39]. Più che al testo di partenza, però, il poeta cerca di restare fedele al suo “seme”, all’idea di fondo che lo ha generato, servendosi sempre di quella lingua aliena da enfasi e virtuosismi e muovendosi tra quelle costanti (dalle “care case” alla “curva del viale”, dalle discussioni accese alle voci che risuonano in una stanza) che “dicono di un’eludibile criticità, di un destino problematico, di un’esistenza difficile, dove “parlare è sempre troppo e non è mai abbastanza”[40].

I progetti più recenti di Fiori, tra i quali è opportuno menzionare Benvenuti nel ghetto (2013), album degli Stormy Six nato dalla collaborazione con l’attore di origini ebraiche Moni Ovadia in cui ritornano i temi della “grande storia”, rappresentano la “quadratura del cerchio” di un percorso artistico, tuttavia, ancora in divenire[41]. Se è vero che il ritorno alla poesia “con la bocca” deriva da una “nostalgia di vocalità”, come se le parole sulla pagina avessero chiesto di essere abitate – non meno delle case – dalla voce del suo autore, è anche vero che la poesia “senza bocca” di Fiori trae tuttora origine dal tentativo di ritentare in modo più moderno la grande tradizione del Novecento, la quale, scevra da “pesantezze” convenzionali, attraversa i suoi versi come sottotraccia per mantenere vivo il linguaggio[42].

Pur essendo consapevole di una certa autonomia che intercorre tra musica e letteratura, nei suoi lavori Fiori parte sempre da una fondamentale considerazione, ossia “che la poesia (musicata o no) comincia dove finiscono le avvertenze, i programmi, le spiegazioni, e si apre la libertà di chi ascolta, la nudità del canto che gli si consegna”[43].

 

 

 


 

[1] Cfr. U. Fiori, Poeti con e senza bocca, in Scrivere con la voce. Canzone, rock e poesia, Milano, EdizioniUnicopli, 2003, p. 140.

[2] Gli Stormy Six, nati a Milano nel 1965 inizialmente come gruppo beat dalle influenze country e psichedeliche, a partire dall’album Guarda giù dalla pianura (1973) fino Al volo (1982) si avvicineranno a tematiche più strettamente politiche e a sonorità più progressive, acquisendo (in modo particolare con il disco Un biglietto del tram, 1975) un ruolo di punta nello scenario del rock italiano dell’epoca. Si scioglieranno nel 1983 per poi riunirsi dieci anni dopo, tenendo saltuariamente dei concerti. Il gruppo, oltre a Fiori, annovera tra i suoi membri Franco Fabbri, chitarrista, cantante e compositore (e, in seguito, musicologo) e Tomaso Leddi, anch’egli compositore e polistrumentista.

[3] Cfr. F. Fabbri, U. Fiori, Crisi e prospettive della canzone politica italiana, in “Quaderni di Musica/Realtà”, anno 1, n.1, aprile 1980, p. 174.È infatti a partire da questo periodo che la storiografia, almeno negli ambiti meno accademici e paludati, si soffermerà sulle vicende degli emarginati, degli “ultimi”, contrapponendosi alla storia politica tout court: da questi presupposti si affermerà, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Novanta e in linea con l’esperienze degli Annales, la pratica storiografica della microstoria che nasce dalla riflessione di alcuni studiosi (Simona Cerutti, Carlo Ginzburg, Giovanni Levi)riuniti nella rivista “Quaderni storici” (1966), la quale a sua volta darà vita alla collana “Microstorie” (1981-91). In musica va ricordata, in tal senso, l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano, che si occuperà della riscoperta e della valorizzazione dei canti risorgimentali e di protesta.

[4] U. Fiori, Tra quaresima e carnevale. Pratiche e strategie della canzone d’autore, in Scrivere con la voce, cit., p. 15.

[5] Cfr. G. Casagrande, Intervista a Umberto Fiori, in http://www.poesia2punto0.com/2010/06/28/.

[6] U. Fiori, F. Fabbri, Le lucciole, 1980. Pasolini, infatti, nel suo articolo (apparso il 1° febbraio 1975 sul “Corriere della Sera”) paragona la scomparsa delle lucciole, avvenuta in Italia nei primi anni Sessanta a causa dell’inquinamento, all’annientamento dei valori umani causato dal “fascismo democristiano”, considerato la seconda fase del “fascismo fascista” (Da http://www.corriere.it/speciali/pasolini/).

[7] Cfr. A. Temporelli, Dire l’evidenza muta. La poesia di Umberto Fiori, in www.andreatemporelli.com.

[8] Franco Fabbri, nella biografia della band (in http://www.francofabbri.net) racconta che l’album Al volo (1982), “esaurite le prime migliaia di copie”, scompare dal mercato; “dopo la tournée estiva, rimasto in mezzo al guado tra l’organizzazione artigianale su cui si è sempre basato e l’assetto industriale necessario per continuare, il gruppo decide di sciogliersi”.

[9] In Case (edito per le Edizioni S. Marco dei Giustiniani) vi è, infatti, una sezione di prose e un numero esiguo di poesie (sedici in tutto), delle quali soltanto la metà confluirà in Esempi (Cfr. A. Temporelli, Dire l’evidenza muta. La poesia di Umberto Fiori, cit.).

[10] Lo stesso Fiori, in un’intervista di F. Giarretta (in http://www.poesia2punto0.com/2010/06/28), ha dichiarato: “In realtà, ho cominciato a scrivere poesie ben prima di fare il musicista. Entrando negli Stormy Six ho cominciato a scrivere delle canzoni e a cantarle. Questo ha cambiato molto il mio modo di pensare la scrittura: non avevo a che fare con la pagina, non dovevo produrre un testo “muto”, un oggetto verbale disincarnato; le parole andavano concepite fin dall’inizio per essere portate di fronte a un pubblico dalla voce di qualcuno (la mia) […] È un “martirio” nel senso tecnico, etimologico del termine: la parola è “convalidata” da un testimone in carne e ossa. Io questo lo sentivo molto; sentivo il rischio che il senso delle parole correva offrendosi alla gente che ascoltava”.

[11] Lo scritto, contenuto in U. Fiori, La poesia è un fischio. Saggi 1986-2006 (Milano, Marcos y Marcos, 2007, pp. 28-38) e pubblicato per la prima volta nel 1993, prende le mosse da un’omonima conferenza tenuta all’Università “L. Bocconi” di Milano nel giugno del 1989.

[12] Ivi, pp. 36-37.

[13] Cfr. U. Fiori, La voce nelle parole e la poesia, in La poesia è un fischio, cit., pp. 23-24.

[14] Ivi, p. 18.

[15] Cfr. U. Fiori, Respirare il discorso. Sulla nozione di “musicalità” in poesia, Ivi, p. 103.

[16] L’io, “hegelianamente centro e contenuto del genere lirico”, è quasi sempre sostituito da Fiori da degli “uno” qualsiasi, oppure da “due”, “qualcuno”, “tizio”, “nessuno”, “tutti”, “la gente” e così via. Lo stesso procedimento vale per le indicazioni di tempo e di luogo, che si limitano a formule generiche e meccaniche come “Un giorno…”, “una volta”, “ogni mattina”, “quando”; frequente, infine, l’uso dei deittici (“qua intorno”, “lì intorno”, “Le cose sono lì”). Cfr. A. Afribo, Perdere tutte le bravure, in U. Fiori, Poesie. 1986 – 2014, Milano, Mondadori, 2014, pp. VIII - XI.

[17] Ibidem.

[18] U. Fiori, Treno (Esempi), Ivi, p. 70.

[19] Cfr. C. Demi, “Poesie. 1986-2014” di Umberto Fiori, in http://www.altritaliani.net/.

[20] U. Fiori, Illuminazioni (Case), in Poesie, cit., p. 10.

[21] U. Fiori, Allarme (Esempi), Ivi, pp. 44-45. Per Fiori stesso, “casa” è “una parola che, a ben vedere, è la più semplice che ci sia insieme forse con “mamma”. Poi – aggiunge – la parola casa è anche una delle prime che si imparano nel sillabario, proprio una delle parole primarie. Collegato a questo c’è anche un’idea di visibilità, di antropomorfismo della casa, per cui c’è lo sguardo della casa, le facce delle persone che sono pietrificate o rappresentate nei muri delle case, nei muri ciechi di Milano” (Da un’intervista a Umberto Fiori, dal titolo I muri ciechi di Milano, realizzata da R. Ronchi e G. Saporetti e pubblicata sulla rivista “Una città”, n. 26, ottobre 1993).

[22] U. Fiori, Il discorso e la voce (Chiarimenti), in Poesie, cit., pp. 75-77.

[23] Cfr. M. Borio, Intervista a Umberto Fiori su Voi, in http://www.poesia2punto0.com/2010/06/28/.

[24] Il linguaggio “senza aureola e senza visibili estetismi” utilizzato da Fiori denota una somiglianza di fondo con una linea importante della poesia del Novecento, cioè quella percorsa, a partire dagli anni Sessanta, da autori come Sereni, Raboni, De Angelis e Cucchi, con Montale come modello più o meno omaggiato (Cfr. A. Afribo, Perdere tutte le bravure, in U. Fiori, Poesie, cit., p. VII).

[25] Cfr. A. Afribo, Perdere tutte le bravure, in U. Fiori, Poesie, cit., pp. V-XII.

[26] Si legge, infatti, in Per strada (Chiarimenti, Ivi, p. 91): “Se all’angolo una signora / - o magari un vigile - / si volta / con la faccia scavata dalla luce / della bella giornata / e parla – proprio a me, / a me, qui – del rispetto che si è perso / o del caldo che fa, / io mi sento mancare, come un santo / quando lo sfiora l’eternità […]”. Gli annunciatori del miracolo non sono più, dunque, delle figure trascendentali (come Clizia, l’“angelo della visitazione” di Montale) o, comunque, dei personaggi dalle qualità non comuni (si pensi, in tal senso, agli “sportivi” di Sereni, definiti da Fortini come “figure dell’alterità”), ma degli esseri umani qualsiasi,interscambiabili tra loro (Cfr. G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, La letteratura. Dal dopoguerra ai giorni nostri, cit., pp. 672-673 e F. Fortini, Saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 179).

[27] U. Fiori, Il discorso e la voce (Chiarimenti), in Poesie, cit., p. 81.

[28] U. Fiori, Discussione (Esempi), Ivi, p. 37.

[29] U. Fiori, Treno (Esempi), Ivi, p. 71.

[30] Cfr. L. Zuliani, Mento di Umberto Fiori, in A. Afribo, S. Bozzola, A. Soldani (a cura di), Le occasioni del testo. Venti letture per Pier Vincenzo Mengaldo, Padova, CLEUP, 2016, p. 369.

[31] A tal proposito, è doveroso citare Il conoscente (2014), un pometto incompiuto, incluso nelle Poesie 1986-2014, in cui l’io narrante (di cui non viene detto pressoché nulla, se non che vive e si muove in ciò che appare come la periferia di una città) incontra in diversi luoghi, dall’autobus al posto di lavoro, una persona conosciuta nella sua vita precedente (Ivi, pp. 370-372).

[32] U. Fiori, Volo (Tutti), in Poesie, cit., pp. 125-126.

[33] U. Fiori, Fondali (Tutti), in Poesie, cit., p. 129.

[34] U. Fiori, Voi siete il bene, non io. Questo è vero (Voi), Ivi, p. 244. Cfr. anche J. Grosser, Di alcune poetiche relazionali nella poesia italiana contemporanea, in “L’Ulisse”, n.18, 2015, p. 222.

[35] U. Fiori, Quando ho quest’aria (Voi), in Poesie, cit., pp. 251-252.

[36] U. Fiori, Sui caschi e sui teloni (Voi), Ivi, cit., p. 255 e Cfr. A. Afribo, Perdere tutte le bravure, Ivi, pp. XVI-XVII.

[37] Cfr. L. Brachetti, Umberto Fiori: Sotto gli occhi di tutti, cit.

[38] Il verso che dà il nome all’album fa parte della poesia Ingorgo (Esempi): “[…] Io mi rimango nascosto, / ma quello che mi brucia dentro è là, / sotto gli occhi di tutti” (da U. Fiori, Poesie, cit., pp. 39-40).

[39] Cfr. L. Brachetti, Umberto Fiori: Sotto gli occhi di tutti, cit. e U. Fiori, Note di lavoro e istruzioni per l’uso, in U. Fiori, L. Margorani, Sotto gli occhi di tutti, Udine, Block nota, 2009, p.7.

[40] P. Chang, A. Achilli, Premessa, in U. Fiori, L. Margorani, Sotto gli occhi di tutti, cit., p. 4.

[41] L’album Benvenuti nel ghetto (2013) nasce come la registrazione di uno spettacolo, tenutosi al Teatro Ariosto di Reggio Emilia il 20 agosto 2013, in cui gli Stormy Six hanno ripercorso, in undici tracce inedite (“tenute insieme” dalle parti recitative di MoniOvadia), la drammatica rivolta degli ebrei contro le truppe naziste avvenuta nel ghetto di Varsavia il 19 aprile del 1943.h

[42] Cfr. P. Chang, A. Achilli, Premessa, in U. Fiori, L. Margorani, Sotto gli occhi di tutti, cit., p. 4. Le espressioni sulla poesia “con la bocca” e “senza bocca” fanno riferimento a un saggio di Fiori (Poeti con e senza bocca) presente in Scrivere con la voce, cit., pp. 131-140. È inoltre opportuno fare riferimento alla “ritmica invisibile” delle poesie di Fiori, in cui i metri tradizionali (come gli endecasillabi, i settenari, i quinari) e le rime (spesso interne e imperfette) sono molto più diffusi di quanto appaia a una veloce lettura, in quanto questi ultimi non sono segnalati da alcuna “increspatura letteraria” evidente (e L. Zuliani, Mento di Umberto Fiori, in A. Afribo, S. Bozzola, A. Soldani (a cura di), Le occasioni del testo, cit., pp. 375-376).

[43] Cfr. U. Fiori, Note di lavoro e istruzioni per l’uso, in U. Fiori, L. Margorani, Sotto gli occhi di tutti, cit., p. 7.