Sabato, 29 Luglio 2023 17:22

Pagliarani, o della musa pedagogica. Intervista ad Andrea Cortellessa

Scritto da Mino Prima

 

Durante la pausa estiva ripubblicheremo alcuni articoli presenti nell'Archivio del Centro di ricerca.

Buone vacanze dal Pens!

 


 

 

D. Può fare un quadro, anche con qualche suo ricordo personale, della presenza e della funzione di Pagliarani, fino agli ultimi anni di vita, sulla scena della poesia italiana contemporanea (contatti e scambi con i poeti e le poetesse più giovani, partecipazioni a eventi, letture, eccetera)? 

R. Io ho conosciuto Pagliarani nel 1995, quando venne pubblicata La ballata di Rudi. Per la prima volta in quell’occasione lo sentii leggere e fu veramente un colpo, perché avevo ascoltato leggere dei poeti, ma decisamente il calibro e il volume (in tutti i sensi) della performance di Pagliarani era diverso ed è tuttora diverso da quello che si può sentire ora. Ciò malgrado il fatto che negli anni Novanta il suo strumento non era più quello della giovinezza: una potenza e una capacità di vulnerare l’uditorio che hanno pochi termini di paragone in assoluto.

Ma al di là di questo aspetto diciamo di godibilità e musicalità, quello che mi ha colpito molto nella frequentazione di Pagliarani è stata la sua passione didattica: la musa pedagogica di Pagliarani, come appunto la chiamò Raboni in Poesie degli anni Sessanta. È un tema della sua poesia così come della poesia di Pasolini (autore col quale ebbe un rapporto estremamente controverso, travagliato, ma infine di ripresa e di lettura dopo la morte di Pasolini) ma è anche una componente essenziale della sua attività, al di là della scrittura.

Non ho potuto frequentare negli anni Settanta e agli inizi degli anni Ottanta il  famoso laboratorio che, tenuto da Pagliarani prima a casa, poi in strutture pubbliche come le università, ebbe un ruolo importante nella formazione di poeti attivi a Roma che in realtà sono passati, per quella generazione, tutti dal suo magistero. Poeti molto distanti, diversi: penso ad esempio a Magrelli, Zeichen, Albinati, poeti che ricordano tutti l’importanza di questa formazione ma che hanno poi preso strade molto diverse l’uno dall’altro.
Alla fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, la nuova generazione, quella che si riconobbe nel Gruppo 93, accostò il personaggio di Pagliarani quando questo laboratorio non c’era più. E in effetti io lo conobbi al convegno “Ricercare” del 1995, che all’epoca era tenuto dai reduci del Gruppo 63 e presso il quale molti autori sia dei cosiddetti “cannibali” sia appunto dei poeti del Gruppo 93, passarono e si fecero conoscere. Il senso di questa passione pedagogica era proprio quello di cercare di enucleare come un maieuta la potenzialità di ciascun autore.

Non c’è in Pagliarani , a differenza che in altri casi di pedagogia poetica, una volontà di costruire una scuola, un discepolato, di programmare dei propri cloni; al contrario Pagliarani per tutta la vita e soprattutto in quegli anni ha incoraggiato la diversità, la mutevolezza, la bellezza cangiante (come dice l’Hopkins tradotto da Montale) dei giovani poeti: la possibilità quindi, addirittura, di ispirarsi lui stesso a quelle testualità così acerbe. E forse non è un caso se la sua poetica negli anni Ottanta, la sua personale pratica della poesia si sia modificata in modo persino perturbante rispetto ai testi precedenti. Il ritorno al verso breve con Epigrammi ferraresi e con Esercizi platonici è un esempio di questa mutevolezza di Pagliarani. E credo che la sua capacità di tirare fuori quel che di originale e sensato e individuato (o individuale) ci fosse nei più giovani era servito anche a lui a riscoprire un po’ il se stesso degli esordi di Inventario privato, ma anche a rimodulare la poetica del cut-up (la poetica del prelievo) in una forma diversissima da quella del verso lungo e inglobante di Lezione di fisica e delle opere  degli anni Sessanta. 


D. In che modo la vocazione e la produzione teatrale di Pagliarani influiscono sulla sua opera poetica?

R. Senz’altro il teatro, la frequentazione soprattutto del teatro da spettatore di Pagliarani, più ancora che da drammaturgo (perché poi i suoi testi per il teatro arriveranno a essere proposti a partire dagli anni Sessanta, quando si apre a Roma uno spazio specifico dedicato alla testualità teatrale della neoavanguardia, per iniziativa di Giancarlo Celli). Ecco, la frequentazione della scena e degli spettacoli teatrali da parte di Pagliarani sicuramente è precedente e c’è sicuramente un influsso nell’idea di quelle che poi nel titolo di una antologia della sua poesia curata da Alessandra Briganti negli anni Ottanta, Pagliarani chiama poesia per recita: cioè quelli aspetti di performatività del verso che naturalmente chi ha avuto il privilegio di ascoltare dal vivo o chi oggi si propone di seguire dei video delle letture di Pagliarani ben può capire, che rappresentano uno degli aspetti più specifici, una delle specificità maggiori anche nel contesto della neoavanguardia degli anni Cinquanta e Sessanta.

È una dimensione all’aria aperta, si potrebbe dire en plein air, che nelle memorie del Promemoria per Liarosa ci viene restituita con molta fragranza, attraverso l’aneddoticità delle letture conviviali, nei ristoranti come da Poldo a Milano, in cui gli amici, i compagni di strada di Pagliarani potevano ascoltare il cantastorie inscenare i suoi personaggi. E proprio per questo La ragazza Carla era un testo già ben conosciuto (quasi leggendario) molto prima della sua pubblicazione negli anni Sessanta.
Questa dimensione dal vivo, acroamatica (come dicono gli studiosi di oralità) si è molto accentuata negli anni, ed effettivamente alcuni testi degli anni Settanta come Lezione di fisica e poi La ballata di Rudi sono inconcepibili fuori da un contesto di lettura ad alta voce. Sono pensati quasi, in alcuni casi, come ad esempio il Trittico di Nandi (compreso negli anni Settanta ne La ballata di Rudi) come una partitura, uno spartito che trova la sua verità testuale solo nell’esecuzione da parte dell’interprete oppure, come avviene oggi, da parte di attori che studiando queste partiture possono provare  a restituire e far loro la testualità di Pagliarani. 

 




D. A proposito della struttura de La ragazza Carla: secondo lei è possibile parlare di un’evoluzione narrativa, di un processo di formazione della figura della protagonista? Qual è il ruolo di Aldo? 

R. Devo dire che è raro che si entri negli aspetti psicologici dei personaggi e cioè che si consideri La ragazza Carla un testo narrativo a tutti gli effetti.

Naturalmente in un contesto come è quello del romanzo in versi, come poi lo chiamerà Pagliarani, evidentemente non tutti i procedimenti di lettura e gli approcci al testo che normalmente compiamo nei confronti di un romanzo in prosa funzionano o possono funzionare allo stesso modo. In particolare la verosimiglianza o la “rotondità” (come direbbe Forster) dei personaggi, in gran parte viene meno nella sua prassi poetica. Però non c’è dubbio che se volessimo applicare un tipo di analisi narratologica a La Ragazza Carla, il personaggio di Aldo è un personaggio di quelli che si chiamano credo shifter, cioè un personaggio che modifica la propria movenza, la propria funzione (quello che appunto in narratologia si chiama ruolo attanziale) nel corso della narrazione stessa; mentre per esempio Carla resta nella sua funzione allegorica, così come Praték per altri versi è un personaggio univoco, un personaggio che ha una sua natura abbastanza stabile e fissa, di quello che comunque è a tutti gli effetti leggibile come un romanzo di formazione.

Aldo invece in un primo momento si presenta (come direbbe la vecchia narratologia) come un personaggio adiuvante, cioè un personaggio che consente o si presume possa consentire a Carla di uscire dal solipsismo e dalla solitudine dalla quale è avvolta dall’inizio del testo e di farla accedere invece a una dimensione relazionale, erotica, sociale. Tuttavia questo processo, come segnala del resto già l’esergo noto prelevato da Fachinelli, è un processo interrotto, incompiuto. Quindi il sugo di tutta la storia che è nei versi conclusivi, nei versi che modificano il precedente di Cavalcanti («Quando di morte mi conven trar vita», ndr), questo percorso viene chiuso in un circuito di sconfitta e di amarezza. Aldo quindi in un primo momento ha questa funzione adiuvante, ma in un secondo momento finisce per trascolorare, per stingere, quasi per cancellarsi dalla coscienza del personaggio focalizzante (quello di Carla) ma anche dal nostro orizzonte di lettura.

In questo senso è interessante la domanda, non ci avevo mai pensato, perché in fondo Aldo ne La ragazza Carla funziona anche un po’ come quello che sarà il successivo romanzo in versi di Pagliarani, La ballata di Rudi: viene iniziato negli anni Sessanta, cioè quando viene finalmente pubblicata La ragazza Carla, ma verrà poi pubblicato in una forma incompiuta ma provvisoriamente compiuta (come credo disse Raboni) solo nel 1995. In questo lungo periodo di tempo, in questa lunga elaborazione, i personaggi fanno in tempo ad apparire ma anche a smaterializzarsi, a uscire dal nostro raggio di attenzione. Ed è singolare che per esempio il poema sia intitolato a un personaggio, Rudi, che appare nelle prime lasse, nei primi capitoli possiamo dire, ma poi si perde per strada, non appare più nel resto della narrazione. Questa conduzione dei personaggi che ne La ballata di Rudi è decisamente più spinta e più marcata di quanto non sia ne La ragazza Carla, evidenzia uno dei tratti più connotanti il modo di narrare in versi di Pagliarani, che è una narrazione sì, ma non certo lineare come nel romanzo tradizionale o come anche nel romanzo degli anni Cinquanta, in cui i testi iniziali di Pagliarani vengono scritti e pubblicati. Già in Cronache, del resto, le narrazioni sono narrazioni di personaggi allegorici, di personaggi che non hanno quella rotondità che nella narrativa in prosa (in quell’epoca in particolare) era prescritta.

Questa loro inconsistenza quasi larvale, spettrale, questa loro incapacità di magari riapparire o togliere le tende definitivamente, è  una spia di una narrazione decisamente non tradizionale (potremmo dire sperimentale appunto) che una volta di più contraddice quella affiliazione o quell’aggruppamento a personaggi  come Pavese e Pasolini, che tanto diede fastidio a Pagliarani quando Edoardo Sanguineti collocò la poesia di Elio nel penultimo contenitore della sua antologia della poesia italiana del Novecento. 


D. Qual è la funzione del cielo «nostro» e «morale» in rapporto alla considerazione di Walter Siti sulla rinuncia alla gioia? 

R. Così come va enfatizzata in Pagliarani la musa pedagogica, va riconosciuto il suo carattere di moralista. Anche in questo senso funziona il suo insegnamento (o per lo meno per me ha funzionato così): cioè che una valutazione di carattere morale non sia separabile dalla valutazione di una testualità sul piano più esclusivamente formale.

Del resto è proprio del narratore, forse, piuttosto che del poeta, attribuire un significato morale alle storie e ai destini e ai percorsi che mette in scena. Non c’è dubbio che in quell’inciso straordinario de La ragazza Carla si faccia strada una morale di tipo stoico: Carla è un emblema di questa dimensione, di questa sospensione del piacere, rinvio del piacere, ma anche di una messa a terra materialista della morale stoica. Una volta che (come dicono i versi) si sia pienamente convinti che non c’è  una dimensione ulteriore, metafisica, che possa fungere da ricompensa, da risarcimento delle rinunce operate in vita, quella vita al contempo è la sede di una rinuncia ma anche la sede di un riconoscimento e di una accettazione del proprio destino. Uno stoicismo radicale, quello che  Nietzsche avrebbe definito l’amor fati, connota in qualche misura la morale di Pagliarani e quella dei suoi personaggi. 


D. Qual è l’eredità di Elio Pagliarani (tenendo presente anche l’esperimento recente di Francesco Targhetta nel campo del romanzo in versi, Perciò veniamo bene nelle fotografie)? Cosa resta di più della sua opera poetica, quale raccolta in particolare? 

R. Sono due domande a cui devo dare due risposte diverse. Io sono convinto che il libro di Pagliarani che a oggi è meno conosciuto, letto, canonizzato e anche forse quello più gravido di potenze ancora da attualizzare, quello insomma che secondo me merita di essere maggiormente riletto è Lezione di fisica, nelle sue due vesti: quella del ‘64 e quella del ‘68, anche nella sua impaginazione monstre e irriproducibile (Lezione di fisica e Fecaloro). È un libro in cui il radicalismo della sperimentazione va oltre quello del Gruppo 63 e quello dei Novissimi, va molto oltre e tocca forse dei vertici e un ardimento non mutuabili e non verificabili. Dico forse perché ogni sfida radicale è fatta per essere accettata da giocatori molto radicali a loro volta.
Detto questo, non c’è dubbio che l’eredità che ha maggiormente segnato i decenni successivi è quella del romanzo in versi e in particolare de La ragazza Carla: cioè la possibilità di mettere insieme quanto in qualche misura tradizionalmente associamo alla poesia e quanto invece appunto appartiene alla prosa e alla prosa narrativa in particolare. Io sono personalmente convinto che questa soluzione di continuità fra questi due macrogeneri sia qualcosa che non faccia bene né all’uno ne all’altro e che entrambi avrebbero da guadagnare nella commistione e nella comunione dei beni (per citare un titolo di Albinati che stiamo per ripubblicare presso Aragno nella collana i domani; che a sua volta, in qualche misura, avendo Albinati frequentato a suo tempo il laboratorio di poesia, può essere considerato sia pure alla lontana, frutto di quell’insegnamento). La comunione dei beni è quella tra la capacità della prosa di dare spazio alla durata e la capacità della poesia di enfatizzare l’istante.

Ci sono anche ne La ragazza Carla (così come ne La ballata di Rudi) numerosissimi punti (che delizierebbero anche il più idealista dei critici postcrociani) di poesia pura, come accennavamo prima o nel passaggio sul cielo morale ne La ragazza Carla. E tuttavia quello che resta impresso, che colpisce alla distanza chi ha letto questi testi è proprio la capacità di narrare: la capacità, per esempio ne La ballata di Rudi, ancora non sufficientemente messa a fuoco dai lettori, di descrivere e dare forma a quella che Pasolini aveva chiamato la mutazione antropologica, cioè il cambiamento radicale nella struttura sociale e nelle forme di vita degli italiani, nella seconda metà del Novecento.

Il testo che citava (di Targhetta) è un esempio di narrazione in versi piuttosto diversa di quella di Pagliarani, in cui i personaggi hanno una tornitura più tradizionale; l’uso pressoché costante dell’endecasillabo a sua volta propone una differenza importante rispetto al modello costituito da Pagliarani. E tuttavia è un esempio di come i più giovani abbiano messo a frutto la forma poema o romanzo in versi (se appunto si preferisce la dizione pagliaranesca) che mi pare molto attuale, molto attuale anche sotto regimi testuali estremamente distanti, estremamente differenti, e mi vengono in mente anche altri autori che hanno utilizzato negli ultimi anni questa forma: penso per esempio ad Anna Lamberti Bocconi, a Marilena Renda, e anche autori delle generazioni precedenti, penso ad autori che magari non si riconoscono del tutto nella lezione di Pagliarani, come può essere il caso di Albinati, ma che sicuramente hanno trovato in quel precedente l’autorizzazione a sperimentare nelle forme lunghe, nelle forme legate alla durata.  
D’altra parte essendo lo stesso esempio di Pagliarani multiforme (ha scritto libri molto diversi e ci offre modelli anche molto distanti) credo che la sua lezione sia viva anche al di là dei componenti letterari, in quella componente anche morale, in quella tenuta stoica che è più un aspetto morale, comportamentale (temperamentale ecco, direi meglio) che non una risorsa e un reperto di pensiero o di tradizione letteraria. Ecco, quella capacità, quella tenuta morale è qualcosa che è più difficile ereditare evidentemente, ma è un bene (sempre per parafrasare Albinati) che forse vale più di una modellizzazione letteraria.


Ringrazio per le risposte Andrea Cortellessa, curatore del volume che unisce la produzione poetica di Elio Pagliarani: Tutte le poesie (1946-2005), uscito per Garzanti nell’edizione Gli Elefanti nel 2006.
L’intervista risale al 6 Novembre 2016.