Venerdì, 27 Gennaio 2017 11:35

«Dentro i ferocissimi mali del mondo». Sulla poesia di Andrea Inglese – Parte I

Scritto da Fabio Moliterni

Al fine di precisare i contenuti del suo personale percorso di ricerca estetica, Roland Barthes annotava in un saggio del 1968 (L’Effet de Réel, in Il brusio della lingua) la presenza nei testi realistici di «residui irriducibili» all’analisi funzionale, che «denotano quella che per solito viene chiamata “realtà concreta” (piccoli gesti, sensazioni transeunti, oggetti privi di valore, parole ridondanti)». E concludeva: «La “rappresentazione” pura e semplice del “reale”, il suo mero riportare “quello che è” (o è stato) appare così come una resistenza al senso». L’illusoria riproduzione dell’esistente, alla base delle poetiche realistiche, si dà per Barthes nella tensione all’esatta conoscenza della realtà esterna e, insieme, nella resa opaca e sterile di quella indefessa attitudine fenomenologica. I «residui irriducibili» alla possibile cattura di significato – «piccoli gesti, sensazioni transeunti, oggetti privi di valore, parole ridondanti» – si presenterebbero come cascami inerti o statici «effetti» di reale, avviluppati senza scatti nella ripetizione dell’esistere. Il portato più consistente di quelle poetiche sarebbe allora da rintracciare in un impoverimento sostanziale del senso: destino e sbocco inevitabili di una rappresentazione mimetica dell’essere che, per dirla con Gadda, si limita ad assicurare, della realtà, la mera definizione del suo «morto corpo», «il residuo fecale della storia». È la dialettica irrisolta tra percezione e rappresentazione, parole e cose, codice letterario e realtà fenomenologica (ordinaria e «infra-ordinaria»), al centro della riflessione estetica della modernità e sfondo teoretico della poesia di Inglese.

Lo snodarsi trattenuto di una sintassi mobile e nervosa, che mima i movimenti dello sguardo nel continuum alternativo di un andamento paratattico o asindetico, e soprattutto gli elenchi asettici, le enumerazioni caotiche dei realia (con l’uso intenso degli enjambements): sono i tratti cospicui di una ricerca gnoseologica e formale che, sin dalla prima raccolta (Inventari, 2001), s’incentra sulla questione del vedere.

In una voluta caducità ellittica, che condiziona la struttura della plaquette nella serie numerata di quindici frammenti[1] , si dà vita a quadri e a visioni non ordinati gerarchicamente e tuttavia nitidi, precisi, nel disegnare le coordinate di un’insistita interrogazione intorno alla consistenza del reale, sulle facoltà e le aporie della percezione. Il perimetro dello sguardo dell’autore si divide equamente tra interno ed esterno. Più precisamente, tra la ripetizione e la fissità contenute (o riflesse) nel «peso opaco delle cose» – le più domestiche e insignificanti, non depositarie di acquisti di senso né di rivelazioni o epifanie: «e quando la porta cede, / stridono appena i cardini, la stanza / segnala con il peso opaco delle cose / che nulla è cambiato...» (9, p. 17); «Rimani alla superficie, anzi / al bordo del piatto, la circonferenza, / null’altro, sulla maniglia forse / una goccia d’ambra, tenue / riflesso» (5, p. 12). E lo sguardo gettato verso l’esterno, di un vouyer malinconico e passivo, alle prese con le scene cicliche e senza sbocco di solitudini anonime, a contemplare falsi movimenti e pallidi «specchi d’esistenza»: «Di fronte, è senza cielo: specchi / d’esistenza nel quadro fisso / della finestra. Di notte o mattina, / è lo stesso...» (8, p. 15).

Si tratta di un soggetto stretto ai margini, cieco o abbagliato, sul filo dell’annichilimento («se poi uno / a forza di lanciare sguardi / avanti, finisse fossile / a camminare fermo / nel niente», 1, p. 8); intento nel suo vagabondare confuso – un «camminare sempre insano, fitto» – a confrontarsi con la «lunga, sonnolenta quiete» e con la distrazione della folla di un’imprecisata metropoli. Con i colori abbaglianti e fitti di quelle luci ottuse, l’«assiepata vicinanza» dei passanti: «Ed il luogo sembrava come prima. / I passanti svelti / nel teatro di vetrine» (3, p. 10).

Perché la raggelata cristallizzazione del reale, nello scialo (nell’inventario) di oggetti corpi persone quasi mai messi a fuoco ma solo percepiti – «In effetti / si è sempre al centro / di questa impossibilità, / sempre nel fuoco fisso / dell’immagine mai attinta», 14, p. 23 –, coinvolge e chiama in causa non solo la povertà ormai incolore e inservibile degli oggetti dimessi, i dati consueti del reale liberamente giustapposti: «animali, montagne / a cono, alberi di ginepro, / remi, scafo, o solo un sacco / di plastica lacerato» (1, p. 7). Ma anche una mobile, alienata o sin troppo luminosa fenomenologia dell’esistente, tra il privato e il collettivo, custodita nelle trame abituali delle apparenze e della loro riproducibilità («il monumento del visibile»): «Non bastava essere veloci, / muovendosi su pattini lungo i marciapiedi, / o guardare dentro schermi, nelle mobili / immagini, le fasce di colore, le cifre / che ingrandiscono nel nucleo rosa…» (7, p. 14). In una endiadi o reversibilità, del tutto volte al negativo, di cecità e abbagliamento.

Si può essere ciechi e registrare l’inoperosità della percezione (e della conoscenza tout court), insomma, anche se immersi nel fitto di colori (merci) e di immagini incalzanti, protetti dal nitore del «già noto»: «(e questa cecità si riempie / e si ripetono i colpi / mentre chi è colpito sta fermo – / il quadro della vita è così nitido, / così ben riconosciuto, che la vista / esausta ne sanguina) » (9, p. 18). Ovvero nella rassicurante stasi del «sempre-uguale», come obolo pagato per garantirsi una lubrica indifferenza nei confronti della tragica materialità del reale, cronaca o Storia:

 

Così nasce,

nel più comune non amore,

la perfetta tortura,

così procede, su menti ignare,

il patto di schiavitù: l’ordine

mondiale delle sevizie,

così Anika non sa,

dove il dolore di vivere

è evitabile,

e non conoscerà quella terra

che gli occhi urtati dalla luce

guardano al mattino

senza apprensione e panico (11, p. 20).

 

Quello del poeta è uno sguardo corrosivo, capace di destrutturare e complicare ogni pacifico rapporto tra linguaggio lirico e (presa sul) reale. Forse è un riecheggiamento del Sereni tardo e convenzionalmente definito metafisico, lucreziano, proteso a realizzare un’esemplare e scarnificata perimetrazione del nulla sul rovescio dell’esistente. Più probabilmente, con un occhio rivolto alle esperienze poetiche contemporanee di area non solo italiana (la possibile eredità di Beckett, ad esempio)[2] , si è trattato per Inglese di intraprendere le mosse della propria inchiesta lirica e teoretica a partire da una precisa tradizione che ha in Franco Fortini e Cattafi (e Mesa), mi pare, le voci a lui più congeniali. Una linea plurale che nel corso del secondo Novecento ha insistito sul carattere (auto)riflessivo e rigoroso del fare poetico, ai limiti dell’esibizione gelida e senza scampo dello scacco conoscitivo, della crisi della «rappresentazione».

Se, in fondo, sono di esplicita marca fortiniana i «comandi» (o gli auguri) destinati alla disciplina del verso e alla sapienza dell’osservare («Non esistono tracce, / o ce ne sono troppe / appese, esposte dietro vetri, / ben illuminate, le sciolgono dagli imballi, / scoppiano dentro le valige. / Non devi mettere in ordine nulla», 2, p. 9), rimanda a quella stessa area di pensiero-poesia una spinta messianica o escatologica che viene soltanto celata tra il gelo dei suoi versi: «nulla è cambiato, nulla infatti / è stato ancora visto / una prima volta» (9, pp. 17-18).

Una vocazione etica, comunitaria (una precisa disposizione gnoseologica) che tanto più prende spessore in quanto è incardinata irriducibilmente nell’orizzonte materialistico di un residuale, ma resistente, sguardo partecipe e totale sulle cose:

 

Quando

torneremo? Con te od altri,

per le stesse strade, lenti,

guardando un po’ verso l’alto,

o in basso, a terra,

dove ancora cade, fa colore,

il raggio di quella solita stella, e chiama un’interna

sensibilità: la poca, residua

pietà dell’occhio (15, p. 24).

 

 

 

[1] Si fa riferimento a A. Inglese, Quello che si vede, Milano, Arcipelago Edizioni, 2006 (con il numero del componimento e la pagina corrispondente tra parentesi).

[2] Si tratta di un’area comune ma non omogenea (che spazia da Francis Ponge a Jean-Jacques Viton), che è alla base di certe esperienze della poesia italiana contemporanea sconfinanti negli ambiti della prosa (della «prosa in prosa»): si veda G. Bortolotti, A. Broggi, M. Giovenale, A. Inglese, A. Raos, M. Zaffarano, Prosa in prosa, Roma, Luca Sossella, 2009 (e cfr. J.J. Vitton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, con la traduzione di Inglese, Pesaro, Metauro, 2009).

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Questo articolo è stato pubblicato in: Fabio Moliterni, Il vero che è passato. Scrittori e storia nel Novecento italiano (Milella, Lecce, 2011).