Martedì, 20 Febbraio 2024 12:18

History through stories. Intervista a Abdulrazak Gurnah

Scritto da Davide Dobjani

Il 7 ottobre 2023, Abdulrazak Gurnah ha tenuto una lezione dal titolo From History to stories: the power of creative writing nell’ambito dei Seminari di Anglistica dell’Università del Salento, organizzati dalla prof.ssa Maria Renata Dolce, Ordinaria di Letteratura inglese presso il Dipartimento di Studi umanistici. Al termine dell’incontro, cui hanno partecipato anche alcune classi liceali, si è tenuta questa intervista.

 

Abdulrazak Gurnah è nato a Zanzibar nel 1948. Alla fine degli anni Sessanta decide di spostarsi nel Regno Unito per sottrarsi al clima imposto al suo Paese dal regime dittatoriale e proseguire gli studi. Ha insegnato a lungo letteratura inglese e postcoloniale all’Università del Kent, a Canterbury. I suoi principali interessi scientifici vertono sulla letteratura africana (Essays on African writing: A Re-evaluation, 1993; Essays on African Writing: Contemporary Literature, 1995), in particolare su autori come Zoë Wicomb, V.S. Naipaul e Salman Rushdie, di cui ha curato The Cambridge companion to Salman Rushdie (2007). È autore, finora, di dieci romanzi, il primo dei quali Memory of Departure è stato pubblicato nel 1987, l’ultimo, Afterlives, nel 2020. Vari suoi romanzi sono stati selezionati per premi prestigiosi come il Booker Prize, il Los Angeles Times Book Award e il Commonwealth Writer’s Prize. Nel 2021 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura «for his uncompromising and compassionate penetration of the effects of colonialism and the fate of the refugee in the gulf between cultures and continents».

 

 

Professor Gurnah, quali sono le questioni del nostro tempo che più La interessano?

Beh, penso ai movimenti di persone, soprattutto quelle che da culture e società precedentemente colonizzate si dirigono verso l’Europa e il Nord America, perché vedo questo fenomeno come una conseguenza indiscutibile dell’occupazione economica avvenuta nei secoli precedenti. Ma mi interessa anche qualcosa di diverso, come per esempio il modo in cui funzionano le famiglie e come funzionano le relazioni interpersonali, come affrontiamo le sfide quotidiane. Mi interessa la storia, ma anche la nostra vita quotidiana. La domanda riguarda “le questioni del nostro tempo”. Come tutti, sono interessato a molte cose: a dove e come viviamo, e cosa capiamo del mondo e cosa, in esso, è ingiusto, e cosa c’è di buono in esso.

 

Se lo scrittore è un’antenna che capta i segnali provenienti dall’ambiente circostante e poi li traduce in letteratura, cosa pensa di chi a essa attribuisce una missione educatrice, come per esempio i sostenitori della woke culture? E da un’altra prospettiva, qual è invece il ruolo del lettore? Lei si aspetta qualcosa da chi legge i Suoi romanzi?

La mia idea è che non scrivo per un lettore in particolare, ma per una moltitudine di lettori, qualsiasi lettore. Non ho un lettore in mente. Credo sempre che ciò di cui sto scrivendo non dovrebbe insegnare qualcosa a qualcuno, ma, in primo luogo e senza esagerazione, io desidero dare piacere al lettore. Non voglio fare un’adulazione del lettore, ma che legga con piacere. Ciò che ne deriva, forse, è una comprensione più completa di ciò di cui sto trattando. Non è, però, una questione di verità: si tratta solo di avere un quadro un po’ più ricco di quello che si aveva prima della lettura.

 

Da lettore, che tipo di libri legge?

Non sono sicuro di poter rispondere sul “tipo” di libri, come se fosse possibile una categorizzazione. Leggo libri che creano richiesta, ma che mi danno anche piacere. Secondo me, la questione principale a proposito della letteratura, sia quando si scrive sia quando si legge, è il piacere. Se non mi sento coinvolto, se non mi piace ciò che sto leggendo (a meno che non lo stia studiando, che è una cosa del tutto diversa), allora è decisamente probabile che metta il libro da parte e che non lo finisca di leggere. Senza rabbia, sia chiaro, ma troverò una scusa per dire “Ok, ci ritornerò in un altro momento” o qualcosa del genere, ma probabilmente non lo farò. Per questo penso che il piacere sia cruciale. Quando dico piacere, non intendo semplicemente che “mi piace”, ma ciò che succede quando si ascolta la musica: mi coinvolge in modo profondo, la ascolto (anche quando leggo ascolto, ovviamente) e funziona, qualcosa si muove e mi spinge a pensare, ma anche a sorridere tra me e me, quando leggo. Quindi, non credo di poter usare una categoria, ma questo tipo di qualità: imparo qualcosa, mi dà piacere e mi fa anche pensare.

 

Parliamo della Sua scrittura. È piuttosto diffusa l’opinione secondo cui attualmente le arti visive prevalgono sulla letteratura, almeno considerando la richiesta di mercato. Tuttavia, è risaputo che nessuna espressione artistica è mai pura: per esempio, alcune serie televisive utilizzano una struttura narrativa molto simile a quella romanzesca. Pensa mai a queste interazioni tra le diverse forme d’arte quando scrive?

No, non lo faccio. Penso a molte cose mentre scrivo, ma non se ciò che sto scrivendo potrebbe funzionare in tv, non mi viene proprio in mente il fatto che ciò che sto scrivendo possa a un certo punto passare in tv. So che alcuni scrittori lo fanno, so che alcuni scrittori hanno queste cose in mente mentre scrivono, magari con l’idea di curare essi stessi, a un certo punto, gli adattamenti, ma io non ragiono così. Mi sforzo solo di rendere a parole ciò che ho nella testa. Questo è il massimo che posso fare.

 

Il silenzio ha un ruolo cruciale nel Suo stile di scrittura: è una vera e propria strategia narrativa che instaura una distinzione tra dicibile e indicibile. In The Last Gift o in By the Sea, per esempio, questa strategia è ampiamente utilizzata e, sebbene i due romanzi abbiano dei protagonisti ben delineati, le storie di molti altri personaggi si intrecciano tra di loro, in una polifonia di voci e silenzi, di racconti e di reticenze, che lasciano al lettore il compito di ricostruire lo spartito originale. È un suggerimento per chi volesse ricostruire la Storia attraverso le storie conservate dalla memoria? La catarsi per i personaggi può avvenire solo a patto di attraversare i propri silenzi, o è la parola, la narrazione, che scioglie i nodi dell’esistenza?

La domanda stessa è piuttosto poetica, una bella domanda per cui ti ringrazio. Sul silenzio. Ci sono parecchi usi del silenzio, non solo quando si scrive ma anche generalmente quando si parla. Pensa alla vita reale: a volte scegliamo il silenzio magari perché siamo spaventati, non vogliamo parlare per paura o per difesa personale; oppure a volte perché sappiamo qualcosa in più e quindi piuttosto che litigare con qualcuno che invece non sa, preferiamo tacere. In particolare, penso al silenzio che usiamo quando abbiamo a che fare con qualcosa che potrebbe causarci un danno, anche se è legittimo. Uso il silenzio in molti luoghi, ma per parlare dei due esempi che hai fatto, ce ne sono due tipi. In By the Sea, il silenzio pertiene sicuramente al secondo personaggio: cioè esso è un modo attraverso il quale si può difendere la dignità da ciò che è falso o dall’invasione da parte dell’autorità, che è inaccettabile. In The Last Gift, il silenzio è ancora più intimo, in quel modo in cui può esserlo all’interno delle famiglie, per esempio, come appunto nel caso di questo libro. In The Last Gift, c’è qualcuno che non racconta la storia della sua vita da giovane e alla fine si scopre che è una storia veramente difficile, complessa, una brutta storia. Quindi è per vergogna che tace, e penso che ciò sia una cosa frequente nelle famiglie: alcuni eventi cruciali sono passati sotto silenzio a causa della vergogna, del senso di colpa o, semplicemente, perché la generazione più giovane è già consapevole dell’eventuale trauma e si preferisce non parlarne. Ricordo che quando è stato pubblicato il romanzo una giornalista australiana mi stava intervistando al riguardo (anche lei era sulla sessantina, immagino, o comunque a metà dei cinquant’anni) e mi disse che sua madre era morta di recente e solo al momento della sepoltura i parenti avevano notato che aveva dei numeri tatuati sul braccio. In un modo o nell’altro, pertanto, doveva essere stata nei campi di concentramento. Forse tu potresti chiedere perché non ne abbia parlato prima. E, molto probabilmente, non è una storia semplice, magari è una storia che contiene un qualche motivo di vergogna: per questo non era riuscita a parlarne. O forse non voleva traumatizzare i suoi figli, o che so io: non possiamo saperlo. Ma è quest’altro tipo di silenzio che io credo sia interessante da esplorare. Insomma, ci sono davvero molti tipi di silenzio e non sempre romperlo, come dici nell’ultima parte della domanda “la parola, la narrazione, che scioglie i nodi dell’esistenza”, ecco, questo non significa che rompere il silenzio è sempre benefico. Forse ci sono delle cose che semplicemente dovrebbero restare dove sono.

 

Nei Suoi romanzi, spesso un personaggio prende la parola e racconta la sua storia, all’interno della quale sono inserite molte altre vicende, spesso narrate, a loro volta, dai personaggi che le hanno vissute. Possiamo associare a questa prima persona che narra il concetto di “centro di coscienza” dell’intera storia, per usare le parole di Henry James? Un “io” che non è solo un mezzo di espressione per convogliare un contenuto, ma parte del significato stesso del romanzo? Se fosse così, si potrebbe dire allora che ognuno è la storia che racconta e che, su un altro piano, la letteratura può essere il “centro di coscienza” della storia: tutto questo fa parte della Sua idea di letteratura? E, in questa prospettiva, qual è il ruolo del “noi”?

Capisco perfettamente l’idea del “centro di coscienza”, ma penso di dover fare una distinzione tra i personaggi che “prendono la parola e raccontano la propria storia” in prima persona come narratori oppure all’interno di un discorso diretto, nel quale il centro è la coscienza di ogni personaggio. Molto spesso ne uso più di uno, quindi piuttosto che avere un unico “centro di coscienza”, in By the Sea, per esempio, ce ne sono due. Direi che in Afterlives ce ne sono tre o quattro. Perciò non si tratta necessariamente di un “io” che diventa un “noi”, direi, ma piuttosto di una sorta di consapevolezza che possa esserci più di un “io” e che questi “io” possano essere in competizione tra loro. Non nel senso che uno di essi debba arrivare primo, ma che si contestano a vicenda: è in questo modo che possiamo ottenere una comprensione più piena della storia, più smussata, per così dire. Serve non per dire: “Bene, adesso sappiamo cosa è successo”, bensì: “Adesso sappiamo che ci sono modi differenti di credere cosa sia accaduto”. Pertanto, in questo senso, non possiamo parlare di “centro di coscienza” come se fosse un chiodo che fissa qualcosa, ma piuttosto come di un modo per comprendere i processi del punto di vista attraverso il quale, o i quali, si può vedere, capire o anche solo dire cosa succeda nel mondo.

 

In tutti i Suoi romanzi trova spazio anche la componente metaletteraria e intertestuale: ci sono personaggi che trovano nella letteratura un rifugio e un modo di guardare al mondo, ma anche citazioni e riscritture di opere della tradizione. Sono dichiarazioni d’amore per la letteratura stessa, ma anche suggerimenti critici: la lettura dei testi del canone può e deve cambiare a seconda del luogo e del tempo in cui avviene. Questo dischiude nuove possibilità e moltiplica le opere stesse, oltre a dare un certo piacere al lettore che riesce a individuare i riferimenti disseminati nella scrittura. Come costruisce questo tipo di testi e come sceglie quelli canonici da rimaneggiare?

Mi diverte molto trovare ciò a cui fai riferimento, esattamente come descrive la premessa a questa domanda. Quando leggo, penso: “Ah! So dove si trova questo! So da dove viene! Viene da bla bla…”. E questo mi dà piacere, questa specie di scoperta, di comprensione della fonte, perché apre anche ad altre connessioni. Scoprire che qualcosa viene dal King Lear, o che so io, non è solo una questione di “quanto sono intelligente”. Apre invece una relazione: pensi “perché?” o “come?”, “perché sento questa eco?” e spesso anzi non è una sola eco, è qualcosa che si ripete due o tre volte in quel romanzo. Magari ti fa anche pensare; a me fa pensare: “questa cosa mi sta indirizzando da qualche parte? è un modo di capire a cui dovrei fare attenzione?”. C’è, insomma, il lato divertente della cosa che consiste nel riconoscere il riferimento e poi una parte in cui il testo è come se si aprisse e, infine, un terzo aspetto, secondo me soprattutto dal punto di vista dello scrittore, che consiste nel guidarci a modi paralleli di comprendere, che aggiunge qualcosa al testo senza dover scrivere informazioni in più. Ciò autorizza il lettore a espandere il testo autonomamente.

 

Che rapporto ha con la letteratura italiana? Ci sono alcuni classici che ha letto e sono poi risultati importanti come bagaglio culturale per il Suo lavoro creativo o per la Sua attività di docente universitario?

Ho letto Dante a Ravenna, dove passò il suo ultimo anno di vita, ma più o meno lì lo reclamano come se avesse sempre vissuto a Ravenna: ho sentito alcune storie meravigliose sulle sue ossa nella tomba, che non contiene invece nessun osso. Comunque, mi hanno invitato alla loro lettura della Commedia in cui ogni giorno una persona leggeva un Canto, e l’ho letto pure io. In realtà, per rispondere alla tua domanda, devo dire che si tratta di una relazione molto, molto tenue: non ho un rapporto con la letteratura italiana, a parte aver letto qualcosa della Divina Commedia. Mi ricordo di aver chiesto molti anni fa a Itala Vivan: “cosa dovrei leggere?” (è successo vent’anni fa ormai) e lei ci pensò un momento e disse che avrei dovuto leggere Il giardino dei Finzi Contini. Così sono andato a leggerlo ed ero tipo: “Ok, è bello”, ma veramente io non ne so molto di letteratura italiana, ma proverò, migliorerò.

 

Lei ha insegnato all’Università per molto tempo: come si sente ad essere ora un oggetto di studio? Pensa che entrare nel canone letterario possa stimolare una ricerca critica migliore sulla Sua opera o uno sguardo troppo vincolato a categorie ormai comunemente condivise rischia di farne perdere di vista la complessità?

Non lo so. Davvero, la risposta a questa domanda è che non lo so. Certo è molto bello quando la gente dice “voglio leggere i tuoi libri”: mi fa piacere, come probabilmente a ogni scrittore. Mi piace anche l’idea che i miei libri siano abbastanza interessanti da essere studiati dagli studenti, ma ad essere onesto, con tutto il rispetto, ad essere onesto, non leggo queste cose. Quindi non so cosa ne farai di questa intervista. Mi dispiace dirlo, ma lo dico con rispetto, non con una specie di superiorità: semplicemente non mi è mai capitato di leggere queste cose. Non ho mai insegnato la mia opera o supervisionato qualche studente che stava scrivendo qualcosa sulla mia opera, e penso che continuerò a fare così e a lasciare che gli altri leggano, interpretino e dicano cosa ne pensano.

 

Darebbe un consiglio a chi studia Letteratura?

Sì, leggete molto. Solo questo: continuate a leggere, molto.