Lunedì, 29 Maggio 2023 21:16

«Una sorta di campo di battaglia omerico». Intervista a Omar Di Monopoli

Scritto da Elena Chironi

Nato a Bologna nel 1971 ma di origini pugliesi, Omar Di Monopoli ha vissuto una fuga (ancora una volta a Bologna) e un suo ritorno nel territorio meridionale, lo stesso che fa da sfondo ai suoi romanzi. Dalle sue opere, popolate da malviventi dalla pistola pronta e disposti a tutto in nome dei propri interessi, emergono storie di intensa umanità, quella dei corrotti ma anche degli ultimi e degli emarginati. I peculiari ritratti umani che animano le pagine dei suoi libri si muovono in un paesaggio-personaggio contraddittorio e periferico che, insieme agli intrecci narrati, fa guadagnare ai suoi romanzi un meritato posto nel genere del southern gothic e del noir mediterraneo. Omar Di Monopoli ha la capacità di far dialogare continuamente la microstoria personale dei suoi protagonisti con il vissuto collettivo del territorio, creando così storie corali e contemporaneamente profondamente individuali. Nucleo fondamentale della sua scrittura è una riflessione sul Male: le sue opere sono ambientate in una Puglia reale e parallela fatta di luoghi fantomatici, una psico-geografia che non si arrocca in un ambito locale o localistico, bensì riflette qualcosa di universale, gli eterni conflitti e la coesistenza tra bene e male che sono propri della Terra nella sua interezza.

 

 

 

Ha esordito come romanziere nel 2007 con «Uomini e cani», pubblicato dapprima con ISBN Edizioni e poi ripubblicato per Adelphi nel 2018. Prima di avvicinarsi alla scrittura, però, ha anche avuto una formazione da fumettista, poi messa da parte per dedicarsi alla narrativa, come racconta lei stesso alla fine del graphic-novel tratto da «Nella perfida terra di Dio», uscito per Sergio Bonelli Editore (2022). Quanto influisce questo suo interesse nelle descrizioni presenti nei suoi romanzi e nella costruzione di ambienti e personaggi?

 

Credo che quella visiva sia una componente parecchio marcata nella mia prospettiva letteraria. Ma aggiungerei che non si limita alle descrizioni, né al semplice srotolarsi della trama. Influisce, a mio parere, anche sulla contaminazione linguistica, sul continuo compenetrarsi cioè di vernacolo ed evocazione lirica che è tipico dei miei scritti. Una deriva che da sempre anima la mia penna: avevo fatto dei tentativi in giovinezza, quando disegnavo cercando di diventare un fumettista su imitazione di Andrea Pazienza (che non a caso lavorava tantissimo sul linguaggio infarcendolo di dialetto) e poi a un certo punto smisi di guardarmi l’ombelico per scrivere del mondo che mi circondava, della mia terra, delle contraddizioni che la percorrevano. E di come attraverso di essa potessi provare a parlare a chiunque, anche a chi non sapeva nemmeno dove fosse, la Puglia. Però sempre con un occhio che contemplasse anche l’aspetto “grafico” della narrazione.

 

Non mancano, nelle sue opere, salti temporali che stimolano la curiosità del lettore, che non vede l’ora di ricomporre il mosaico delle cause-effetto e comprendere appieno le dinamiche della storia, penso per esempio a «Nella perfida terra di Dio», costruito su due piani temporali. Anche i finali di capitolo cliffhanger contribuiscono alla creazione di libri page-turner, nonostante la serietà e la gravità degli argomenti trattati. È presente, in questo aspetto della sua scrittura, anche una certa influenza del mondo delle serie tv?

 

Non penso che la serializzazione televisiva sia una chiave di narrazione che lucidamente abbia a che fare con il mio lavoro, ma di sicuro essa, con le sue regole, i suoi topoi, vi s’insinua grazie al naturale contagio che oggi avviene tra i medium: il fumetto, il cinema e il teatro oggi non possono fare a meno di lasciarsi influenzare – o quantomeno confrontarsi – con quello che, a tutti gli effetti, è diventato il modo più efficace di raccontare la contemporaneità. Le stagioni di una serie sono ormai capitoli di una idea di racconto a lungo raggio che sicuramente chi scrive deve tenere in grande considerazione, e questo avviene almeno sin dai tempi di due grandi prodotti per il piccolo schermo: «The Wire» e «I Soprano», serie che sono state seminali.

 

Le sue opere rientrano nei generi del Southern Gothic, del Noir Mediterraneo e del Western. Quali sono i titoli dei grandi autori di queste forme letterarie o i film che più l’hanno ispirata?

 

Le suggestioni e i modelli (quando non i veri e propri saccheggi) sono ovviamente numerosi ed elencarli tutti risulterebbe tedioso, sicuramente non esaustivo giacché trattasi di un percorso “in fieri” che interessa fasi diverse della mia maturazione autoriale. Mi limito a ripetere ciò che ormai dico in ogni intervista da anni, e cioè che ho mutuato la mia idea di Sud dall’immenso William Faulkner, per il quale era una sorta di campo di battaglia omerico in cui tutte le emozioni e le passioni, anche le più efferate, si consumano. Ma ovviamente tutta la genia di scrittori a stelle e strisce che in seguito hanno saputo arricchire il solco tracciato dallo scrittore Premio Nobel hanno contribuito alla mia indagine (Flannery O’Connor, Truman Capote, Erskine Caldwell solo per citare i più noti). Ma negli anni della mia formazione di scrittore, come è giusto avvenga nella crescita di ogni narratore che voglia fregiarsi di questa definizione, non ho disdegnato nessuna forma di sollecitazione creativa: fumetti, cinema, tv, teatro e musica sono serviti – e servono – a nutrire le mie fantasie, le mie convinzioni e soprattutto le mie incertezze, perché è su queste ultime che un artista costruisce il proprio cammino. 

 

Quali sono, invece, i suoi modelli italiani (e pugliesi in particolare) e in quali aspetti delle sue opere si possono scorgere?

 

Non v’è dubbio che gli anglosassoni mi abbiano insegnato tanto, ma a un certo punto ho riscoperto la letteratura nazionale e quello è un tesoro inesauribile che ogni giorno mi regala eccezionali sorprese. Di nomi potremmo anche qui farne a bizzeffe: direi su tutti si possa scegliere Beppe Fenoglio, un maestro nella sua inarrivabile capacità di espandere gli orizzonti assurgendo il racconto a materia universale, ma non dovrebbe mancare pure la corposa stirpe dei siciliani, tutti pressoché venerabili per cifra stilistica e temi (da Brancati a Consolo, da Sciascia a di Lampedusa e poi ancora Bufalino, D’Arrigo ecc.). Dai pugliesi mi lascio spesso contaminare più sul versante poetico (adoro Salvatore Toma e Antonio Verri, ma non si possono non citare Bodini e Carrieri e anche il meno conosciuto ma amatissimo Antonio Lippo), ma le nuove leve della narrativa regionale nostrana hanno spesso voci interessanti, che guardo con affetto, protezione e qualche volta benevola invidia.

 

Le ambientazioni dei suoi romanzi hanno spesso dei nomi parlanti, come Languore, Torre Languorina e Rocca Bardata, che ritornano in più opere, quasi a costruire la mappa di una nuova geografia, e che costituiscono per il lettore una soglia per addentrarsi nelle storie narrate. In che misura ritiene che le dinamiche che si consumano in questi luoghi fantomatici riflettano ciò che accade realmente in Puglia?

 

Lo fanno senza dubbio perché tutti i miei romanzi cercano di raccontare un’umanità nonché una geografia complesse, sfaccettate, impastate di sangue e violenza ma anche di redenzione e compassione. È vero: sono, le mie, città inventate eppure sono espressione di una Puglia reale, non dissimile da quella vera ma spogliata di ogni oleografia vacanziera e commerciale. Una terra violenta, cattiva, ma anche capace di un amore sconfinato. In una parola: umana.

 

I personaggi dei suoi romanzi sono spesso criminali e violenti, o vittime di questi: in ogni caso, emarginati. C’è una reale possibilità di redenzione per loro? Oppure sono destinati a vivere eternamente una violenza e un dolore ciclici ed ereditari? Quanto questo può rispecchiare la condizione degli uomini e delle donne del Sud di oggi?

 

Vivo in una parte della Puglia che è un po’ in disparte rispetto a quella gettonatissima del turismo e della gastronomia, una zona non ancora particolarmente sondata dai media, e in questa zona di Mezzogiorno ancora si respira forte quella commistione di arretratezza e modernità, di superstizione, ignoranza e afflati di avanguardismo, un mix che al tempo stesso è un male ma anche una forza per questa zona di Sud, perché la rende invitta, la rende indomita. Poi mi duole precisare che, per esempio, il paese in cui vivo, Manduria, è stato sino a poco fa commissariato per mafia, e non si può non registrare il fatto che lacerti di Sacra Corona Unita, una mafia sconfitta sulla carta, razzolano ancora per queste lande e sono anche per certi versi più pericolosi di quando questa società cercava di organizzarsi, poiché sono clan veramente piccoli che agiscono considerando i paesi, a volte i quartieri, come dei veri e propri feudi. Non di rado quindi la cronaca mi ispira: se apriamo le pagine de «Nella perfida terra di Dio» c’è ad esempio la guerra tra i clan dei Modeo che ha insanguinato parte del tarantino negli anni ’90 ed è assolutamente veritiera, così come il personaggio del «Messicano», realmente esistito, oppure episodi riguardanti l’abusivismo e la malasanità; stiamo parlando di luoghi che hanno ispirato Rocca Bardata o Torre Languorina, il teatro di «Uomini e cani», romanzo che ha dato la stura poi a una serie di storie dello stesso ciclo. Quindi sì, rispecchia naturalmente una condizione in cui molti miei corregionali vivono. Naturalmente, però, facendo lo scrittore di genere, utilizzo la realtà a mio piacimento, manipolo di continuo, manipolo i nomi, manipolo i caratteri per farne delle storie che possano essere fruibili nella maniera che mi è più consona. Altrimenti farei giornalismo, farei sociologismo. Io resto uno scrittore di fiction: e la fiction lascia che sia il lettore a colmare i vuoti, a riempire gli spazi mancanti.

 

Nei suoi romanzi è fondamentale il rapporto tra ambiente umano e territorio, un rapporto decisamente biunivoco in cui, nel bene e nel male, i due fattori si influenzano inevitabilmente a vicenda. Qual è il suo rapporto con il territorio in cui vive e che racconta?

 

C’è una serie di istanze di cui tener conto. La prima è la volontà di utilizzare la natura come contraltare degli accadimenti umani; quindi, la natura è una sorta di coro che sta lì sullo sfondo e serve anche a minimizzare l’orrore delle storie che racconto. È come se fossimo formicole all’interno di un organismo ben più grande che non a caso risulta indifferente. Descrivo questa natura sempre in chiave fulgida, meravigliosa, nonostante i miei personaggi finiscano spesso per abusarne, quasi a dire che c’è una bellezza che sopravvive alle nequizie di cui si sporcano gli umani protagonisti delle mie storie. Poi sicuramente il fatto che io abbia deliberatamente scelto di vivere la marginalità, la provincia, mi rende familiare questo continuo confrontarmi con gli spazi, con atteggiamenti di inciviltà verso la natura che costellano questa parte di meridione nello specifico, ma che credo sia una connotazione umana e che forse ci dovrebbe indurre a una qualche forma di riflessione. Ma, ribadisco, il fatto di non vivere in spazi metropolitani è un elemento centrale. La natura, la campagna, il ritmo delle messi, il colore del sole che nella Puglia ha una sua specificità, sono sicuramente componenti essenziali, proprie, di tutta l’intelaiatura della mia produzione.

 

Il suo nuovo romanzo, «In principio era la Bestia» (Feltrinelli, 2023), compie un salto indietro nel tempo per far conoscere ai lettori una Puglia gotica e allegorica a cavallo tra Settecento e Ottocento. Che tipo di ricerca nei documenti del tempo c’è dietro la sua ultima opera?

 

L’idea primaria è vecchia di più di un decennio. Subito dopo l’esordio mi ero convinto che la narrazione di genere era l’unica via perseguibile per raccontare la mia terra, sicché mi misi ad architettare questa storia dagli ampi riverberi gotici, ma dopo qualche pagina il racconto sembrava arenarsi, quasi mancassero le fondamenta alla visione che avevo in testa, e in effetti dovevo ancora mettere a punto alcune coordinate, allestire il teatro giusto: un Sud non oleografico, per l’appunto – una terra sfaccettata, credibile nella sua complessità – e costruirvi attorno una prospettiva originale. Sei libri “western” più tardi, quella “contea” meridionale era una geografia letteraria viva, che pulsava di vita propria, e quindi, improvvisamente, il racconto “mannaro” ha trovato un empito autonomo, poderoso, in grado di sostenere un mosaico narrativo nuovo, che osasse persino più di quanto fatto con le prove precedenti.

Il salto nel passato viene anche dal desiderio di scovare gli angoli nascosti della mia regione, di sondarne le fortune e le sfortune per cercare di comprendere meglio le contraddizioni del presente. Ma il periodo a cavallo tra i due secoli mi offriva anche la possibilità di scandagliare costumi e usanze di grande fascinazione estetica e narrativa. Il consolidamento delle regole civili, da una parte, ma anche la legge fai-da-te del più forte, la violenza e le ingiustizie di classe e censo che sembrano tanto il riflesso (talvolta l’origine) di tante storpiature attuali. E poi sottotraccia un odore, un respiro “western” anarchico (i cavalli, i cappelloni, gli archibugi) che in fondo non si discostano molto da quanto scritto sinora.

Per la documentazione ho letto tutti i maggiori testi storici inerenti al periodo (dal Lucarelli al Cuoco), così come quelli che in particolare descrivevano quegli anni nel triangolo di Salento in cui la vicenda è ambientata, ma il romanzo è comunque un’opera finzionale che parte da presupposti storici precisi per manipolare gli eventi a piacimento.

 

Le sue opere spiccano per il notevole sperimentalismo linguistico, per la commistione di italiano popolare e dialetto locale che si alternano con l’italiano standard e aulico, senza rinunciare a termini desueti. Quali sono le motivazioni dietro questo incontro-scontro tra i diversi registri stilistici? C’è stata, nel corso del tempo, una evoluzione dell’impasto linguistico e della rappresentazione dell'oralità sulla pagina scritta?

 

Assolutamente sì, come è ovvio. Molto, tanto lavoro di ricerca in primis. Primo, perché credo che uno scrittore debba trovare una propria voce, e quindi, quando ho messo a punto la mia, l’ho sentita vera, mi apparteneva. È un lavoro che comprende una giustapposizione di livelli che opera sul vernacolo, sulla commistione di registri, sull’alto e il basso. C’è un tentativo di dare anche un afflato epico, e questo implica un certo costrutto anche stilistico; e poi sì, vado in giro con il taccuino (mentale) sempre aperto. Trattando di ultimi, quindi spesso di gente con una cultura “terra terra”, non posso farli parlare in chiave aulica, però il narratore onnisciente ha spesso una voce oggettivamente quasi biblica. Questa commistione ha finito per diventare la caratteristica che meglio mi contraddistingue. Sia chiaro che questo non è niente di nuovo, perché tutti gli scrittori a cui faccio riferimento, sia oltreoceano che in Italia, l’hanno già sperimentata lungamente.

 

Ha già alcuni nuovi progetti in corso? E soprattutto, intende continuare a esplorare la Puglia più antica o crede di ritornare a quella del secolo scorso e a quella contemporanea?

 

Vediamo. Le ipotesi sul tavolo sono numerose. Ho delle idee per il sequel di questo ultimo romanzo dato alle stampe, ma anche la proposta di un romanzo per ragazzi che potrei decidere di accettare…

 

Quali sono gli autori e le autrici di oggi che, secondo lei, riescono al meglio nel dare una appropriata rappresentazione del Sud? E quale consiglio darebbe ad aspiranti giovani scrittori pugliesi che puntano a scrivere del proprio territorio?

 

Non credo sia opportuno fare dei nomi, per l’ovvia ragione che mi dimenticherei di alcuni autori che magari meriterebbero di essere menzionati. Diciamo solo che attualmente lo scenario regionale, meridionale e anzi italiano mi sembra interessante, molto valido e proteiforme: a numerosi esperimenti commerciali si accompagnano penne di grande valore sperimentale (e le due cose, perché no, possono viaggiare anche appaiate). Mi mandano manoscritti di esordienti o aspiranti tali che mi pare abbiano tanto da dire e in linea di massima, anche grazie al mio lavoro come insegnante di scrittura, non posso non rilevare una certa consapevolezza delle proprie capacità che ai tempi del mio debutto era impensabile. Semmai, mi sentirei di consigliare a chiunque abbia delle mire autoriali di non pubblicare col primo editore disposto a mettere il loro nome su una copertina, bensì di maturare la forza di aspettare: attendere il momento giusto, ma anche l’editore adatto alla loro penna, qualcuno disposto a credere nella sfida che i loro testi rappresentano, e perché ciò accada bisogna studiare il catalogo, le offerte e la distribuzione dell’imprenditore con cui si ha intenzione di lavorare. Di stampatori è pieno il mondo, ma di editori veri (anche quando minuti, infinitesimali) non ce ne sono poi così tanti in giro.

 

[Intervista concessa nel mese di maggio 2023].