Sabato, 10 Giugno 2023 15:56

Farsi viaggiatori: la letteratura globale di Alessandro Leogrande

Scritto da Marco Montanaro

Chiunque voglia confrontarsi con l’opera di Alessandro Leogrande non potrà che andare incontro a un senso di vertigine e insieme d’avventura. Alessandro Leogrande ha infatti scritto tanto: libri, libretti d’opera, testi teatrali, articoli, inchieste, saggi, reportage, introduzioni per altri libri, ha fatto radio e realizzato podcast, senza dimenticare le riviste che ha diretto, gli inserti e le antologie che ha curato.

 

Non solo, sono tanti anche i temi da lui toccati, tutti molto complessi e ancora incisi nella carne viva della nostra contemporaneità: migrazioni, caporalato e schiavitù nei campi, contrabbando e criminalità organizzata, colonialismo, Taranto, Meridione, Balcani e Adriatico, senza dimenticare il calcio e i riti religiosi, con approcci che spaziano dalla letteratura alla storiografia, dall’antropologia alla critica culturale e politica.

 

Leogrande però non era un tuttologo né un grafomane, e la sua scrittura non si compiaceva mai della propria grandezza. Leogrande si documentava con metodo e rigore invidiabili, ma era una sincera curiosità a innescare il suo lavoro. Aveva un evidente talento, racconta chi l’ha conosciuto, per l’assimilazione delle coordinate che portano al cuore di un certo tema, ma a muoverlo era una passione genuina per le cose umane, molto spesso per gli esseri umani, che trasmetteva con una scrittura sempre chiara e pulita.

 

Ecco allora il senso d’avventura, la sensazione piacevole, nonostante la gravità e spesso la disperazione delle storie raccontate, di essere sballottati da un tema all’altro come da un posto all’altro in giro per il mondo. È la sensazione che si ha in generale addentrandosi nel lavoro di Leogrande, ma che troviamo condensata in particolar modo rileggendo “La frontiera” (Feltrinelli, 2015), l’ultimo libro pubblicato in vita dallo scrittore tarantino, scomparso a quarant’anni nel 2017.

 

Con “La frontiera” Leogrande esplora e ricostruisce rotte e motivazioni, sia politiche che personali, alla base delle migrazioni, per tentare di inquadrare l’idea stessa di confine, la sua costruzione storica e culturale, la sua molteplicità e le storie ad essa legate nel mondo contemporaneo. In questo libro, soprattutto, Leogrande formalizza quella che è stata fino a quel momento la sua linea d’azione come scrittore: farsi viaggiatore per raccontare le storie di altri viaggiatori.

 

Farsi viaggiatori per comprendere a fondo le motivazioni che spingono individualmente uomini e donne di ogni età a intraprendere lunghissimi viaggi che non sono mai lineari, ad attraversare più frontiere territoriali spesso negli anni cruciali della propria esistenza, della propria formazione. Farsi viaggiatori attorno al fuoco delle storie raccontate da altri viaggiatori per mantenersi curiosi e capaci d’empatia, al riparo dalle rassicuranti definizioni mediatiche – migrante, clandestino, vittima: categorie che per Leogrande non spiegano nulla, perché svuotano di senso e di profondità vite che, come quelle di ciascuno di noi, sono fatte di gioie, dolori, lacrime, nostalgie, ma anche menzogne, spirito di sopravvivenza, ingiustizie subite e allo stesso tempo inflitte agli altri.

Da lettori non possiamo che farci viaggiatori a nostra volta per seguire queste storie. È necessario insistere sull’idea di storia e di racconto perché Leogrande aveva posto anche la gran parte del suo lavoro su un confine, su una frontiera non meno complicata e affascinante di quella geografica: quella del reportage letterario, del pezzo che sta tra letteratura e giornalismo, tra fiction e nonfiction. Io la definisco “friction”, attrito: è quella letteratura che parte dalla realtà e si immerge nella letteratura per poi tornare alla realtà. È la letteratura di chi è incapace di scrivere fiction perché avverte continuamente il richiamo e la necessità di una relazione col mondo fuori dal libro; e mentre non si illude di poter rappresentare la realtà così com’è, non intende nemmeno tradirla del tutto, registrando quindi tutte le difficoltà, gli attriti appunto, di irretirla, di costringerla nel perimetro della finzione pura.

 

Questo tipo di letteratura si pone in un rapporto di continua dialettica con ciò che si vive e si scrive; è un territorio ambiguo, e molteplici e complesse le implicazioni per chi decide di attraversarlo. Quali sono i limiti di questa frizione, fin dov’è possibile spingersi nella forma e nella possibilità del racconto?

 

Per Leogrande la questione si poneva anzitutto su un piano morale, con evidenti conseguenze su quello formale. Nell’introduzione a “Il violento mestiere di scrivere” di Rodolfo Walsh, Leogrande sosteneva che gli strumenti della finzione letteraria vanno utilizzati per indagare l’animo umano come si farebbe in un romanzo, e poi a livello strutturale, ad esempio in fase di montaggio dei materiali; mai per inventare di sana pianta come si farebbe in una storia di pura fantasia.

 

Proprio ne “La frontiera” l’utilizzo del montaggio alternato è formidabile, fortemente romanzesco anche nelle svolte di trama e negli intrecci di vicende personali, storiche e geopolitiche cui dà vita, ed è ciò che contribuisce maggiormente a quella sensazione di avventura e sballottamento da un tema e da un posto all’altro di cui parlavo. Seguendo le storie dei viaggiatori raccontate da Leogrande si parte da Lampedusa e si finisce a Roma, passando per l’Eritrea, il Sinai, i Balcani, la Puglia e il nord Italia. Capitoli più o meno lunghi si alternano in quello che per i lettori diventa un viaggio nel viaggio di relazioni e connessioni estremamente stratificate che Leogrande riesce a restituire sempre con lucidità e chiarezza.

  

 

 

 

È importante sottolineare che il valore de “La frontiera” sta anche nel fatto che è un testo di lettura assai scorrevole, che come si suol dire si divora; è vero, difficilmente nella scrittura di Leogrande godremo di “giri di frase” o soluzioni formali particolarmente significative, ma in compenso troveremo un ritmo e a una lingua che non fanno nulla per ostacolare il voltare delle pagine, e anzi lo incoraggiano a dispetto della durezza della materia trattata. Se non fosse un paradosso, potremmo dire che quello di Leogrande sembra quasi uno stile senza stile, ma la verità è che la sua scrittura è al servizio delle storie che racconta, sempre a beneficio del lettore – in questo fedele al principio del “minimo ingombro” da parte dell’autore teorizzato da Primo Levi in alcuni brani de “L’altrui mestiere”.

 

Motivo per cui sono solo in parte d’accordo con Goffredo Fofi, che nella prefazione a “Dalle macerie” (Feltrinelli, 2018, a cura di Salvatore Romeo) sosteneva che “i libri di Alessandro sono qualcosa di più che delle buone inchieste, sono buona letteratura che col tempo sarebbe diventata molto probabilmente ottima. Sul modo di raccontare, di scrivere, Alessandro stava lavorando, libro dopo libro e articolo dopo articolo, e certamente avrebbe trovato assai presto uno stile pienamente adeguato alle sue idee e alle sue ambizioni.” Se è vero che Leogrande sarebbe potuto crescere ancora dal punto di vista stilistico, credo che la questione puramente letteraria fosse in secondo piano rispetto all’urgenza di raccontare delle storie, di divulgare le sue ricerche e le sue idee. Per quanto quest’urgenza fosse sempre sotto controllo e non sfociasse mai nel puro sfogo o nella viscosità dello storytelling persuasivo in favore di questa o quella causa (o forse proprio per questo), penso che per Leogrande privilegiare il “cosa” raccontare rispetto al “come” fosse una scelta precisa. Lo ha detto bene Roberto Saviano, ricordando Leogrande al Salone del Libro nel 2018: “Essere artisti non era un’ossessione, per Alessandro, non aveva neppure l’ossessione per la bella pagina. Diceva: se sarà necessario, se l’obiettivo che ci siamo posti lo richiederà, allora diventeremo artisti”.

 

Questioni che in effetti Leogrande si era posto in altri suoi lavori, quelli legati al teatro e all’opera: se prendiamo il testo di “Pane all’acquasale” o i libretti di “Haye: le parole, la notte” e di “Katër i Radës”, troviamo uno scrittore alle prese con un passo ulteriore verso le forme della fiction e della piena trasfigurazione artistica.

 

In particolare in “Katër i Radës” (Biennale di Venezia/Koreja, 2017), adattamento del suo reportage “Il naufragio” con le musiche di Admir Shkurtaj, Leogrande dà vita a un testo che ammutolisce la chiarezza espositiva dell’opera di partenza per farne un delirio visivo di lingue e polifonie straziate, una scrittura rumoristica di movimento, danza spezzettata e spettrale. Dunque in questi spazi – il teatro e l’opera – Leogrande aveva probabilmente iniziato a finalizzare una riflessione sul “modo di raccontare” le sue storie, pensando forse a quelli come ai contesti più adatti per provare ad “essere artisti”.

 

In opere come queste, inoltre, Leogrande trasforma la sua dimensione di intellettuale e giornalista-scrittore in quella di narratore e autore puro, scomparendo completamente dal testo com’è opportuno che sia quando si scrive per il teatro o per l’opera. Ne “La frontiera”, come in molta parte del resto della sua produzione, lo scrittore tarantino è infatti sempre presente: l’autofiction di Leogrande si mescola alla nonfiction com’è normale che sia ma senza complicarla ulteriormente (diversamente da Emmanuel Carrère, insomma, ma anche da Nanni Moretti), senza farne motivo di soffocamento del testo, che anzi si apre a una piena e felice coralità grazie alle tantissime testimonianze e storie raccolte oralmente. Siamo di nuovo al “minimo ingombro” di Primo Levi – che anche lui, in fondo, sapeva come utilizzare e dosare l’autofiction senza scivolare nei cliché ombelicali.

 

È sempre la presenza del personaggio-narratore Leogrande, appassionato alle vicende dei viaggiatori quanto ossessionato dalla violenza dei sistemi politici ed economici che portano gli esseri umani a migrare, a innescare il racconto de “La frontiera”. È il suo occhio, che diventa il nostro, a non chiudersi mai di fronte alla disperazione delle vite dei viaggiatori che incontra. È il personaggio Leogrande a interrogarsi su queste vite, ad esempio sulle menzogne di Shorsh, curdo fuggito dall’Iraq di Saddam, che mente al narratore e ai suoi amici come alla commissione che dovrebbe giudicare se ha diritto all’asilo politico o meno – ed è proprio di fronte alle contraddizioni della vita di Shorsh che Leogrande si pone dubbi e domande su come raccontare i viaggi dei migranti, sulle parole giuste per definirne i protagonisti.

 

Sono pagine intensamente umane e al riparo da qualsiasi polarizzazione retorica, queste de “La frontiera”, perché utilizzano gli strumenti letterari che, come dicevo prima, consentono a un autore di inabissarsi nell’animo umano per comprenderne meglio e meglio raccontarne i chiaroscuri: siamo di nuovo al punto della frizione e dell’attrito, del farsi viaggiatori tra viaggiatori, il punto in cui non c’è invenzione ma intuizione umana e letteraria a partire dalla capacità di utilizzare il proprio corpo per raggiungere gli altri, di stare e parlare con loro, e poi la propria intelligenza emotiva, per citare ancora Saviano, per riportarne le storie su carta con estrema dignità e cura.

 

È per questi motivi che “La frontiera” è tuttora, a diversi anni dalla sua uscita, uno dei più importanti libri sulle migrazioni mai pubblicati e sicuramente una pietra di paragone per quelli che verranno dopo, come ha sottolineato Giuseppe Catozzella ricordando anche lui Leogrande al Salone del Libro nel 2018. Non solo, aggiungerei che “La frontiera” è a tutti gli effetti un romanzo globale – categoria forse inesistente, di cui però si parlava molto qualche anno fa –, leggibile da chiunque a qualunque latitudine senza risultare un prodotto massificato, uniformato a chissà quale gusto medio occidentale: per i temi che tocca, per la sensibilità e la generosità con cui li affronta senza smettere di essere il lavoro di un autore italiano e meridionale che ha vissuto appieno tra XX e XXI secolo.