Mercoledì, 29 Novembre 2017 07:30

Il canto della vita. Riflessioni su Vittorio Bodini

Scritto da Alessandro Leogrande

«Forse Antonio [Giuriolo] sottovalutava la profondità della sua influenza»

(L. Meneghello, I piccoli maestri)

Pubblichiamo un intervento su Vittorio Bodini di Alessandro Leogrande, scomparso lo scorso 26 novembre. Il contributo è incluso nel volume che raccoglie gli Atti del Convegno Vittorio Bodini fra Sud ed Europa. (1914-2014) (Besa, 2017), tenutosi tra Bari e Lecce nel dicembre del 2014, ed è stato letto da Alessandro nel corso di una tavola rotonda presso la libreria Laterza di Bari. Insieme ad amici e maestri come Goffredo Fofi, aveva collaborato con l'Università del Salento in occasione di un altro Convegno, dedicato alla figura di Rina Durante, i cui Atti sono raccolti nel volume Rina Durante. Il mestiere del narrare (Milella, 2015). Con la sua solita, sobria ed elegante disponibilità, Leogrande aderì a suo tempo anche al progetto del Pens e infatti ancora oggi fa parte del Comitato scientifico del Centro di ricerca.
A chi ha avuto il privilegio di conoscerlo e di incrociare per lavoro il suo percorso, ma soprattutto per chi resta e ha letto o dovrà ancora leggere i suoi scritti, spetta il compito di riflettere sull'eredità di questo amico buono e dall'intelligenza non comune, figlio degno della grande stagione del meridionalismo, protagonista della scrittura di inchiesta, infaticabile intellettuale vagante tra i vecchi e i giovani delle scuole e biblioteche e Università e librerie italiane, da Nord a Sud. Devono restare come pietre di paragone, per il nostro lavoro intellettuale di ogni giorno, la sua competenza polimorfa che si univa a una rara capacità di chiarezza dialogica e divulgativa, la curiosità e la passione civile alle quali si accompagnavano il metodo, il rigore e la fatica della ricerca: il profilo scientifico e umano di uno studioso tra i migliori e più completi della sua generazione, lontano dai narcisismi e dagli imperativi nefasti della visibilità a tutti i costi, eppure
presente e autorevole come pochi. Proprio come un (piccolo) maestro. [fm].

 

I. In Salento

 

Vittorio Bodini non è stato solo un poeta e un ispanista, traduttore per Einaudi del Don Chisciotte e delle opere teatrali di Federico García Lorca. È stato anche un grande autore di reportage: prose di inchiesta e narrazione, in cui le barriere giornalistiche vengono sistematicamente decomposte per avanzare in un terreno specificamente letterario e poetico. Poetico nel senso che è poeta colui il quale guarda alla realtà con gli occhi del poeta, indipendentemente dal registro linguistico che adotterà scrivendo.

A illuminare questo spazio meno noto della variegata attività intellettuale di Bodini, vi sono due raccolte curate da Antonio Lucio Giannone per Besa: Barocco del Sud e Corriere spagnolo. Il Corriere raccoglie prose scritte tra il gennaio e il giugno del 1947 (all'epoca di un suo lungo soggiorno in Spagna) e, dopo il suo rientro in Italia, tra il 1950 e il 1954. Sono pezzi molto belli, in cui l'anima nera, popolare, irrazionale della Spagna profonda è svelata in piccoli dettagli di umanità non irregimentati dalla cappa del conformismo franchista. Più o meno degli stessi anni sono i racconti e i reportage contenuti in Barocco del Sud, a significare che è soprattutto nella prima metà degli anni Cinquanta (intorno cioè ai suoi quarant'anni) che Bodini ha dato il meglio di sé.

Il pezzo che dà il titolo all'intera raccolta (Barocco del Sud, appunto) è sicuramente una delle vette della letteratura salentina e meridionale. È un grido d'amore alla propria città, Lecce, definita come una donna «la cui memoria è così gelosamente esclusiva da farla sembrare ancora oggi una città del Seicento». E ancora:

 

«Basta fermarcisi a vivere pochi giorni perché a poco a poco si faccia strada in noi un sospetto stranissimo, che essa non sia un luogo della geografia ma una condizione dell'anima, a cui s'arrivi solo casualmente, scivolando per una botola ignorata della coscienza».

 

Il genio leccese, espresso in un gusto artistico sopraffino, benché sorto ai margini dei grandi centri culturali europei, non si sarebbe mai e poi mai potuto sviluppare senza la locale pietra porosa che, una volta tagliata, può essere lavorata come «polpa di banana». Un barocco dei luoghi, dell'aria e della terra (e quindi dell'anima) precede il barocco dell'arte, che raggiunge il suo massimo splendore nell'esterno molto più che nell'interno dei palazzi e delle chiese. «Santi di tufo vegliano sulle mura della città a guardia del loro secolo»: questa frase meravigliosa racchiude, in poche parole, tutto l'universo poetico di Bodini, oltre che lo spirito profondo di un'intera città.

E qui sorge una domanda: come definire queste prose? Saggio? Confessione? Memoir? Meditazione? Narrazione del reale? Sono insieme l'una e l'altra cosa e l'altra ancora. O meglio, si collocano in una ideale terra di mezzo in cui i confini della prosa (più propriamente quelli del saggio e del reportage) vengono tirati di qua e di là come un elastico che si fa sottilissimo. A conferma di ciò si potrebbe citare una coppia di reportage perfetti, dedicati all'occupazione delle terre dell'Arneo all'inizio degli anni Cinquanta: L'aeroplano fa la guerra ai contadini e L'Arneide, ultimo atto, entrambi pubblicati all'epoca sulla rivista «Omnibus».

Nel rievocare l'occupazione di un vastissimo feudo incolto e la dura repressione militare e poliziesca che ne seguì, il primo dei pezzi si muove lungo due poli. Uno è relativo all'«aeroplano» del titolo. Benché l'allora ministro della difesa Pacciardi lo smentisse pubblicamente, tutti i contadini incontrati da Bodini ammettono di aver visto un aereo militare coordinare e sorvegliare dall'alto le operazioni di polizia. Il secondo è relativo alle «biciclette». In un enorme rogo, al termine di quei rivolgimenti, i carabinieri avevano bruciato le biciclette sequestrate ai braccianti. Un colpo durissimo: «Ho sentito dire a più d'uno», scrive Bodini, «che avrebbe preferito perdere un figlio. Un figlio lo si sostituisce fin troppo presto, ma la bicicletta distrutta significherà migliaia di chilometri a piedi e notti passate nella nuda campagna, anche d'inverno».

Ciò che colpisce del reportage non è solo il contenuto, ma il suo andamento poetico. Bodini si reca insieme a un altro giornalista nel cuore dell'Arneo selvatico e disabitato, dichiarato «zona militare» e quindi inaccessibile nei giorni successivi alla rivolta.

Come in un trasognato Cuore di tenebra conradiano, Bodini si introduce nelle viscere di quella landa incolta, facendocela vedere per la prima volta. I segni della civiltà e della mano dell'uomo ben presto scompaiono, e per chilometri e chilometri il cuore della lotta contadina si dimostra essere uno spazio vuoto, di una desolazione metafisica e sovrumana, su cui viene esercitato un inutile e tragicomico controllo militare.

Le biciclette ritornano poi alla fine del secondo reportage, dedicato al processo che ne seguì e che si risolse sostanzialmente in un nulla di fatto. Venne data ragione ai contadini e le biciclette non distrutte furono riconsegnate: «Ma biciclette che non ci si può immaginare senza averle viste; biciclette con le ossa da fuori, tenute su a furia di spaghi: telai di tavole, sellini senza forma, manubri e ruote arrugginiti, pedali che cigolano come carrucole d'un pozzo. Biciclette d'uno squallore così metafisico che sembra impossibile che non abbiano un'anima».

 

II. In Spagna

 

Anche il Corriere spagnolo, ripubblicato da Besa in una nuova edizione curata e introdotta da Antonio Lucio Giannone, dopo che una prima edizione (sempre a cura di Giannone) era uscita per Manni nel 1987, è - come detto - un vero e proprio gioiello del reportage letterario.

Bodini, che soggiornò a lungo in Spagna nella seconda metà degli anni Quaranta, scrisse le prose raccolte nel volume tra il gennaio e il giugno del 1947 e, dopo il suo rientro in Italia, tra il 1950 e il 1954, per «Risorgimento liberale», «Fiera letteraria», «Il Momento», «La Gazzetta del Mezzogiorno». Tali pezzi costituiscono un caleidoscopio di racconti vivissimi della Spagna; e per certi versi fanno da contraltare alla sua opera di poeta e di traduttore in italiano della letteratura spagnola. Tuttavia, nel leggerli, si avverte qualcosa di molto più profondo.

Come negli scritti sul Salento, il Bodini scrittore di viaggio è un autore che raggiunge immediatamente una dimensione metagiornalistica, tesa a dilatare il reportage verso forme propriamente letterarie. Non è letteraria solo la costante riflessione sulla letteratura spagnola (i suoi autori, vivi e morti) che si dipana qua e là, pagina dopo pagina. Sono letterari, in particolare, l'approccio di Bodini alla realtà che lo circonda e il suo modo di narrarla.

Tra Madrid e l'Andalusia, lo scrittore leccese si muove come un rabdomante alla ricerca della Spagna profonda, della sua essenza, della sua anima popolare e pagana, delle sue forze telluriche. Si muove tra corride e processioni religiose, taverne, viuzze, anfratti notturni, aneddoti, ricordi, digressioni... Ritrae toreri, tori eroici, osti e danzatori di flamenco. Siamo alla metà degli anni Quaranta, nel pieno del regime franchista; eppure la Guerra civile e i suoi morti sembrano un'eco lontana, che solo raramente riaffiora in tutta la sua virulenza (col ricordo dei fucilati, come Lorca). Nel complesso si direbbe che c'è una Spagna, una certa Spagna popolare almeno, irriducibile al regime, alla sua furia nazionalista e alle sue censure dogmatiche. Cruciale, in Corriere spagnolo, è il racconto Amici e nemici per il poeta andaluso, in cui l'autore si scontra con dei «poetini impiegati pei ministeri» che non capiscono come Lorca possa avere tanto successo in Europa, per poi accorgersi come la memoria del poeta sia ben viva per una ballerina che conserva gelosamente una copia di un suo libro.

In questa dilatazione del racconto, Bodini coglie gli infiniti punti di contatto tra la Spagna e l'Italia meridionale, tra l'Andalusia e il Salento, e a un certo punto, riportando un dialogo avuto, scrive in uno dei pezzi raccolti (Madrileno a Madrid): «Io sono quasi spagnolo: sono un italiano del Sud, e questa dovrebbe essere la vera capitale del mio paese. Vi è in noi la medesima combinazione di follia e di realismo, le stesse inerzie febbrili, lo stesso bianco della calce contro il cielo». Allo stesso modo una processione della Settimana santa, con le confraternite che seguono una statua di Cristo in croce, gli ricorda le tante processioni simili dei paesi pugliesi.

Per altri versi però, specie per l'universo delle lettere, Spagna e Italia sono molto diverse. La Spagna gli appare più innocente, meno carica di Storia alle spalle, o comunque non così schiacciata come l'Italia.

 

«ln Spagna ogni generazione deve elevare la sua protesta contro il proprio destino; ogni generazione è follemente immemore dell'esperienza di quelle che la precedettero, come se fosse la prima che appare sulla terra».

 

Nel Corriere spagnolo Bodini va alla costante ricerca di questo intreccio tra innocenza e follia riposto nelle pieghe nascoste della società spagnola. Un mondo in bilico tra inesauribili fiumi di vita e la presenza, a ogni angolo, della morte e del tragico. Un paese «meraviglioso», come scriverà in una lettera a Giacinto Spagnoletti, «la mia seconda patria, forse la prima in un certo senso».

 

III. Con Sciascia

 

Vittorio Bodini e Leonardo Sciascia erano fatti per incontrarsi. Entrambi appartenenti a un proprio, personale "sud del sud", ma allo stesso tempo capaci di aprire la propria esperienza umana, letteraria, intellettuale alle più interessanti commistioni europee, intrecciarono un fitto epistolario tra il 1954 e il 1960. La vicenda è stata ricostruita da Fabio Moliterni nel saggio Sciascia, Bodini e l'unità culturale mediterranea apparso sulla rivista di studi sciasciani «Todomodo». Ma Moliterni è anche il curatore dell'intero carteggio tra i due scrittori (Sud come Europa) pubblicato da Besa, all'interno della collana Bodiniana.

Di cosa scrivevano Bodini e Sciascia nelle loro lettere? Innanzitutto di articoli e saggi da pubblicare sulle loro rispettive riviste. Bodini era in quegli anni direttore di «L'esperienza poetica» (cui anche Sciascia collaborò), mentre lo scrittore siciliano curava la rivista «Galleria», ai cui lavori il poeta e traduttore pugliese partecipò organizzando un fascicolo sulla cultura letteraria spagnola. In filigrana, nelle loro lettere, emerge la geografia letteraria e intellettuale dell'Italia dell'epoca. Entrambi si muovevano tra le riviste di area liberal-socialista e post-azionista, e tra le file di una nuova leva di autori emersi dopo la fine della guerra e la crisi del neorealismo: da Caproni a Volponi, da Pasolini a Roversi, da Erba a Zanzotto... Proprio in quegli anni (precisamente nel 1956) Sciascia pubblica Le parrocchie di Regalpetra nella collana Libri del tempo di Laterza. Bodini traduce invece il Chisciotte per Einaudi, mentre la sua seconda raccolta di poesia, Dopo la luna, appare in una collana di Quaderni diretta dallo stesso Sciascia. La collaborazione era quindi piuttosto intensa. Ma soprattutto - nelle loro lettere - i due scrittori sembrano riflettere, direttamente o indirettamente, su un enigma che pare ruotare intorno ai celebri versi di Bodini:

 

Il Sud ci fu padre

e nostra madre l'Europa

 

Per entrambi, è forte l'idea di vivere in bilico fra tre poli non facilmente riconducibili a unità: una provincia meridionale percepita come frontiera (rispettivamente, Racalmuto e il Salento), la cultura nazionale (che ruota intorno alla capitale, Roma) e gli influssi, correnti, modelli o anti-modelli europei. Questa pluralità, questo eclettismo, questo guardare di sbieco alle cose, rovesciando il Sud in alterità ma sentendosi parte allo stesso tempo della grande tradizione euro-mediterranea, appartiene a tutti e due. Sciascia e Bodini sono solo apparentemente degli illuministi. In entrambi emergono (per usare una felice espressione di Calvino) «polveri tragico-barocche-grottesche». Come dar fuoco a queste polveri? Quali luci accendere?

Lo Sciascia «arabo» e il Bodini «spagnolo» sembrano intuire immediatamente che nelle vene del Sud scorre un sangue antico, meticcio, internazionale che rimanda a una storia millenaria, frutto di scambi-scontri-incontri-osmosi con l'Europa continentale. Nei secoli, la mediazione tra Meridione e altrove è stata realizzata da un potere gattopardesco, dai vicerè, dai signori sempiterni del sottogoverno; ma, tra le viscere degli eventi, si è prodotto anche un altro genere di interrelazione, quella offerta da una cultura ereticale, «pazza», non ufficiale, chiaramente cosmopolita. La lotta tra il sottogoverno e l'eresia, fra il tragico e l'ordinario, la storia e il sogno, ha prodotto non pochi fuochi. Proprio in una poesia contenuta in Dopo la luna, intitolata Col tramonto su una spalla, Bodini scriveva questi bellissimi versi:

 

Questa è la mia città,

le mura le avete viste:

sono grige, grige.

Di lassù cantavano

gli angeli del Seicento,

tenendo lontana la peste

che infuriava sul Reame.

Ora c'è fichi d'India, un aquilone,

un ragazzo che tende

il suo elastico rosso

contro qualche lucertola

troppo spaurita e minima

per presentarsi a quel sogno

d'inaudite avventure

di cui s'inorgoglisca il cuore umano.

 

Perciò non sorprende che buona parte del carteggio, sul finire degli anni Cinquanta, sia dedicata all'ideazione di una collana per l'editore siciliano Sciascia (omonimo dello scrittore), che Bodini e l'autore delle Parrocchie di Regalpetra avrebbero dovuto dirigere insieme. Il progetto era ambizioso: mappare l'attività letteraria dell'intera area mediterranea, far emergere la sua anima arabo-ispanica.

Il 20 settembre del 1956 Bodini scrive a Leonardo Sciascia:

 

«Mi pare che ci sia una tentazione molto intelligente da parte tua in quest'accostamento alla Spagna. Non invano la Sicilia e il Reame... Dovremmo estendere il lavoro al mondo arabo. Fare una collana (che potremmo dirigere assieme) di testi antichi e moderni, arabi, spagnoli, portoghesi, catalani e magari provenzali. Muoverci nell'unità culturale meridionale. Sopra tutto però il mondo arabo-ispanico dovrebbe essere il nostro obiettivo».

 

Alla fine la collana non si farà mai. O meglio, prenderà il via molti anni dopo, ma senza la partecipazione di Bodini. Eppure, come sottolinea Moliterni, quel tentativo, appena abbozzato, risulta un passaggio cruciale non solo per capire la formazione intellettuale di Sciascia, o una parte del lavoro editoriale dell'epoca. Ciò che emerge è «la contaminazione e l'incontro di tradizioni e mediazioni diversificate, in una dialettica mobile e problematica tra centri e periferie, cultura nazionale e regione, Europa e civiltà mediterranea». Di questa contaminazione, presente e passata, Bodini e Sciascia si fecero antenne sensibili.

 

IV. I fiori e le spade

 

Cosa rimane, oltre a tutto questo, oltre a questa fucina di idee, frasi, versi, modelli, relazioni, intuizioni che continuamente scaturisce e sgorga dal patrimonio bodiniano?

Resta, credo, un'esortazione all'autoironia, l'invito (sia per il poeta sia per lo scrittore o il reporter) a scendere dal piedistallo cui sovente rimane abbarbicato. Un invito a mettere costantemente in discussione se stessi, il proprio punto di vista. Un invito a cogliere le debolezze e le frattaglie del mondo, senza ergersi a nottole di Minerva. Ma questo guardare al mondo da presso non è privo, come detto, della ricerca di un'altra forma di verticalità. Lo scrive lapidariamente in un breve testo intitolato Pitagora è uno delle nostre parti:

 

«È "ciò che non si vede" che bisogna dipingere di questo paesaggio. Cominciamo ad insinuare il sospetto che non si possa fare di esso altra pittura che metafisica».

 

Non a caso Bodini utilizza la parola «metafisica». L'evocare tale idea di un orizzonte non solo fisico, di un orizzonte non più solo fisico, non è solo una nuova esortazione (rivolta innanzitutto a se stessi, ovviamente) a scorgere ciò che non si vede, ciò che va cercato in alto e in basso, e che in quanto metafisico non può non produrre una tensione letteraria. È anche il frutto di una piena consapevolezza della propria opera: il sapere perfettamente che è proprio inseguendo tale oggetto oscuro che si è fatto tutto ciò che si è provato a fare nei propri reportage e nei propri versi.

Il rapporto tra il mondo e l'oltremondo, tra l'uomo e l'oltreuomo, tra l'anima nera e il piano superficiale delle cose, va percepito quindi come insolubile dialettica. Così come, quale insolubile dialettica, va esperita fino in fondo la relazione biografica, prima ancora che teorica, tra politica e poesia, tra il proprio sguardo metafisico sul mondo e le asperità di quel medesimo mondo, un mondo che spesso si dà come universo di assoluta violenza e di dominio, di irriformabile mutilazione della vita nelle sue varie forme. Ricadere verso uno solo dei suoi poli vuol dire inevitabilmente restringere il proprio campo visivo, oltre che - concretamente - il proprio spazio di vita.

Lo scrive in un articolo molto bello apparso su l'«Avanti!» il 25 ottobre 1966 e poi contenuto in una raccolta di suoi scritti civili, I fiori e le spade (Milella 1984, a cura di Fabio Grassi). È uno degli articoli della piena maturità. Si intitola Il poeta del Mediterraneo, ed è dedicato alla figura di Rafael Alberti.

Non parla però solo di Alberti. Bodini parla anche di sé e di noi, quando scrive in conclusione del suo pezzo:

 

«Ci parrebbe infine di mutilare l'immagine di Alberti staccando la sua poesia da quel profondo impegno umano e civile, che, prima ancora che scoppiasse la guerra di Spagna, lo aveva indotto a schierarsi a fianco degli umili e degli oppressi, contro ogni sopraffazione. Nel mondo non vi sono soltanto fiori ma anche spade, e il poeta non può occuparsi solo dei primi: tutta la vita, nella sua totalità , ha diritto al suo canto, ed egli respinge ogni conclusione di comodo, ogni graduatoria fra tema e tema, per tener fede all'integrità della sua missione. Rafael Alberti, per il triste privilegio che ha avuto la Spagna di doverla sperimentare in anticipo, è Stato il primo poeta della Resistenza europea».