Giovedì, 14 Dicembre 2017 07:00

Un realismo decomposto. Su "Di bestia in bestia" di Michele Mari

Scritto da Simone Giorgio

 

 

 

Di bestia in bestia è il romanzo d’esordio di Michele Mari, pubblicato per la prima volta per i tipi di Longanesi nel 1989, e ristampato in una nuova versione da Einaudi nel 2013. In questa edizione Mari ha operato alcune modifiche: nella postfazione precisa che «quasi tutte le correzioni sono a togliere»[1]. Sempre nella postfazione, Mari scrive:

 

Il tema del romanzo […] era sì il dualismo fra cultura e natura che fa di ogni uomo un ossimoro, ma a sua volta quella cultura era vissuta contraddittoriamente come luce (o salvezza) da una parte, e come fardello accademico e impedimento alla vita dall’altra; come trionfo, e come disfatta; come orgoglio, e come lutto[2].

 

Sebbene per stile e padronanza del suo stesso immaginario Mari costituisca un caso straordinario nella nostra letteratura contemporanea, è importante sottolineare che le tecniche adoperate in Di bestia in bestia pongono il romanzo in linea con la stagione culturale in cui è stato concepito (il postmodernismo); Mari dimostra di aver assimilato in profondità tali tecniche e di essere in grado di utilizzarle con dimestichezza[3]. Nella lettura del libro, il tema indicato dallo scrittore emerge con chiarezza ed efficacia (la cultura come «trionfo» e «disfatta»), e la sua rappresentazione è perseguita attraverso un costante lavoro intorno al realismo, teso a portare le vicende raccontate ai limiti della plausibilità.

Di bestia in bestia racconta delle vicende di un anonimo narratore, partito assieme ad alcuni suoi collaboratori (il professor Pesùmai e la sua segretaria, la signorina Ebeblechei) alla volta di un convegno, che a causa di una serie di equivoci finisce nel castello di un anziano e prestigioso professore, Osmoc. Sono costretti a trascorrere alcuni giorni nel maniero per via di una tempesta di neve; in seguito a un’aggressione perpetrata da Osmoc alla signorina Ebeblechei, costringono il loro ospite a raccontare i segreti che si nascondono nel suo castello. Osmoc spiega così di essere il fratello sano di una coppia di gemelli; l’altro, Osac, è affetto da una grave forma di demenza che non gli impedisce però di possedere una forza sovrumana. Osmoc aveva sposato una donna, Emilia, e per appagarla sessualmente effettuava, nottetempo, delle sostituzioni con Osac. Quando Emilia morì, la situazione di suo fratello si fece più grave, e questi si lanciò in una serie di delitti: dapprima squartò brutalmente i due fattori della villa di campagna dove vivevano; poi rapì e uccise due gemelle del villaggio vicino, credendo di offrire un dono a Osmoc. Così, il professore fu costretto a trasferirsi nel castello, dove viveva con Osac (esiliato nelle segrete, ma che riusciva a spostarsi in tutto il palazzo grazie a una serie di passaggi nascosti) e il suo tuttofare, Epeo. L’arrivo della signorina Ebeblechei, straordinariamente somigliante alla defunta Emilia, ha però risvegliato i furori di Osac, che durante la lunga analessi di Osmoc tenta in tutti i modi di entrare nella biblioteca dove i cinque si sono barricati. Il lungo assedio di Osac terminerà con l’uccisione di Osmoc, il quale lascia in eredità al narratore la sua biblioteca e i servigi di Epeo.

Nel saggio Realismo e letteratura, Federico Bertoni individua quattro aspetti che concorrerebbero a costituire una narrazione realista[4]:

  • aspetto tematico-referenziale;
  • aspetto stilistico-formale;
  • aspetto semiotico;
  • aspetto cognitivo.

Nel caso qui preso in considerazione, Mari abbassa il quoziente di realismo del suo romanzo operando su tutti questi aspetti. Ovviamente, le procedure di decomposizione non sono uguali: ne risulterà che queste quattro proprietà sono presenti in Di bestia in bestia in misura diversa. Ciò che è importante notare, però, è che i procedimenti che contribuiscono a diminuire queste quattro caratteristiche scaturiscono, credo, da una stessa scintilla narrativa, che pone il romanzo di Mari in una posizione del tutto particolare nel panorama letterario italiano (particolare, si intende, ma non esclusiva: non mancano certo gli agganci con altre opere anche internazionali).

 

I provvedimenti narrativi di cui si parla si inseriscono nella temperie culturale del postmodernismo. Vale la pena ricordare che il romanzo venne sì pubblicato per la prima volta nel 1989, ma Mari stesso indica l’inizio del suo componimento nel 1980-81: negli stessi anni, in Italia, i semi degli anni ’60 individuati da Donnarumma[5] avevano dato i loro frutti nei best seller di Eco e Calvino[6], mentre le opere dei maggiori postmoderni americani (come Pynchon e Barth) erano state tradotte in italiano già da un decennio[7].

Nel suo The irresponsible self, James Wood offre un’analisi efficace del realismo postmoderno: quasi mai, nelle opere postmoderne, gli autori violano le leggi della fisica; si limitano a presentare i propri personaggi come dotati di una serie improbabile di caratteristiche, che ne accentuano il lato grottesco. Ciò, secondo Wood, è dovuto alla sostituzione del criterio dell’umanità dei personaggi con quello della quantità di informazioni da dare sui personaggi:

 

[…] alcune delle più notevoli menti romanzesche del nostro tempo non pensano che il linguaggio e la rappresentazione della coscienza siano ancora obiettivi del romanziere. L’informazione è divenuta il nuovo personaggio[8].

 

Ecco, per l’appunto: tutta la parte centrale del romanzo è occupata dalla narrazione delle vicende di Osmoc, che contribuiscono però a indirizzare l’idealizzazione di quest’ultimo da parte dei lettori verso la rappresentazione che Osmoc stesso vuole dar di sé. L’essenza di Osmoc non sta tanto nella sua psicologia, quanto nelle sue caratteristiche: fra queste, il posto di rilievo è senz’altro occupato dalle peculiarità linguistiche del suo modo di esprimersi, cui siamo esposti per decine di pagine. Così facendo, Mari agisce contemporaneamente sui primi due livelli di realismo citati da Bertoni: sul piano tematico-referenziale, crea un personaggio poco plausibile nella realtà, ultra-letterario; a rendere poco credibile Osmoc è la lingua che utilizza, un miscuglio di fraseggi accademici e citazioni letterarie di ogni sorta. Cedendo a Osmoc una parte così ampia della narrazione, gli consente di operare anche sul piano stilistico-formale, affidando quindi la narrazione a un miscuglio linguistico fuori dal tempo e lontano dalla lingua italiana degli anni ’80. Tuttavia, a minare la credibilità del piano tematico-referenziale è anche un’altra caratteristica: la rinuncia sistematica, da parte dello scrittore, a far accadere eventi plausibili nei principali snodi narrativi della storia. Inoltre, gli eventi che Mari sceglie e dispone nella sua narrazione, si rifanno chiaramente ad altri libri, o comunque a procedimenti tipicamente letterari: e questo incide di continuo anche sul piano cognitivo.

 

Quando Osac uccide le due gemelle del villaggio dove vive segregato nella villa di Osmoc, questi ha la necessità di trasferirsi altrove, e Mari, per liberargli la strada da qualsiasi ostacolo ascrivibile alla vita reale (lavoro e denaro), fa molto opportunamente morire un suo ricco zio:

 

«Caso volle che proprio in quel tempo si fosse morto un mio facoltosissimo zio lasciandomi erede di sua substanzia universa, sì ch’assolto mi trovavo ad un tratto da ogni laboriosa incombenza […]»[9].

 

Un mio facoltosissimo zio… Ereditare una fortuna da un lontano parente è un topos letterario diffusissimo, così abusato da aver quasi smesso di essere convincente, soprattutto qui, dove questo zio fa il suo ingresso e la sua uscita di scena in queste poche righe. Non siamo di fronte a un personaggio, ma a un semplice strumento narrativo, e per di più sfrontatamente letterario: è chiaro che rispetto ad altri romanzi postmoderni, le tracce di «realismo isterico» (per usare la definizione del già citato Wood) presenti in Di bestia in bestia sono di una qualità diversa. Come nel caso dello zio, la realtà stessa in cui si svolge la vicenda romanzesca è costituita da pezzi di altre realtà letterarie. Queste citazioni, che definiremo strutturali, sono numerosissime, e sembrano costituire la vera architettura di Di bestia in bestia. Ogni parte del libro richiama le atmosfere gotiche dei romanzi dell’orrore ottocenteschi. Le più evidenti: la vicenda fondante, ossia il dualismo tra Osmoc e Osac, è un palese richiamo a Dr. Jekyll e Mr. Hyde; le scene della caccia all’assassino delle gemelle nel villaggio, che costringono Osmoc a trasferirsi nel castello dov’è ambientata la narrazione, sembrano riferirsi a Frankenstein; il viaggio stesso, in nave, alla volta del castello pare rifarsi a quello di Dracula verso Londra. Come si intuisce, non solo Mari costruisce la sua narrazione pescando a piene mani dal repertorio gotico e fantastico, collocando l’azione principale in un favoloso castello e disponendo nelle prime sequenze alcune scene notturne degne della miglior tradizione gotica, ma addirittura puntella ogni svolta narrativa incastonandola con episodi tratti dal repertorio della letteratura dell’orrore. Il risultato è una trama molto ricca di citazioni libresche, vero; avanzando nella lettura, il gioco citazionista si infittisce fino a influire sulla cognizione del romanzo: il lettore è portato non tanto a immedesimarsi e trasferire mentalmente nella realtà questa vicenda, ma a divertirsi cogliendo i riferimenti che innervano il racconto.

In più, fin dalle battute iniziali, l’insistenza con cui il narratore anticipa come orribili le vicende che si appresta a raccontare pone l’intera storia in una dimensione parodica – come se Mari si stesse prendendo gioco di questa letteratura proprio attraverso una spassionata dichiarazione d’amore nei suoi confronti. In effetti, Mari stesso è abile a non calcare mai la mano, a non lasciarsi andare completamente al fantastico: in ogni punto della narrazione in cui pare che si stia per svelare un mostro o una creatura sovrumana, Mari disattende l’aspettativa inserendo una spiegazione di Osmoc, che sembra sì forzata, ma rimane comunque nel campo del plausibile. E anche il grande segreto di Osmoc non è qualcosa di soprannaturale, ma la possibilissima esistenza di un gemello demente e omicida. Ed è proprio questo cortocircuito, questa sensazione di trovarsi davanti a una storia non impossibile, ma improbabile, a garantire al lettore un certo grado di “piacere” e intrattenimento.

Quasi tutte le tecniche di sospensione del realismo sin qui analizzate ruotano attorno alla figura di Osmoc. Ma Osmoc non è da solo al centro della materia narrativa di Di bestia in bestia: c’è anche il suo gemello malvagio Osac. Ed è proprio il rapporto tra i due fratelli a permettere a Mari di agire sul terzo piano del realismo, quello semiotico. Di più: essendo al centro della narrazione, è proprio a partire da questo piano che Mari può agire anche sugli altri dispositivi del racconto, è grazie alla relazione fra Osmoc e Osac che può scattare la narrazione.

Nel romanzo il rapporto fra Osmoc e Osac è parte di un triangolo, il cui terzo vertice è costituito dalla figura di Emilia. In un bel passo, Osmoc spiega il suo disinteresse nei rapporti sessuali:

 

«Prima o poi bisogna che l’uomo si fermi dicevano gli avventurieri, quindi perché non con Emilia? Ma un legame è un legame, voglio dire che è etiam la dedizione dei corpi, il commercio minuto delle carni impazienti e tiranne… L’anima è fin troppo schernita da un singolo corpo, figurarsi da due… Perché le anime sono discrete, e appena parlano i corpi si ritraggono timidette in se stesse, frastornate da un dialogo identico a quello che torce le membra del manzo del sorcio le pinne del pesce il pistillo del fiore… Quando regna quel potente signor della carne lo spirito sbigottito vagola sperduto nell’aere in attesa di rientrare in sue legittime sedi, escerpato, in tristissimo esilio… Il corpo prende la parola e l’ego mi si cangia in un me, in un te mi si verte ‘l tuo tu… Bontà del nominativo! La vita ci ha rivelato il valore di ciò ch’apprendemmo a scuola in un tempo che ora ci appare lontanissimo…»[10].

 

In maniera opposta, invece, il fratello Osac sviluppa l’attrazione sessuale fin da bambino, nonostante la sua demenza: «Straordinariamente precoce, nel fisico voglio dire, all’età di sei anni era già irresistibilmente attratto dalle sue incaute compagne di giochi»[11]. Così, per soddisfare Emilia e al tempo stesso non consumare con lei alcun atto, Osmoc prepara un piano:

 

«Il piano che avevo in mente era mostruoso, ma attuabile. Si trattava, come avrete indovinato, di ingannare Emilia con una sostituzione di persona, una sostituzione, revocabile a mia discrezione, da effettuarsi soltanto in una circostanza speciale…»[12].

 

La donna partecipa al triangolo per quasi tutta la narrazione, fungendo, anche dopo la sua morte, da particolarissimo oggetto del desiderio. Nel suo Menzogna romantica e verità romanzesca, Girard ha fornito una celeberrima analisi dei rapporti triangolari nei romanzi, partendo dal Don Chisciotte: tale interpretazione è sistematicamente applicabile a tutte le narrazioni, e Di Bestia in bestia certo non sfugge al paradigma girardiano. Anzi, Mari ostenta la natura triangolare della sua storia, ma non per questo la priva di originalità.

Innanzitutto, continuando con Girard, si pone il problema di collocare questo particolare caso sull’immaginaria linea di distanza della mediazione fra i due contendenti. Girard stesso avvisa:

 

Evidentemente, non è spazio fisico quello misurato dallo scarto tra mediatore e soggetto che desidera; anche se la distanza geografica può rappresentare un fattore, la distanza tra mediatore e soggetto è innanzitutto spirituale[13].

 

La distanza è innanzitutto spirituale: Osmoc e Osac rappresenterebbero quindi un vero estremo della mediazione. Sono due mondi del tutto opposti, tra cui la comunicazione è impossibile. Quando ormai il racconto delle peripezie dei due fratelli è agli sgoccioli, il professor Pesùmai insinua che forse lo stesso Osac, nella sua demenza, non vuole altro che assomigliare a Osmoc, ma questi replica ribadendo la differenza che li separa, accentuata anche dal progressivo peggioramento del carattere di Osac. Leggiamo:

 

«Per quanto possiate negarlo siete ancora sentimentalmente legati al mito del selvaggio ch’è buono proprio in quanto selvaggio… Ma l’avete mai visto un selvaggio? Avete mai cercato di parlare con lui? […] Non me la prenderò certo per questo, dopotutto non siete tenuti a conoscere tutta la nostra diversità, e nemmeno potreste… L’importante è che ne sia cosciente io…»[14].

 

«L’importante è che ne sia cosciente io»: tra i due, Osmoc è chiaramente il migliore (lo ripete fin dall’inizio del racconto, rievocando episodi tratti dalla loro infanzia), ed è lui a concedere a Osac di vivere una vita lontano dal resto degli uomini, che probabilmente lo imprigionerebbero. In questo senso, riporto un rimprovero che Osmoc rivolge a Osac in occasione delle prime ribellioni di quest’ultimo, in cui, tra l’altro, è evidentissima la lingua ostentatamente vetero-letteraria adottata da Mari per il personaggio:

 

«“E ben mi colpisci!” gli dissi a testa alta, “colpiscimi, grosso ammasso di carne, sai tu chi colpisci? E chi mai ti nutrirà, ti vestirà? Chi ti offrirà un tetto, un ricetto qualsia che ti ripari dall’insultar de’ nembi? Chi? Chi mai ti proteggerà dalle guardie rapaci, dal manicomio sive hospitale de’ pazzi? Se ti manco io, chi mai impedirà ch’a ludibrio ti s’esponga alle fiere, alligato in catene pella gioja de’ bimbi crudeli che nocellin tireranno, e di carote blocchetti graziosi, tè tè di tal cibo ti nutri clamando impazienti, chi, chi? E ben tu malgrado colpisci!”»[15].

 

Tuttavia, la costante e continua frequentazione l’uno dell’altro può far sollevare obiezioni su questa presunta distanza. Innanzitutto subentra l’affetto:

 

«…ed eravamo l’uno nelle braccia dell’altro e mi sentivo riaffluire la vita, non esisteva più nulla, la fattoressa, il cortile, mio padre, tutto scomparso, solo io e lui, lui ed io…»[16].

 

Nei già citati episodi infantili, inoltre, Osmoc prende spesso le difese del fratello, mostrandosi restio a infliggergli punizioni corporali:

 

«Succedeva qualcosa, l’infrazione di un vetro poniamo, un dolce vastato, la dentifricia miscela spremuta dall’alto invece ch’all’imo: nostro padre ci chiamava tremendo inchiedendone ‘l reo… […] Ad evitar la violenta percossa additavo sincero ‘l gemello, ma non sufficeva e mio padre esigeva pur anco indicassi la pena […]»[17].

 

Sperava persino d’essere punito al posto di Osac, ma al contrario, era rimproverato per l’eccesso di mitezza nella scelta del castigo:

 

«…ma rampognandomi invece (“Ah sentimental mollissimo germe! Sian cinque li colpi, e sette i papagni, e due e mezzo li giorni”) passava senza dimora al gastigo del reo…»[18].

 

Sembra dunque che il rapporto tra Osmoc e Osac si posizioni ai due estremi della linea che abbiamo immaginato: è al tempo stesso una mediazione interna, dove la distanza fra i due è ridotta allo zero, e una mediazione esterna, per cui invece la distanza è amplissima, praticamente incolmabile. Com’è possibile? È possibile, possibilissimo, se teniamo conto del fatto che l’oggetto desiderato, Emilia, è desiderato per ragioni profondamente diverse dai due fratelli. Emilia è un oggetto narrativo (la prolungata assenza di descrizioni fisiche e caratteriali ci impedisce di promuoverla a vero personaggio) che contiene in sé una doppia natura. Ed entrambe le sue nature fungono da oggetto del desiderio dei due fratelli.

Da un lato, c’è Osmoc che è perfettamente consapevole di aver sviluppato una complessa idealizzazione amorosa della sua relazione con Emilia, che rifugge, come abbiamo detto, ogni dimensione fisica:

 

«Emilia amata: non si può dire. Amata, non è più Emilia. Amata vuol dire due, vuol dire lei e con lei la tua propria: o cosa quanto più grande o cosa quanto più vana! Così, pel bene di quell’eterea creatura, io dovevo fuggire la donna reale…»[19].

«Fuggire la donna reale»: sembra proprio che in questo specifico caso l’oggetto desiderato (Emilia) non è desiderato in quanto sé, ma perché simbolo di un altro desiderio più grande ed egoistico:

«Mi parlava la sera sulla riva del lago, ma era a me, a me solo che io rispondevo, era me che vedevo nei suoi grandissimi occhi… E sempre, in qualsiasi momento, la sensazione ossessiva che in tutto ciò ella non entrasse per niente, come se nel mio abbraccio perplesso si fosse venuta a trovare per caso, passante ghermita dalla forma d’amore di cui portiamo lo stampo nel cuore… o nella testa…»[20].

 

Viceversa Osac, così immerso nelle cose del mondo e facile preda degli istinti umani più semplici, vede in Emilia un semplice strumento di appagamento sessuale. E proprio perché tale passione non ha origine razionale, la morte di Emilia lo condurrà alla follia, un delitto dopo l’altro (ogni assassinio verrà abilmente occultato dal fratello), sino all’uccisione di Osmoc stesso. L’inquietudine di Osac si manifesta d’altronde in modo molto poco umano:

 

«in particolare sembrava incattivirsi con l’avvicinarsi della sera, come se le tenebre lo turbassero e lo eccitassero allo stesso tempo; la notte poi… La notte lo sentivo agitarsi là sotto, correre, urlare acceso dal furore…»[21].

 

Due Emilie, dunque: una ideale, che vive nelle poesie e nella mente di Osmoc; una reale, che giace nel letto, defunta, accanto a Osac, e continua a tormentarlo nei suoi istinti. Il triangolo qui delineato vede dunque Osmoc e Osac concorrere, sì, per lo stesso desiderio; ma Osmoc, in virtù del suo netto vantaggio su Osac (essendo quest’ultimo escluso dalla società umana, e non potendo in alcun modo entrarvi), e compresa la dualità del desiderio che li accomuna, condivide di buon grado il suo desiderio con il fratello, fino a spartire con lui lo sfruttamento dell’oggetto desiderato stesso. È da questo dualismo, mi pare, che si scatena la narrazione: difatti, la mediazione fallita di Osmoc (che non può evitare la morte di Emilia, né riesce a prevedere le conseguenze della sua devoluzione parziale al gemello) porta Osac alla pazzia e, come detto, ai delitti. Al tempo stesso, la natura particolare di questo desiderio triangolare nasce dall’estremismo dei due personaggi che lo covano: nel caso di Osac, una forma molto grave di demenza; nel caso di Osmoc, come abbiamo visto, una forzatura del reale messa in atto a fini narrativi da Mari, che ha quindi imbastito un racconto che, fin nei suoi dettagli e meccanismi più intimi, pesca a piene mani – con originalità e padronanza – dal repertorio, all’epoca piuttosto recente, del postmodernismo. E il duello tra vita e letteratura, risolto qui nella storia a favore della letteratura, si trasferisce anche nella realtà: la lunga lavorazione sul romanzo fa scrivere a Mari stesso nella postfazione: «anche per questo Di bestia in bestia è il libro della mia vita»[22].

 

 

[1] Michele Mari, Di bestia in bestia, Einaudi, Torino 2013, p. 222. A causa della rarità della prima edizione Longanesi, nel lavoro qui presente si fa riferimento al testo riveduto e pubblicato dalla casa editrice torinese.

[2] Ibid., p. 220.

[3] È opinione comune che Mari sia uno scrittore sui generis nelle nostre lettere. Tanto per indicare un esempio, sul retro copertina dello stesso Di bestia in bestia Manganelli definisce il romanzo «un libro che se ne sta appartato». Tale opinione è certamente favorita dal continuo ritorno di alcuni nuclei tematici, che a mio avviso, però, per usare una formula di Pavese, rendono Mari un caso di «splendida monotonia». Questa monotonia cresce su un fertile terreno, ossia la profonda vocazione metaletteraria della letteratura italiana, che trova un grande sbocco nel nostro postmodernismo, a cui, con tutte le precisazioni del caso, si può riportare lo stesso Mari.

[4] Federico Bertoni, Realismo e letteratura: una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, pp. 315-316.

[5] Raffaele Donnarumma, in Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea (Il Mulino, Bologna 2014), riconosce i prodromi del postmoderno italiano in tre opere degli anni ’60: Fratelli d’Italia di Arbasino, Hilarotragoedia di Manganelli e le Cosmicomiche di Calvino (cfr. ivi, p. 31).

[6] Cfr. Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980 e Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi, Torino 1979.

[7] Le prime edizioni italiane di libri quali V. o Il coltivatore del Maryland appaiono a partire dalla metà degli anni ’60.

[8] James Wood, The irresponsible self: on laughter and the novel, Picador, New York 2004, p. 185.

[9] Michele Mari, Di bestia in bestia, cit., p. 148.

[10] Ibid., p. 97.

[11] Ibid., p. 100.

[12] Ibid., p. 115.

[13] René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1981, p. 13.

[14] Ibid., pp. 187-188.

[15] Ibid., p. 137.

[16] Ibid., p. 103.

[17] Ibid., pp. 127-128.

[18] Ivi.

[19] Ibid., p. 92.

[20] Ibid., p. 96.

[21] Ibid., p. 139.

[22] Ibid., p. 223.