Venerdì, 23 Giugno 2017 15:11

Luca Ricci e «l’arte del racconto al suo meglio»

Scritto da Carolina Tundo
Luca Ricci Luca Ricci

E poi ti dico una cosa che manderà in estasi gli appassionati di novelle, racconti e short stories. Tra questo materiale c’erano anche un paio di romanzi, che non ho esitato a smembrare. Cioè ti rendi conto? Sono l’unico scrittore al mondo che invece di allungare racconti per ottenere dei romanzi, taglia dei romanzi per fare dei racconti.[1]

 

Storie brevi, nate da romanzi “smembrati” senza rimpianto: è questa la genesi di alcuni racconti confluiti nel libro I difetti fondamentali, di Luca Ricci. Ad affermarlo, in un’intervista con Vanni Santoni pubblicata su minima&moralia, è proprio l’autore, che pure un po’ se ne stupisce – «Cioè ti rendi conto?», dice al suo interlocutore –; eppure non si tratta di una recente scoperta: Ricci è al suo quinto volume di racconti, è stato definito da Andrea Cortellessa «il virtuoso più consumato della tecnica del racconto in Italia»[2]. Insomma, di certo non scopre oggi la sua naturale inclinazione per le short stories, ma la constata, la dichiara; racconta sinteticamente la storia di una lunga fedeltà alla scrittura in forma breve. E lo fa in un periodo in cui le leggi del mercato editoriale (italiano, perlopiù) raccomandano estrema cautela di fronte alla pubblicazione di raccolte di short stories – poco vendibili, su larga scala, perché difficilmente divulgabili attraverso le più moderne strategie di marketing. Ma c’è di più: considerando il fatto storicamente convalidato che i libri di racconti riscuotono meno successo rispetto ai romanzi, e che contribuiscono in maniera nettamente inferiore a rimpinguare le casse delle case editrici, è significativo che Ricci, dopo Einaudi, nel 2017 sia tornato a pubblicare con una major, Rizzoli, e che lo abbia fatto dopo un serrato ‘corteggiamento’ da parte della grande casa editrice, che lo ha ritenuto capace di rendere «l’arte del racconto al suo meglio», tanto da stamparlo in copertina, prima del nome dell’autore e del titolo.

E a proposito del titolo, viene da chiedersi: possono, I difetti, rivelarsi fondamentali? E ancora: a chi appartengono, questi difetti? Quattordici aggettivi identificano altrettanti racconti del libro, ed è lecito, in prima battuta, domandarsi quali difetti possano mai avere uno scomparso o un solitario, un semplice affittacamere. Si comprende, successivamente, che i titoli di ogni storia non contraddistinguono biunivocamente un protagonista; o, per meglio dire, lo fanno, si riferiscono a un particolare ‘tipo’, ma non giungono a stigmatizzarlo, a marchiarlo aprioristicamente; caratterizzano, piuttosto, una situazione, una condizione, uno status.

Ecco perché mi trovo in parziale disaccordo con buona parte di quanto mi è capitato di leggere, su carta e sul web, a proposito di quest’ultimo libro di Ricci: recensioni, commenti, tutti prevalentemente positivi, c’è da dire, ma basati su presupposti teorici fin troppo ‘allineati’ ai canoni critici solitamente utilizzati.

Sia ben chiaro: tutti d’accordo – me compresa – sulle abilità stilistiche di Ricci. C’è chi lo considera un «abile artigiano»[3], chi gli riconosce una «prosa originale»[4]; c’è chi apprezza il suo stile «fluido, dal lessico medio e con l’insindacabile costruzione drammaturgica»[5], tanto da ritenerlo «la cosa più interessante» di tutto il volume[6]. Nessun dubbio, insomma, sulle competenze tecniche dello scrittore pisano, né tantomeno sulla tenuta dei suoi racconti.

Ma esiste una costante, che accomuna la maggior parte di queste opinioni e ne rappresenta, direi, la nota stonata; infatti, sebbene talvolta scaturiscano da posizioni diametralmente opposte, i suddetti pareri ruotano sempre intorno allo stesso cardine: il riferimento a un tema di fondo, che risulti dominante e prevalente, è immancabile, sia che si espliciti nella ricerca a tutti i costi di un «epicentro»[7], sia che punti a sollevare il quesito sulla compattezza (naturale o posticcia?, questo è il dilemma) del tema di base.

Ecco, proprio con questa ‘quadratura’ critica contrasta il mio parere. Ma come!, mi dico, la premessa non risiedeva forse nella basilare – essenziale! – differenza tra romanzo e racconto? Perché, allora, ostinarsi ad applicare alcune categorie prettamente romanzesche a una diversa forma letteraria, ovvero al racconto? Questi personali interrogativi – e le conseguenti risposte – derivano da due letture fondamentali: la summenzionata intervista rilasciata da Ricci a minima&moralia e Gli amori difficili di Calvino. Ma andiamo con ordine.

Dal botta e risposta con Santoni, emerge chiaramente la figura di uno scrittore da “essere-e-non essere”; mi spiego meglio: Ricci è a tutti gli effetti un contemporaneo, ma afferma «perché preoccuparsi di voler essere contemporanei a tutti i costi?»[8]; la sua scrittura è figlia di alcuni grandi padri del racconto quali «Poe, Maupassant, Verga, Buzzati, Carver»[9]: si tratta di modelli, di maestri da «omaggiare», certo, ma poi da «uccidere», per aggirare il rischio di «scrivere racconti alla»[10]; ancora, egli è uno scrittore pisano che non rivendica un’appartenenza campanilistica al proprio paese d’origine, sebbene poi ammetta che, per lui, «tutte le varie città senza nome e di provincia che compaiono ne I difetti fondamentali […] hanno tutte le sembianze di Pisa»[11]. Questo modo di “essere-e-non essere” è piuttosto equilibrato, non si sbilancia mai a favore di uno dei due poli – che piuttosto coesistono – e consente di dribblare ogni tentativo di incasellamento: ci si rende conto, allora, che non è necessario decidere se ci sia stata, da parte di Ricci, una qualsivoglia programmaticità (casuale, voluta) nella stesura dei suoi racconti, nella scelta di un tema di fondo; un filo conduttore esiste, è quello delle “storie di scrittori”, e riesce, allo stesso tempo, ad essere ravvisabile, ma non invadente. Esiste un piano su cui gli attori si muovono liberamente, non strade tracciate, da battere pedissequamente in nome di una matrice comune. Tutti i personaggi orbitano nell’universo magmatico della letteratura: compaiono scrittori – aspiranti, apprendisti, famosi –, editor e critici, studenti universitari e docenti della facoltà di Lettere; ma il libro non è metaletterario in senso teoretico, quanto piuttosto in senso pratico.

Tutte queste figure vengono scandagliate, spogliate, messe a nudo; si emancipano dal loro ruolo cristallizzato e vengono psicanalizzate: la narrazione, spesso, è in prima persona, ma l’indagine interiore può avvenire tacitamente o attraverso un dialogo, essere inconscia o consapevole, subìta o rivendicata. Così, nel racconto Il rifiutato, un editor, seccato dalle insistenti e puntuali telefonate di un aspirante scrittore, dopo la morte di quest’ultimo si scopre dipendente da quello che all’inizio gli sembrava un fastidioso rapporto, rivelatosi però, alla fine, un immancabile appuntamento. E anche lo scrittore rappresentato ne Il solitario finisce col doversi riconoscere dipendente dal continuo, fastidiosissimo, bussare della moglie alla sua porta chiusa: non riuscirebbe a scrivere, senza quel rumore martellante, perché non riuscirebbe a vivere, senza quella donna. Storie di illusioni, invece, sono quelle dello Stregato e dell’Eccitato; racconti di ferina violenza, poi, sono quelli dello Scomparso (uno dei pochi personaggi ad avere un nome, o meglio, uno pseudonimo, Xavier Bellini – scrittore di successo che inscena la propria death hoax) e del Suggestionabile (giornalista, aspirante scrittore, un uomo che subisce un’inspiegabile metamorfosi e si tramuta in donna). Di tutto questo è fatta la letteratura, di istinti umani, primordiali, che siano positivi o negativi: allora ecco che anche il Premio Strega, la sede tradizionalmente designata per la serata della premiazione – il Ninfeo, luogo ‘magico’ – perdono parte dell’aura sacrale che li caratterizza e diventano più ‘umani’, grazie anche al velato sarcasmo con cui Ricci li descrive, non senza un pizzico di nostalgia per i tempi che furono, per le glorie passate della letteratura («Poche cose come il Premio Strega, con la sua festosa decadenza, racchiudevano l’essenza di Roma. E gli Amici della Domenica, i giurati che di anno in anno eleggevano il libro vincitore, non somigliavano forse a quei patrizi dell’antichità che in Senato ordivano tradimenti e congiure? E cos’era in fondo la Letteratura, ormai, se non una splendida rovina?»[12]); viene ammesso e dichiarato il narcisismo che accomuna tutti gli scrittori[13], e altrettanto si dica per il sentimento meschino che talvolta li attanaglia all’uscita dei libri di un amico («capii che nei confronti del mio amico l’invidia aveva sconfitto la curiosità, l’odio s’era pappato la fratellanza»[14], dice il protagonista de L’invidioso). Questo sono gli scrittori, esseri umanamente deperibili, a volte colpevoli, a volte vittime: è in questo senso che i difetti di ognuno si rivelano fondamentali, perché costituiscono un bacino, spesso torbido, ma proprio per questo ricchissimo, ‘gustosissimo’, a cui attingere per la scrittura. E Ricci è capace di rendere realistica questa dimensione, che molti di noi immaginano eterea, senza timore di denunciare le falle del sistema letterario e dei suoi interpreti, ma restituendo loro, contemporaneamente la dignità che meritano.

Adesso, invece, torniamo a Calvino e ai suoi racconti, risalenti perlopiù agli anni Cinquanta. Come anticipato, il libro di Ricci mi ha subito ricordato quello dell’autore de Gli amori difficili: innanzitutto perché la struttura sintagmatica del titolo è identica in entrambe le raccolte (soggetto + attributo), poi perché i titoli delle singole storie sono pensati allo stesso modo (L’avventura di un poeta, L’avventura di un viaggiatore, etc., in Calvino; Il rothiano, Il folle, etc., in Ricci); ma non si tratta solo di una semplicistica somiglianza formale, strutturale: è possibile, partendo da Gli amori difficili, rintracciare una chiave di lettura anche per I difetti fondamentali. Come spiegava Michele Rago già nel 1970 – e come si legge, oggi, nella Postfazione della nuova edizione Mondadori de Gli amori difficili –, «l’ironia, il distacco, la razionalità di partenza e la scoperta delle contraddizioni reali, le composizioni razionali di situazioni illogiche […] la modestia sostenuta da una chiara coscienza autocritica […]»[15] si rintracciano facilmente in questi racconti di Calvino, che anticipano e rappresentano il preludio dei più recenti – quelli de Le cosmicomiche o di Ti con zero –, come dimostra il «tentativo costante di intrecciare l’episodio narrato con allusioni ad “altro”, il valore di simbolo e di stimolo attribuito al personaggio o alla situazione»[16].

 

Non è forse, questo, lo stesso esercizio messo in atto da Luca Ricci?

 

[1] I difetti fondamentali – Intervista a Luca Ricci di Vanni Santoni, 30/01/2017, su www.minimaetmoralia.it.

[2] A. Cortellessa, La terra della prosa, L’orma, Roma, 2014.

[3] Gianluigi Simonetti, Racconti di scrittori incontentabili, «Domenica», 19/03/2017.

[4] Marilù Oliva, recensione a I difetti fondamentali di Luca Ricci, 23/03/2017, su www.carmillaonline.com.

[5] Isabella Corrado, recensione a I difetti fondamentali di Luca Ricci, 24/02/2017, su www.criticaletteraria.org.

[6] Ibidem.

[7] Marilù Oliva, cit.

[8] I difetti fondamentali – Intervista a Luca Ricci di Vanni Santoni, 30/01/2017, su www.minimaetmoralia.it.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] L. Ricci, I difetti fondamentali, Milano, Rizzoli, 2016, p. 165.

[13] Ivi, p. 106.

[14] Ivi, p. 116.

[15] I. Calvino, Gli amori difficili, Milano, Mondadori, 2016, p. 233.

[16] Ivi, p. 231.