In una delle ultime poesie di Tetro entusiasmo, sezione conclusiva della Nuova gioventù (Einaudi, 1975), Pasolini si definisce come «un misero e impotente Socrate»[1] che osserva i vari cambiamenti storici e si interessa al futuro del suo giovane allievo, Fedro, al quale decide di dedicare questi versi pubblicati prima della sua morte. Negli anni Settanta Pasolini sembra essere ossessionato dalla pedagogia, poiché avendo assistito all’affermazione dello stile di vita borghese – ritenuto il simbolo di una regressione sociale che ha portato alla creazione di una società composta da uomini-sudditi integrati nel sistema altamente pervasivo dei consumi – sente il dovere di indicare ai giovani i valori fondamentali per la vita di un uomo. Sull’esempio di Gramsci, egli pensa che tale compito spetti principalmente all’intellettuale. Non stupisce quindi che l’impegno educativo sia vissuto da Pasolini come una missione e che tale propensione non venga meno neanche negli anni che precedono la sua morte, caratterizzati da una cupa rassegnazione dovuta all’imperante neocapitalismo che sancisce la vittoria delle masse sui singoli individui, trasformati in esseri alienati senza una propria libertà decisionale. Le dodici poesie di Tetro entusiasmo possono esser considerate il testamento poetico che Pasolini intende lasciare alle giovani generazioni; egli, avendo perso ormai le speranze di una possibile inversione di rotta, decide comunque di vestire i panni non tanto del pedagogo ma del fratello maggiore che, in un presente offuscato da perbenismo e benessere, fornisce gli strumenti necessari per edificare un futuro diverso dal presente ‘infernale’.
Alla base del pensiero educativo pasoliniano riveste grande importanza l’influenza che sul poeta ha esercitato Don Lorenzo Milani, in particolare attraverso Lettera a una professoressa, libro scritto da Don Milani e dai suoi allievi della scuola di Barbiana e pubblicato nel maggio del 1967. Pasolini recensisce quest’opera in un’intervista fattagli durante una trasmissione televisiva, andata in onda su Rai Uno il 19 febbraio 1968[2]. Il giudizio del poeta è positivo ed entusiasta, al punto da arrivare a considerare il libro come uno dei più belli che lui abbia mai letto, perché scritto con perizia e dotato di grande funzionalità. Nel testo, Don Milani pone attenzione sulla formazione scolastica in Italia, denunciando lo stato della scuola italiana vista come «un ospedale che cura i sani e respinge i malati»[3], perché incurante delle divergenze sociali e delle difficoltà degli ultimi; dunque più che scuola essa si presenta come “non scuola”, una scuola in cui imperano l’odio e la discriminazione. Su queste basi, Don Milani avvia il suo progetto educativo centrato su una didattica di tipo inclusivo e sulla valorizzazione del singolo individuo, e fonda nel 1956 la scuola di Barbiana per consentire ai ragazzi svantaggiati del popolo di avere le stesse opportunità dei loro coetanei di città. L’operato di Don Milani pone le basi per un dibattito pedagogico volto al miglioramento delle scuole e a una loro maggiore apertura verso le diversità sociali, perché è solo attraverso il confronto col diverso che un individuo matura e diventa conscio del proprio valore.
È facile riscontrare comunanza di pensiero tra Pasolini e Don Milani, in quanto anche il poeta – «disperatamente interessato»[4] alla condizione dei giovani poiché è nella loro formazione che egli vede l’arma per contrastare l’omologazione e il nichilismo – porta avanti una battaglia per il rinnovamento dei metodi educativi della scuola dell’obbligo, al cui interno la presenza di «feticci»[5], ovvero di figure austere ed intransigenti che basano i loro metodi d’insegnamento sul potere e sul terrore anziché sulla sollecitazione d’interesse negli alunni, non fa che ostacolare il rapporto umano tra docenti e discenti. Il giudizio del poeta è drastico: così com’è, la scuola dell’obbligo andrebbe abolita perché
è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche [...] le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero[6].
Pasolini sottolinea il bisogno di nuove strategie didattiche che intervengano a introdurre un nuovo rapporto educativo che non si presenti come verticale, dunque rigido e univoco ma di tipo orizzontale, aperto al dialogo e al confronto con il prossimo. Scopo principale della strategia pedagogica di Don Milani e di Pasolini è insegnare ai giovani come riappropriarsi delle proprie capacità critiche per non lasciarsi manovrare dal Potere. Per entrambi è fondamentale infondere nelle nuove generazioni il coraggio di porsi domande ed essere curiose rispetto a tutto ciò che le circonda, maturando così una propria coscienza indipendente. A riprova di ciò, notevole importanza assumono i ricordi di alcuni ex alunni di Pasolini, come Vincenzo Cerami e Laura Bonifaci, raccolti da Giordano Meacci:
Un giorno, in giardino, durante la ricreazione, gli feci una domanda del tutto inattesa, che in verità sorprese più me che lui. Gli chiesi in maniera farfugliata cosa avrei dovuto fare per non trovarmi tanto male nella vita. Lui, dopo aver aggrottato per un attimo le sopracciglia, si lasciò sfuggire un sorriso un po’ disarmato e un po’ tenero. Ci pensò qualche secondo e mi disse letteralmente: “Basta che non fai quello che fanno tutti!”[7]
Lui voleva la semplicità. Ci diceva di guardare fuori: “Dovete cercare dentro voi stessi, e poi guardare fuori dalla finestra. [...] Usava il sistema della maieutica di Socrate. Non voleva indottrinarci. Ci insegnava, ci faceva conoscere determinate cose, però poi quello che voleva era che tirassimo fuori, da dentro di noi, i nostri sentimenti, le nostre osservazioni[8].
Anche per Don Milani fondamentale è preservare la propria identità personale, e per questo il compito della scuola dovrebbe esser quello di ascoltare i bisogni di ogni singolo ragazzo:
I ragazzi son tutti diversi, son diversi i momenti storici e ogni momento dello stesso ragazzo, son diversi i paesi, gli ambienti, le famiglie. [...] A Barbiana non passava giorno che non s’entrasse in problemi pedagogici. Ma non con questo nome. Per noi avevano sempre il nome preciso di un ragazzo[9].
Il grande lascito del progetto educativo del parroco di Barbiana e del poeta friulano consiste nel credere che una vera redenzione sociale sia attuabile solo attraverso una nuova concezione di uomo, da diffondere attraverso una scuola che sia strumento di contestazione dell’attuale situazione civile, politica e culturale; una scuola aperta all’inclusione e portavoce di una didattica democratica e di una morale lontana dall’utilitarismo imposto dal consumismo; una scuola, cioè, che fornisca ai ragazzi i motivi per ritenere la diversità un tesoro da preservare e che sia capace di inculcare una vera cultura della pace, rispettosa del prossimo.
[1] P. P. PASOLINI, Versi sottili come righe di pioggia, in ID., La nuova gioventù, Milano, Garzanti, 2016, p. 269.
[2] L’estratto della suddetta trasmissione televisiva, in cui Pasolini recensisce Lettera a una professoressa è reperibile on line, presso l’archivio Rai Teche, al seguente link: http://www.teche.rai.it/2017/06/don-milani-letto-da-pasolini/.
[3] L. MILANI, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, p. 20.
[4] P. P. PASOLINI, Versi sottili come righe di pioggia, in ID., La nuova gioventù, cit., p. 270.
[5] Cfr. ID., Scuola senza feticci, «Il Mattino del Popolo», 25 dicembre 1947.
[6] ID., Lettere luterane, Milano, Garzanti, 2009, p. 186.
[7] Testimonianza di Vincenzo Cerami tratta da G. MEACCI, Il professor Pasolini e l’”inveramento”, in R. CARNERO E A. FELICE (a cura di), Pasolini e la pedagogia, Venezia, Marsilio, 2015, p. 59.
[8] Testimonianza di Laura Bonifaci tratta da ID., Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma, Minimum fax, 2015, p. 182.
[9] L. MILANI, Lettera a una professoressa, cit., pp. 119-120.