Libretto di transito è uscito nell’aprile 2018 presso Amos Edizioni. Tradotto in inglese da John Taylor, è in uscita con testo originale a fronte, presso The Bitter Oleander Press (Fayetteville, New York), con il titolo The Little Book of Passage. Questo testo è l’introduzione che accompagna l’edizione americana.
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Libretto di transito di Franca Mancinelli viene pubblicato nel 2018 dopo le prime due opere, Mala kruna (2007) e Pasta Madre (2013), confermandola come una delle voci della poesia contemporanea italiana più convincenti. In Mala kruna l’autrice esplora la relazione con l’Altro e con l’alterità (il titolo significa “piccola corona” in serbo-croato), spesso nel contesto dell’amore e della ricerca di sé; e poi, in Pasta madre (letteralmente “mother dough”), si concentra sulla “pasta originaria” con il suo “lievito vivo” della natura e del linguaggio poetico, cioè gli elementi primordiali ai quali deve continuamente fare appello per cercare risorse genuine e salubri. Immagini vivide, insolite, spesso intense, sottolineano la distanza da questo nutrimento vitale così come il suo potenziale curativo ogni volta che l’autrice lo incontra. Le poesie evocano momenti privilegiati, che spesso si svolgono tra il sonno e la veglia, quando diventano possibili brevi comunioni con questa “pasta originaria” che nutre la speranza, o, al contrario, quando Mancinelli percepisce la sua separazione da essa ancora più intensamente.
Composto di trentatré poesie in prosa e sequenze narrative, questo nuovo libro tende verso la prosa poetica breve dopo gli altrettanto brevi e incisivi versi dei due libri precedenti. Cosa implica questo cambiamento di forma? Un lieve aumento dell’elemento narrativo, mi sembra, ma nel senso più frammentario del termine. Mancinelli potrebbe benissimo definire un ambiente (un vagone), suggerire che viaggia da sola («senza sapere cosa mi porta a te»), accennare a uno sguardo che rivolge fuori dal finestrino e che, tramite il riflesso sul vetro, offre uno scorcio, anzi la visione prolungata di quel “tu” mancante che ora sembra sovrapposto sul vetro e sul paesaggio che scorre veloce (quasi fosse effettivamente seduto di fronte a lei). Eppure la qualità evocativa di questi testi non risiede tanto nelle “trame” concise ma in ciò che viene suggerito da esse: in questo caso, l’emozione inespressa che rende l’assenza dell’altro così presente alla mente del narratore consentendo persino di “leggere” – come il brano stesso conclude – «nel viso finché c’era luce». Per non parlare dell’emozione che risulta da questa ricca esperienza mentale ed emotiva che resta sicuramente viva al di là, per così dire, del tempo e della stesura del testo. Altri eventi potrebbero accadere successivamente – oppure no. Questo non possiamo saperlo. «Il racconto continua silenzioso», come afferma altrove il poeta.
Le evocazioni di Mancinelli ruotano quindi attorno a un centro inespresso che, mentre il lettore medita su di esso, rivela la sua complessità e mistero. Ossia un centro senza parole saturo di emozioni, pensieri, percezioni e persino azioni immaginabili – quelle che riguardano, ad esempio, la perdita o la mancanza di qualcosa o qualcuno di essenziale. O forse dovrei dire, più cautamente, che il contenuto di questo centro, il “cuore della questione” (come sono tentato di chiamarlo), non può ancora, o prontamente, essere designato e nominato. Questo è il motivo per cui l’epigrafe –«To fill a Gap / Insert the Thing that caused it – («Per chiudere una falla / devi inserirvi ciò che la produsse–») di Emily Dickinson è così appropriata. Molte di queste poesie in prosa derivano da o indicano lacune: la distanza tra due luoghi (o due esseri umani); una falla in una continuità che deve essere colmata, forse dall’«argilla» che un altro essere umano porta ai luoghi rotti e vuoti», un abisso, limitato o più drammatico, che improvvisamente si apre, come quella «fenditura che si apre» associata a un treno in corsa e «qualcosa di enorme, per cui dobbiamo ancora aspettare». Come la “Cosa” di Dickinson, questo “qualcosa” è fondamentale ma non del tutto chiaro: lo avvertiamo profondamente, esiste con certezza, eppure non è completamente definito. Ma dobbiamo cercare di colmare la falla come meglio possiamo.
In ogni caso, un’emozione inquietante, un “movimento” che percepiamo nelle nostre menti e corpi in determinate circostanze, specialmente quando ci troviamo di fronte a ciò che Mancinelli chiama «faglia» (come in geologia), una “linea di faglia”, una “crepa”, o “fenditura” che deve essere riparata, sanata, richiusa. «La mattina qualcosa nel tuo corpo si muoveva», scrive in un testo, «un’acqua attraversata dalla sua corrente». È significativo che il movimento venga raffigurato piuttosto spesso in questo libro, compresi altri viaggi in treno, con valigie da fare o disfare e «cose che hai scordato di portare con te». Alcune prose poetiche, inoltre, suggeriscono movimenti di un potenziale cambiamento di vita (interiore o esteriore) che si sta verificando, che ha avuto luogo, o che potrebbe accadere nel prossimo futuro.
In un testo, che si apre con un’immagine fissa, un «bicchiere d’acqua sul tavolo» quasi pieno, il poeta passa dal guardare quell’acqua al vedere nuovamente i colori cangianti del mare dove giocava con gli altri bambini; ma come ricorda, i colori formano una rete e un «oscuro richiamo» diventa visibile nelle profondità dell’acqua. Ora da adulta, sta rievocando la fine dell’infanzia (un tema molto presente qui):
Un bicchiere d’acqua sul tavolo, quasi colmo per caso dopo la cena. Eravamo limpidi e soli, con qualcosa che bruciava dentro. Un colore prima di un altro, e poi diversi, insieme, come in una rete che si muove luminosa. L’azzurro saliva dalle caviglie, fino a dove potevamo ancora parlare. Poi ci ha toccati. Si è immerso nell’acqua il suo oscuro richiamo.
Anche il passaggio dall’infanzia all’età adulta implica spesso fondamentali e talvolta dolorose separazioni – questi “vuoti”, “fratture” e “linee di faglia”, ancora una volta. Si nota spesso, nella scrittura di Mancinelli, il tentativo di confrontarsi con altri tipi di unità spezzate, come uomo e natura, “io” e “tu”, il mondo interiore della sensibilità e il mondo esterno dei duri fatti.
Altrove, le delicate, frammentarie architetture narrative che ha costruito contano meno su elementi del mondo reale che su metafore o persino immagini oniriche. In una poesia in prosa, il narratore afferma «ero una casa abitata da piante che si sporgono ai vuoti»; in un altro testo, un’iniziale immagine realistica – il chinarsi su una pozza di fango – si evolve in una scena onirica che riguarda un “rituale” archetipico, un rito di passaggio:
Ti chini verso una pozza di fango. Porti le mani sul viso e lo fai scuro. Resta l’incavo degli occhi. Dalla punta delle dita alle spalle ti accarezza la terra. Il bianco dei denti chiama le ossa sommerse. Un grande animale marino dorme sotto la sabbia. Il rito è quasi concluso.
Il libro si conclude con un albero benefico e metaforico le cui foglie stanno «iniziando una frase per te». Infatti, tutti i brani di questo libro, presi uno dopo l’altro, sembrano delineare un’unica storia complessiva; a ogni modo, un movimento verso la guarigione o il rinnovamento.
Ciò mi conduce verso la seconda epigrafe, di Simone Weil. «L’arbre est en vérité en raciné dans le ciel» («In verità, l’albero è radicato nel cielo»). Ovviamente, l’“en vérité” di Weil, che a volte viene tradotto come “in verità”, può anche essere reso da “in effetti” o “in realtà”, ma vorrei enfatizzare la serietà con cui Mancinelli cerca la verità attraverso la sua sobria, meditata pratica di scrittura, che rifugge tutti i retorici gesti plateali che potrebbero offuscare la messa a fuoco e l’indagine. Come nella massima di Weil, le “radici” autentiche del mondo reale che ci riguardano hanno, per Mancinelli, un’origine meno accessibile o percettibile rispetto al semplice terreno su cui camminiamo (anche se si notano, qua e là, le immagini contrastanti di scarpe o piedi che premono o pesano sulla terra, tutti moniti non solo a scrutare dentro l’esistenza nel modo più profondo possibile, ma anche a non perdere il contatto con essa durante il processo). C’è sempre di più di quanto si veda o si senta, le fonti autentiche sono altrove, ed è compito della poesia cercare di colmare queste distanze o almeno indicare dove potrebbero essere costruiti i ponti. Probabilmente, il “cielo” o il “paradiso” di Weil (il francese “ciel” significa entrambi) dovrebbero essere equiparati, per queste prose poetiche, non a un orizzonte trascendente ma a un sentire nel senso più pieno, che comprende l’inconscio, i ricordi, i sogni, le visioni e la consapevolezza amplificata – quell’intricata miscela di pensiero e sentimento che un essere umano prova di fronte a quell’albero, a quell’altra persona, o a se stesso.
Mancinelli scrive in un italiano nitido, conciso, finemente allusivo. Le ambiguità e gli enigmi che affascinano nel suo lavoro derivano dal tipo di avvenimenti e sensazioni che esplora, non da oscurità stilistica. Con l’aiuto generoso e meticoloso del poeta, sono riuscito a mantenere l’inglese vicino all’italiano quasi ovunque. Ma lasciatemi aggiungere una parola sul titolo. Libretto di transito, un titolo polisemico, sin da subito, chiamato a un’interpretazione meno immediata e letterale. Prima di tutto, la parola inglese “libretto” è associata all’opera, mentre la parola italiana possiede oltre a questo significato anche degli altri vivi nel linguaggio quotidiano. Ad esempio, un “libretto” potrebbe essere un opuscolo o anche un piccolo manuale (come un “libretto d’istruzioni”). In secondo luogo, la sfumatura musicale del “libretto” non è presente in Mancinelli, il significato è piuttosto quello di un libro relativamente breve – accuratamente strutturato, tra l’altro, attraverso parole chiave, immagini, emozioni o scene che fanno da collegamento tra un testo e l’altro. Allo stesso modo, sebbene “transito” significhi in inglese “transit”, e “passeggeri in transito” “passengers in transit”, differenze semantiche tra i due termini affini si presentano in un’espressione come “uccelli di transito” (“birds of passage”) e quando “transito” significa “morte” (in inglese “passing away”). Nei testi stessi, la morte è evocata alcune volte, da qui la necessità di cercare una parola in inglese che possa avere un tono meno tecnico e giuridico rispetto a “transit” e che possa far emergere anche questi altri significati. Inutile dire che la materia e la scrittura di questo libro tracciano una transizione, un passaggio. Quasi come un taccuino, questo testo ha accompagnato il poeta sulla sua strada. Perciò, The Little Book of Passage.
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John Taylor, Saint-Barthélemy d’Anjou. 5 Marzo 2018. Traduzione dall’inglese di Riccardo Frolloni.
da The Little Book of Passage (Libretto di transito)
Non è solo preparare una valigia. È confezionarsi, vestirsi bene. Entrare nella taglia esatta della pena. Gesti a una destinazione sola. Calzando scarpe che non hanno mai premuto la terra, dormiremo nel centro dello sguardo, come neonati.
It’s not just packing a suitcase. It’s primping and preening oneself. Entering into the exact size of the punishment. All acts aimed at a single destination. Wearing shoes that have never pressed down on the earth, we will sleep at the center of the gaze, like newborn children.
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A volte un breve annuncio ricorda la linea gialla, a volte è soltanto un rumore che si avvicina. La fenditura che si apre dev’essere arginata subito con le mani che si aggrappano a qualcosa, gli occhi chiusi. Ci si stringe alla panca, agli oggetti che si hanno con sé, fino a che il treno trascorre al nostro fianco. Con il tremore di qualcosa di enorme, per cui dobbiamo ancora aspettare.
Sometimes a brief warning recalls the yellow line, sometimes it’s just a noise approaching. Suddenly hands must stop up the widening crack by gripping at something, eyes shut. We cling to the benches, to objects brought along, until the train rushes by. Shaking like something enormous for which we still have to wait.
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Viaggio senza sapere cosa mi porta a te. So che stai andando oltre i confini del foglio, dei campi coltivati. È il tuo modo di venirmi incontro: come un’acqua in cammino, diramando. Guardando dal finestrino, ti ho letto nel viso finché c’era luce.
Traveling without knowing what brings me to you. I know you’re going beyond the limits of the sheet of paper, of the cultivated fields. It’s your way of coming face to face with me: like water in its course, branching off. Looking out the window, I kept reading into your face until light came.
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La sera, con una sigaretta tra le dita, guardando il cielo scurirsi come terra bagnata, mio padre annaffia. Quando è laggiù, nascosto dalle piante dei pomodori, nell’angolo più lontano del giardino, posso sentire dal pozzo l’acqua versarsi e scendere tra i granuli, fino alle radici dove è attesa. Qui, dove il flusso si perde, crescono erbe dure dal piccolo fiore, piante dal frutto velenoso. Ma non riesco a zapparle via, non riesco a riparare la falda.
In the evening, a cigarette between his fingers, watching the sky darken like moistened soil, my father waters his garden. When he’s standing down there in the farthest corner, hidden by the tomato plants, I can hear the water pouring from the well, streaming down between the dirt clods to the roots awaiting it. Here, where the flow has trickled out, sprout plants with poisonous fruit, stiff stalks of grass with tiny flowers. I haven’t succeeded in hoeing them away, in repairing the water table.
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Nel tuo petto c’è una piccola faglia. Quando lo stringo o vi poso la testa c’è questo soffio d’aria. Ha l’umidità dei boschi e l’odore della terra. Le montagne vicine con i loro torrenti gelati. Da quando l’ho sentito non posso fare a meno di riconoscerlo. Anche quando, uno dopo l’altro, nella tua voce passano uccelli d’alta quota, segnando una rotta nel cielo limpido.
La faglia è in te, si allarga. Un soffio di freddo ti attraversa le costole e ti sta scomponendo. Non hai più un orecchio. Il tuo collo è svanito. Tra una spalla e l’altra si apre un buio popolato di fremiti, di richiami da ramo a ramo, su un pendio scosceso a dirotto, non attraversato da passi umani.
There is a small fault line in your chest. When I hug your chest or place my head on it there is this puff of air. It has a woodsy moistness and an earthy smell to it. The nearby mountains with their frozen torrents. Ever since I have heard it, I cannot help but recognize it. Even when high-soaring birds fly one after the other through your voice, marking out a route in the clear sky.
The fault line is inside you, it is widening. A chilly gust of wind blows through your ribs and is decomposing you. You no longer have an ear. Your neck has vanished. Between one shoulder and the other one opens a darkness peopled with shivers, with voices calling out from branch to branch, on a sheer slope uncrossed by human steps.