Giovedì, 26 Aprile 2018 12:51

«Il vero realismo è un’antropologia». Intervista a Giulio Milani su "Wildworld", la nuova collana di Transeuropa

Scritto da Alessia Scorrano

La storica casa editrice Transeuropa, attualmente diretta da Giulio Milani, si rinnova investendo in un’inedita operazione editoriale: il “Transeuropa Discovery Tour”, un interessante progetto itinerante che ha coinvolto, durante la scorsa estate, gran parte dell’Italia meridionale in una serie di laboratori gratuiti, volti a rintracciare i nuovi autori e le nuove tendenze della narrativa italiana. La ricerca di Milani è recentemente culminata nella progettazione di una nuova collana di romanzi, Wildworld, con la quale raccontare, attraverso una chiave di lettura distopica e paradossale, i più importanti fatti della cronaca nera contemporanea. 

 

Come ha opportunamente osservato Serena Uccello in un recente articolo[1], Wildworld sembrerebbe voler affrontare tre questioni cruciali del mondo editoriale contemporaneo: l’invenzione del genere, la scelta dei talenti, il reperimento delle risorse. Vorrei perciò chiederle: come sono nate queste linee direttrici innovative e come si relazionano con l’esigenza di rintracciare un nuovo percorso per l’editoria italiana?

L’analisi di Serena Uccello è corretta, per quanto mi riguarda, perché questa iniziativa si colloca nella parte alta della filiera del libro, la produzione. In passato ho cercato nuove strade sul fronte della distribuzione con il lancio della vetrina on-line dell'editoria di qualità, ISBF, che uscì in contemporanea con le Classifiche di Pordenonelegge (2010) e in seguito con lo scaffale di tutela della bibliodiversità sperimentato insieme a Libreriecoop (2012). Poi fu la volta della promozione con il varo della collana di coedizioni Indies di Feltrinelli (2013), che aveva il compito ideale di accendere un riflettore sul meglio della produzione letteraria delle piccole scuderie di ricerca. Queste sperimentazioni hanno avuto alterne fortune perché non potevo controllarle direttamente e mancava sempre il passaggio principale: coinvolgere gli autori nel tentativo di ripensare e superare i modelli letterari disponibili. Nel frattempo si andavano infatti affermando due nuovi generi molto interessanti e di successo: l'autofiction sul fronte letterario nazionale (Gomorra e Troppi paradisi sono del 2006) e le serie tv sul versante cinematografico internazionale (Lost è del 2004). Ho iniziato a studiare questi fenomeni e a dare spazio a determinate teorizzazioni critiche (il saggio L'io possibile di Lorenzo Marchese è del 2014 e la collettanea Nuovi realismi del 2016, entrambi usciti per la nostra collana di critica letteraria “Pronto intervento”), ma la svolta per me è coincisa con la lettura del saggio La letteratura vista da lontano di Franco Moretti, specie la parte dedicata allo studio dell'evoluzione e della durata dei generi letterari: non avevo mai messo in relazione la nascita e la morte di un genere letterario con la generazione di lettori che la supportano (ipotesi che vale anche per il cinema e la tv); per me, immerso com'ero nell'analisi dei generi di cui dicevo prima, è stato l'equivalente di un'illuminazione. In quel periodo stavo già immaginando un crocevia tra l'autofiction alla Saviano, alla Carrère o alla Cercas e un altro modello letterario interessante, la rappresentazione dei fatti di cronaca: nel 2011 erano usciti due libri stuzzicanti come Il demone a Beslan di Andrea Tarabbia e soprattutto Elisabeth di Paolo Sortino: l'autore dichiarava programmaticamente la totale “invenzione” del suo personaggio, per quanto ispirata da una vicenda reale. Dunque Sortino rinunciava sia all'impiego di un “io detective” sul modello dell'autofiction che si rifà a Truman Capote quanto alla ricostruzione documentale che sta alla base di un altro filone di successo come l'affresco storico noir alla Lucarelli o alla De Cataldo (l'equivalente di quel “nuovo realismo” che nel 2008 i Wu Ming definirono “New Italian Epic”). Solo che Sortino, come Tarabbia, rimaneva legato alla messinscena dei fatti di cronaca come “realmente accaduti”, mentre io guardavo all'autofiction di Walter Siti come occasione narrativa di presunta coincidenza tra realtà e finzione in cui la materia biografica dell'autore diventa un trampolino illusionistico per mettere il lettore davanti al paradosso del bugiardo. Qui si apriva una strada per me più interessante, dal punto di vista letterario: quella della sovversione dei modelli poetici di maniera per la rappresentazione della realtà (a questo proposito, in tema per esempio di terrorismo e stereotipia, rimando al libro di Gabriele Vitello L'album di famiglia, pubblicato sempre da Transeuropa nel 2013); inoltre Siti parte da una visione del lettore come soggetto attivo della lettura, un interlocutore a cui è richiesto lo sforzo o affidata la sfida di esplorare il testo come se fosse a propria volta un detective (si veda il saggio Il realismo è l'impossibile, Nottetempo): quanto fanno le più riuscite serie tv d'autore. Da queste ultime, ho ripreso l'idea che l'illusione di realismo non si sviluppa a partire dalla verosimiglianza, ma in modo controintuitivo grazie alla presenza di elementi come il paradossale, il parossistico, il meraviglioso, il mostruoso, il soprannaturale psicologico o sociologico, la surdeterminazione. Tutti aspetti dello specifico letterario. A questo punto avevo gli ingredienti giusti per tentare la nuova formula “generazionale”: incorporare nel fatto di cronaca una distopia. È quanto ho suggerito di fare agli autori della “Wildworld”, per lo più esordienti e quindi privi di una poetica già consolidata, per trasformare la voglia di raccontarsi e di raccontare nella necessità di essere letti. I primi titoli dimostrano che in questo modo è stato rinnovato anche il romanzo di formazione tradizionale, perché non passa più dal recinto sacro e autoreferenziale dell'io dell'autore, ma dallo sforzo di raccontare sé stessi dentro un'epoca e una società globalizzate, per interposto fatto di cronaca. Abbiamo insomma coniugato la potente intuizione di Arthur Rimbaud con l'idea di società come spettacolo: se io è un altro, lo spettatore è parte in causa degli eventi a cui assiste e deve risemantizzarli nelle sue strategie di sopravvivenza, allo scopo di dare un senso alla propria vita in un mondo complesso e vuoto, nel significato orientale di capace, come il nostro. Da questa impostazione deriva anche l'impiego di determinati dispositivi tecnici che bandiscono, per esempio, l'affabulazione novecentesca: il personaggio deve pensare e provare il meno possibile, perché è il lettore l'unico soggetto vivente, e a tutti gli effetti pagante, della giostra emotiva su cui il testo lo farà salire: i personaggi devono essere vuoti nel senso di capaci di ospitare l'esperienza, i saperi e l'inconscio dei singoli lettori, che sono i soli interlocutori deputati a pensare e provare qualcosa, che però non sia a comando. Allora anche i lettori torneranno. L'idea del reperimento delle risorse col crowdfunding va proprio in questa direzione: il problema di uno scrittore non è soltanto pubblicare, ma trovare un pubblico; qui convergono gli interessi dei tre attori in campo, lo scrittore, l'editore e il lettore. La giustificazione di un progetto editoriale passa anche dal gradimento del pubblico e dalla sostenibilità economica: in editoria, come in democrazia, contano i numeri e i diversi compromessi per trovarli.

Dal crowdfunding allo studio delle serie televisive, Wildworld appare come il primo progetto italiano in grado di affermare inequivocabilmente la necessità per l’editoria italiana di adeguarsi alle esigenze delle nuove generazioni. Come reagisce un ambiente tradizionalmente conservatore come quello editoriale a questa inedita ventata di modernità? E come può tentare di contrastare l’implacabile avanzata delle nuove tecnologie nell’impari confronto attorno alle moderne forme di narrazione?

Per qualche tempo tutto sembrerà più vecchio, rispetto a una serie antologica che è destinata a rimappare il nostro immaginario: lo abbiamo già vissuto nel 1996 con l'antologia dei Cannibali, nel 2006 con l'uscita di Gomorra e Troppi paradisi, forse anche nel 2011 con Elisabeth, quest'anno – con un po' di fortuna – capiterà con La notte dei ragni d'oleandro e Sotto il suo occhio. Sarà un effetto temporaneo e forse doloroso per chi si sente indietro, ma a cui presto seguirà la fioritura di un nuovo filone letterario: l'intero organismo editoriale ha bisogno di queste boccate d'ossigeno, visti i magri risultati del settore e le statistiche che ci giocano contro, e se la profezia si auto-avvererà tutto l'ecosistema ne trarrà vantaggio. Come ho spiegato i lettori hanno a loro volta delle esigenze che ancora non siamo riusciti a intercettare, per questo si è reso necessario rivoluzionare il modo di lavorare sul romanzesco, sugli esordienti e sul concetto stesso di collana editoriale, guardando al successo delle produzioni seriali d'autore: i benefici, com'è facile intuire, verranno per tutti, anche perché Transeuropa non ha registrato un brevetto, ma ha solo messo in campo una serie di saperi, di tecniche e di metodi che chiunque potrà conoscere e migliorare nel prosieguo. Per quanto riguarda la concorrenza delle nuove tecnologie, in termini di narrazione non dobbiamo pensare che la disponibilità di medium alternativi condanni il libro a soccombere. I caratteri a stampa sono con noi da centinaia di anni e lo saranno ancora a lungo, mentre il paradigma narrativo è un tutt'uno con la nascita della coscienza umana. Semplicemente, se saltano le regole del gioco è perché ci stiamo immaginando un gioco nuovo. Gli scrittori devono soltanto decidere se affrontare la sfida da protagonisti o da spettatori del successo altrui.

È stato di recente pubblicato il primo romanzo della collana, La notte dei ragni d’oleandro, in cui Mario Bramè conduce il lettore in una delle pagine più tragiche della recente cronaca occidentale, l’attacco terroristico che coinvolse il Bataclan il 13 novembre del 2015. È il primo reale confronto dei lettori con le modalità narrative di Wildworld e con il gusto per la distopia applicato a un caso di cronaca. Quale crede sarà la reazione del pubblico?

Prevedo un'accoglienza tiepida, all'inizio, perché il fatto di cronaca non è italiano e il nostro paese è stato per fortuna soltanto sfiorato, fin qui, dal terrorismo di matrice islamica; ma anche perché una serie antologica trae la propria forza dal succedersi degli episodi; sono però convinto che alla fine dell'anno, dopo le quattro uscite previste – molto diverse tra loro anche per voce, sensibilità, interessi e temi –, il progetto mostrerà tutta la sua forza innovativa e incontrerà il suo pubblico. Quanto sarà ampio? Non lo so ed è troppo presto per ragionare su questi aspetti: i libri di ricerca sono come manifesti politici, si rivolgono a tutti ma raccolgono solo consensi di parte, specie in avvio di campagna.

Per quanto concerne il resto della collana, cosa l’ha colpita di queste storie e quale ritiene sia il filo comune che le sottende e che allo stesso tempo consente loro di non scadere nel “semplice” racconto d’inchiesta?

Tutte le vicende raccontate sono note come fatti di cronaca, per i loro caratteri esteriori e più afferrabili, manipolabili, ma la sonda giornalistica o giudiziaria non riesce quasi mai a scandagliare la profondità di quegli aspetti capaci di parlare a tutti: vediamo il mostro ma non il mostruoso che è con noi. Questo è il compito di una letteratura che non intende fare bella figura in società, separare i buoni dai cattivi, le vittime dai carnefici, ma parlare “da cuore a cuore” all'umanità che è in tutti, perfino nei colpevoli, e viceversa anche della colpa che è in tutta l'umanità. Ecco, allora potremmo dire che il vero realismo è un'antropologia e questa antropologia è sottesa a tutti i libri della serie.

Transeuropa si propone da sempre come una casa editrice innovativa, negli anni ha recitato un ruolo non secondario nel processo di rinnovamento culturale e letterario italiano, grazie anche alla presenza di grandi figure come quella di Pier Vittorio Tondelli, le cui tre antologie del Progetto under 25 hanno fatto la storia dell’editoria italiana. Qual è il suo rapporto con questa eredità?

Da quando ho scelto, dopo essere stato selezionato come autore e poi come editor, di occuparmi a tempo pieno di questa casa editrice ho maturato nei confronti dell'eredità di Tondelli la stessa attitudine che ho nei confronti della tradizione letteraria: bisogna conoscerla per poi tradirla in modo creativo. La capacità letteraria non è data dalla somma dei libri letti o pubblicati, ma è piuttosto il risultato di una performance: non conta molto quello che si sa o che si è imparato, se poi non si sa fare. Allo stesso modo un editore non è soltanto il contenitore dei libri ricevuti in dote dagli autori, ma anche il filtro e la bussola che ha reso possibile trasformare un libro in un evento. Quando Tondelli lanciò il progetto di un'antologia di esordienti under 25 fu preso per pazzo: riuscì a realizzare la sua performance soltanto con una casa editrice di provincia come Transeuropa, molto piccola ma anche libera dagli schemi. I risultati non arrivarono subito: bisognerà aspettare l'esordio di Silvia Ballestra e poi di Enrico Brizzi. Fu una rivoluzione di cui approfittarono in molti, tanto che nel periodo successivo e ancora fino a qualche anno fa qualcuno arrivò a pensare che quello dell'esordiente fosse un genere letterario a sé. Ora negli esordi c'è molta forza e ambizione, ma la forza e l'ambizione non possono nulla senza il superamento dei modelli precedenti. Per me Tondelli ha rappresentato un modello superabile, non il contrario. Ho un atteggiamento molto laico e performativo, in generale, nei confronti della tradizione editoriale e letteraria. Però l'ago della mia bussola punta sempre in una sola direzione, molto tondelliana: la forma più intelligente di egoismo è l'altruismo, il lavoro per gli altri e insieme agli altri. Quando ho avuto l'idea di questo nuovo genere letterario ho scartato l'ipotesi di seguirla per conto mio, da scrittore con la sua carriera, visto che nasceva dall'ascolto e dal confronto con le scritture degli esordienti nel campo del lavoro editoriale, ma ho deciso – anche se per certi versi mi è costato il doppio della fatica – di condividerla coi più giovani. Vorrei che si giudicasse il mio lavoro anche su questo, dal momento che lo considero un fattore decisivo: pensare i libri come eventi implica che non ci si possa ragionare in solitudine o rivolti solo all'ascolto di sé stessi.

 

(Intervista concessa per e-mail il 26 marzo 2018)

 

[1] S. Uccello, L’editoria si reinventa: un camper, il crowdfunding e libri come serie TV, in “Il sole 24 ore”, 10 febbraio 2018.