Venerdì, 24 Febbraio 2017 10:03

Parola come terapia. Recensione a Giovanni Bernardini, "Nel Buio la parola. Poesie 2015-2016", Esperidi, 2016

Scritto da Carolina Tundo

Autore poliedrico, Giovanni Bernardini, classe 1923, ha dimostrato, nel corso della sua lunghissima attività letteraria, notevoli capacità artistiche e critiche, come attesta la sua vasta e diversificata produzione: è stato poeta e narratore, saggista e giornalista. Ha attraversato diverse epoche storiche, sperimentandone i mutamenti politici, culturali e sociali, e accumulando un consistente bagaglio di esperienze. Negli anni Quaranta si è formato, sotto la guida di Giuseppe De Robertis, a Firenze, città in cui intraprese gli studi universitari per poi abbandonarli a causa dello scoppio del secondo conflitto mondiale; ha sperimentato personalmente la tragica esperienza della deportazione in Germania: solo al termine della guerra, infatti, poté riprendere gli studi, laureandosi a Bari, con Mario Sansone, dopo essersi trasferito a Monteroni di Lecce, dove tuttora risiede. Fondamentali furono gli incontri con i maggiori esponenti della cultura letteraria e artistica salentina, con i quali collaborò e strinse solidi legami: conobbe Vittorio Bodini e Girolamo Comi, Lino Suppressa e Antonio L. Verri, Claudia Ruggeri e Nicola De Donno, e fu molto amico di Vittorio Pagano.

Pubblicato nel dicembre 2016 presso la casa editrice Esperidi, Nel buio la parola (Poesie 2015-2016) è il lavoro più recente di Bernardini: una raccolta di poesie che si riallaccia senza soluzione di continuità alla riflessione esistenziale intrapresa nel precedente volumetto in prosa Il Vecchio e l’Ombra (Dialoghetti) (Esperidi, 2016). Costruito sulla contrapposizione di due termini semanticamente pieni, «buio» e «parola», il titolo anticipa l’argomento principale della raccolta: per una sottintesa analogia, la parola è luce e ha la capacità di rischiarare il buio delle «cosiddette “questioni ultime”, la morte, la vecchiaia, la solitudine, il senso della vita» (p. 7), ed è per questo che Antonio L. Giannone, nella sua introduzione, parla opportunamente di «terapia della parola nella ricerca poetica» (p. 7), terapia in cui ricopre un ruolo di primaria importanza anche il confronto sistematico con la parola altrui («Volevi scrivere […] / Non sei riuscito / Immobili la mano e la penna / finché non hai trovato / chi ha scritto per te», p. 67), come testimoniano i frequenti richiami, attraverso riprese, calchi e citazioni, ad autori antichi e contemporanei, italiani e stranieri, e agli scrittori salentini, conterranei dell’autore e ormai «Quasi tutti scomparsi / come nel naufragio d’enorme veliero» (p. 78): Eraclito, Ovidio, Boezio; Foscolo, Leopardi, Pascoli, Gozzano; Primo Levi, Pavese, Hemingway; De Donno, Bodini, Pagano, Ruggeri sono solo alcuni degli autori che compaiono nel libro – chi più esplicitamente, chi meno – in una fitta trama di rimandi alle loro opere, alcuni inequivocabilmente riconoscibili (perché segnalati dall’autore mediante l’uso del corsivo); altri, sebbene non evidenziati, facilmente rintracciabili; altri ancora, volutamente celati.

Per Bernardini, il buio coincide con il«niente»: è «llugnenzi» (p. 37) del poeta dialettale salentino De Donno; ed è, soprattutto, il ‘niente’ biblico del duro monito dell’Ecclesiaste («vanitas vanitatum, et omnia vanitas»), per cui tutte le cose terrene sono vane: «Tu vieni dalla polvere / in polvere tornerai» (p. 37). Il libro rappresenta una sorta di diario della vecchiaia, vissuta come drammatica, paralizzante attesa della fine (emblematici, a tal proposito, i componimenti Crepuscolo, p. 28 e Attesa, p. 33). Solo la parola consente di evocare i ricordi, e dunque di salvare anche soltanto per un momento – cioè per il tempo che durala sua pronuncia – la grazia dei momenti felici. Da qui la forza e la centralità della memoria, che Bernardini cerca di preservare dalle tenebre che minacciano di inghiottire ogni cosa. Nella poesia dedicata alla moglie, per esempio, la memoria diventa fiaccola nella tenebra che avvolge tutte le cose («Cammino con te / nella tenebra notturna […] / Cammino con te / nel buio / per ritrovarti» p. 46): il ricordo del passato è un prezioso tesoro che si deve conservare gelosamente perché rinvigorisce e permette di opporsi a un presente percepito come estraneo e a un futuro ormai sfuggente. Nel componimento Via Imbriani 42 – appartenente all’omonima sezione, l’ultima del libro – il poeta torna con la mente al «palazzo a sei piani a Lecce» (p. 77), in cui aveva abitato nella sua «verde maturità» (p. 77): alla felice atmosfera del tempo passato si oppone l’aridità del presente («dal cortile solo rombo d’auto / […] / Non un ridere di bambini» p. 79), che si può fronteggiare grazie al baluginio inquieto dei ricordi, familiari e letterari (ritornare con la memoria in quella vecchia casa significa anche rincontrare l’amico Vittorio Pagano). Mediante il ricorso all’ironia, poi, si può anche esorcizzare la morte; scrive infatti autoironicamente Bernardini nella poesia significativamente intitolata Il coccodrillo: «Sono / irrimediabilmente / morto / Non lo sapete? // Lo saprete domattina / leggendo il coccodrillo / sul quotidiano locale» (p. 68).

Evidenti sono le suggestioni ungarettiane, già peraltro segnalate, in altre occasioni, da Donato Valli ed evidenziate anche da Giannone, il quale, per la caratteristica ricerca di una parola essenziale, unita ad altri accorgimenti stilistici ricorrenti (come, per esempio, l’assenza di punteggiatura; la scelta di un metro breve e dell’informalità prosodica; la ricerca di immagini nette, limpide, di alto valore icastico), accosta la poesia di Bernardini «a certa avanguardia poetica primo-novecentesca, più ungarettiana, ovviamente, che futurista» (p. 16), e parla di uno stile caratterizzato da un «‘moderato sperimentalismo’» (p. 16), discorsivo e al tempo stesso inquieto.

Per Bernardini la parola rappresenta sempre, sebbene illusoriamente o provvisoriamente, una possibilità di salvezza: è «una sfida / Un modo d’affrontare / il male di vivere / Un filtro» (p. 67) e aiuta a celare anche «il tormento» (p. 67) più dilaniante. Solo grazie alla scrittura, fedele compagna di una vita intera, è ancora possibile rievocare lucidamente il passato e, allo stesso tempo, alleggerire il peso ingombrante del presente attraverso l’ironia: è ancora possibile coltivare la speranza, far filtrare nella tenebra un raggio di luce, far penetrare, nel buio, la parola.