Lunedì, 23 Gennaio 2017 14:48

«Aveva scritto, o qualcosa di simile»: "La paranza dei bambini" di Saviano e il rapporto fra reale e letteratura

Scritto da Simone Giorgio

Il nero dissolve svelando un paesaggio di cave e natura ma, sullo sfondo, si ergono i palazzoni minacciosi di una metropoli in crescita. La macchina da presa ruota lentamente e incrocia due mani: un uomo si sbraccia sostenendo la necessità di modificare il piano regolatore per far arrivare fin là il cemento dei palazzinari. La macchina continua a girare; l’uomo non parla da solo: su un terriccio reso ancor più luminoso dal bianco e nero, altri uomini lo stanno ascoltando.

Due barche si muovono, senza troppi colori, se non quello della luce con la quale attireranno i pesci sul fondale. Si allontanano dal porto, si inoltrano nel mare. Saviano dice che il nome paranza viene da là: le lettere di questa parola sono sospinte dalle onde sulla pagina.

L’inizio del film di Francesco Rosi, Le mani sulla città, e quello del nuovo romanzo di Saviano, La paranza dei bambini, non potrebbero sembrare più distanti. E invece, forse tenendo bene a mente il modello del grande regista civile, Saviano fa cominciare il suo libro in un estremo della città, il mare, così come Rosi aveva preso a narrare le vicende della sua pellicola dal punto opposto in cui la città comincia a diradarsi, cioè dalla periferia. A unirli, la mano minacciosa dell’uomo, che pesca i pesci e sfida la natura, che vuole assoggettare la città a sé.

Quando si scrive di Saviano, occorre fare una serie di operazioni che potrebbero essere ricondotte a un insieme di separazioni. La prima separazione fondamentale da mettere in atto è quella tra il Saviano-personaggio (la popstar che campeggia sui giornali, che va in televisione, che esprime la sua opinione grossomodo su tutto) e il Saviano-scrittore (l’uomo che si accinge a mettere le parole in fila e tessere un discorso con il quale vuole comunicare qualcosa).  Il rischio che il primo si sovrapponga al secondo e ne infici il giudizio sulle opere è elevatissimo. Ma è il prezzo che Saviano paga per essere indubbiamente lo scrittore italiano vivente più noto nel mondo.

Una volta che ci si è ripuliti di qualsiasi pregiudizio si possa nutrire nei confronti del Saviano della superfetazione ormai trans-mediale e delle ospitate da Fazio o da Amici, si deve fare i conti con la scrittura, la scrittura vera. La paranza dei bambini è un libro semplice: la narrazione procede lineare, concedendosi poche digressioni; i personaggi, con nomi e relativi soprannomi, diventano presto riconoscibili; la prosa in cui è raccontato tutto ciò non presenta alcuna vetta artistica particolarmente impervia. È la storia di un gruppo di ragazzini, capeggiati da Nicolas Fiorillo detto ‘o Maraja, che desiderano primeggiare nella camorra falcidiata da sanguinose guerre interne. Guidati dal piccolo leader, riusciranno a farsi strada nella malavita napoletana, attraverso una sorta di cursus honorum della mafia, che li vede cominciare dallo spaccio, proseguire con le rapine, ottenere le armi e iniziare a chiedere il pizzo e a gestire il traffico della droga del loro quartiere e di quelli vicini. Diventati giovani uomini, sono ormai pronti a divenire definitivamente protagonisti del «Sistema».

Inserendosi in un filone particolarmente florido della nostra recente letteratura, Saviano dà alle stampe un romanzo di formazione al contrario, il cui pregio principale, ovvero la plausibilità della vicenda, deriva dalla grande capacità che ha Saviano di riprodurre in modo esatto nelle proprie pagine la cultura di riferimento dei suoi personaggi. Quando i suoi ragazzini ascoltano l’hip hop nordamericano, per citare solo un caso, Saviano ci vuole dire che le periferie napoletane sono affratellate ai ghetti afroamericani dallo stesso grado di esclusione sociale, dalla stessa incapacità di “vedere” un possibile futuro al di fuori dal percorso mafioso. Alcuni accorgimenti narrativi che servono a tenere in piedi il sistema culturale dei protagonisti, sono però meno convincenti: pallidi, per fare un esempio, i riferimenti al talento di Nicolas nella scrittura, di cui dà rare prove a scuola; più in generale, quando è Saviano a prendere in mano il racconto, la prosa si spegne e il ritmo rallenta colpevolmente. La sensazione che si ha leggendo il romanzo è che le scene migliori siano quelle che ci vengono portate sotto i nostri occhi direttamente dai personaggi, ossia i dialoghi. Questi ultimi sono infatti scritti in una lingua curatissima che, se all’inizio del romanzo si presenta ancora come un complesso impasto di termini dialettali e italiano, alla fine del romanzo è quasi esclusivamente napoletana, con rare concessioni all’italiano e ad altri registri linguistici. Lodevole è anche il ritmo degli scambi di battute dei personaggi, a volte così riusciti da far pensare che l’esperienza della serialità televisiva abbia giovato a questo aspetto della scrittura di Saviano, penalizzando però il resto: il montaggio narrativo di molte scene, su tutte quella finale in cui avviene l’omicidio del fratello di Nicolas, si rifà agli stilemi e alle tecniche tipiche del noir italiano degli ultimi vent’anni, tradendo in ciò un forse scarso lavoro sullo stile.

La ricreazione dei luoghi fisici e culturali in cui la vicenda fiorisce è, per questi motivi, plausibile solo in quanto riconosciamo come propri i personaggi che Saviano vi fa agire. Le descrizioni in sé della periferia napoletana, per quanto accorate, risultano molto di maniera; ma quando Saviano vi colloca i suoi ragazzini a fare inseguimenti col motorino o a sparare sulle antenne per esercitarsi a usare le armi da fuoco capiamo che la storia che abbiamo sotto gli occhi è possibile. Per chi è del sud e ha una certa dimestichezza con il mondo delle periferie e della parte più degradata della società, non è difficile riconoscere i segni del verosimile nelle vicende qui narrate. Saviano fa aderire il punto di vista della narrazione a quello di Nicolas, il protagonista: non è l’unico personaggio di cui conosciamo i pensieri e l’opinione, ma è quello di cui ne scopriamo la maggior parte. Il ruolo di leader a cui assurge presto nel romanzo consente a Saviano di posizionare la narrazione sui binari delle scelte di Nicolas, e ad ogni passo che il ragazzino compie sul cammino di formazione criminale, la narrazione si appesantisce e si incupisce. Esemplare, in questo senso, l’episodio che conclude la seconda delle tre parti in cui si suddivide il romanzo. Uno dei sodali di Nicolas, Drone, ha sventato il possibile arresto della banda sparando su una volante che si avvicinava ai ragazzi. La pistola con cui ha esploso i colpi, tuttavia, non doveva essere in suo possesso: Drone l’aveva prelevata dall’arsenale del gruppo senza informare i suoi compagni. Come punizione per questo gesto, incurante dei risvolti “positivi” che ha avuto, Nicolas costringe Drone a scegliere fra la sua vita e l’infamia di sottoporre sua sorella a rapporti orali con ogni membro della paranza. Saviano descrive con una buona ricchezza psicologica i giorni in cui Drone è obbligato a dover prendere una decisione; tratteggia in modo sottile ma convincente il subdolo insinuarsi del virus della camorra in una famiglia medio-borghese napoletana; infine, quando Drone rivela il tutto alla sorella e a quest’ultima è rimessa la scelta fra la sua dignità sessuale e la vita del fratello, la cappa di ineluttabilità ha ormai avvolto le pagine in modo efficacemente soffocante, tanto che il lettore è portato ad accogliere con un vero sospiro di sollievo il finale in cui si scioglie la vicenda: Nicolas non è davvero interessato al sesso orale con la ragazza; il suo obiettivo era umiliare Drone e, implicitamente, portarlo a riporre la paranza al di sopra di ogni cosa, anche della famiglia naturale. Qui sta il senso di tutto il libro, della denuncia sociale che Saviano vuole sporgere: i ragazzini di questa nuova camorra non si lasciano intimorire da nulla; stringono fra loro legami che non hanno a che fare col sangue; per questo, sono pronti a cambiare vicendevolmente alleanze e inimicizie in funzione dell’ascesa nel mondo criminale. Chiaramente, questa mutazione dei valori già perversi della mafia porta a spargimenti di sangue ancora più atroci. Paradossalmente, il fratello di Nicolas viene ucciso proprio per vendicare la morte di un ragazzo che gravitava attorno alla paranza e aveva intrecciato una relazione amorosa con la madre di uno dei piccoli criminali, anche se non affiliato alla banda di Nicolas. Qui sembra quasi che l’ombra della vecchia camorra, con il suo mosmaiorum così incentrato sul concetto di famiglia, lambisca ancora la neo-mafia di Nicolas e i suoi. L’immagine finale di stampo biblico, la metafora della paranza che attraversa il campo di battaglia criminale come gli ebrei il Mar Rosso verso la Terra Promessa, sembra funzionare da un lato come completo rovesciamento dei valori religiosi ed etici (più volte, nel corso del romanzo, i piccoli fuorilegge si erano affidati alla protezione della Madonna); dall’altro a segnalare la volontà dei ragazzini di conquistare la supremazia nel «Sistema», a qualsiasi costo.

Resterebbe da far luce sull’efficacia dell’operazione civile intrapresa da Saviano in questo libro. Le recenti polemiche fra il sindaco di Napoli De Magistris e lo scrittore dimostrano che la vicenda umana e intellettuale di Saviano è ancora centrale nel panorama campano e nazionale. Non è un mistero che l’autore di Gomorra, rifacendosi sin dall’esordio alla grande tradizione della letteratura e del cinema civile, come si diceva all’inizio di questo intervento, voglia tentare attraverso la scrittura e la (onni)presenza sui media di debellare la mafia, o meglio di denunciarla per invitare i suoi stessi concittadini a combatterla. Qui, l’operazione di separazione con cui è cominciato questo articolo perde gran parte della sua efficacia; il confine tra lo scrittore impegnato e il personaggio quasi-politico (intellettuale esperto di criminalità o intellettuale-intrattenitore) si fa più fumoso. Il lavoro sullo stile della Paranza, non troppo curato, potrebbe essere inteso sia come scarsezza di talento che come volontà di non distanziarsi troppo dal grande pubblico, fidelizzato dalla mole di produzioni anche extraletterarie cui Saviano si è dedicato nell’ultimo decennio. Quanto valore e quanta importanza possa avere la letteratura in un progetto civile e culturale così ambizioso è difficile dirlo. Le minacce di morte di cui Saviano è vittima, e della cui veridicità non c’è ragione di dubitare, possono essere senz’altro interpretate come un segnale o un sintomo di vitalità della letteratura, ancora capace di un fine didascalico e civile, di ferire, sollevare polemiche, in un sistema culturale, è bene ricordarlo, che è e resta iper-mediatizzato (la cosiddetta post-realtà). Forse alla letteratura in sé non va chiesto di inseguire così disperatamente il reale. L’ansia di riprodurre il mondo è uno degli attributi del romanzo, ma non l’unico; l’importanza che gli dà Saviano può essere ammirevole o sconfortante. D’altronde, questo suo primo testo di finzione può essere un modo per riaccostarsi alla letteratura, farvi pace. Le sue prossime iniziative aiuteranno a chiarire questo aspetto così aggrovigliato della sua proposta culturale, iniziata ormai più di dieci anni fa.