Con Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda (Carocci, 2020, pp. 118), Riccardo Donati riesce nel compito non semplice di restituire, con grande minuzia e avvertita acribia, il mondo letterario e speculativo della poetessa romana. Lo fa tracciando, alla stregua di una mappa ideale, le parole-sentiero di un’opera in corso che si definisce, del resto, proprio a partire dalla transitività dei suoi interrogativi, dal rapporto critico e attivo con la contingenza storica, dal tentativo di esprimere un punto di vista sulle cose mai pago di se stesso, senza tuttavia rinunciare alla ricostruzione di un significato che possa dirsi utopisticamente condiviso. Si apprezzano del lavoro di Donati l’arguzia e la cura con cui si offre al lettore un itinerario poetico ricco di sollecitazioni e aperture diverse, eppure caratterizzato da un’organicità di nessi e di problemi che disegna una coerenza non scontata per i tempi odierni.
Seguendo il percorso che va dagli esordi sino all’ultimo (e bellissimo) Historiae (2018), Donati può verificare l’ipotesi di fondo che anima la sua ricostruzione: «tutta l’opera di Anedda è segnata dallo strenuo tentativo di sottrarsi quanto più possibile al narcisismo di chi dice “io”, al cerchio asfittico di un ego autocentrato» (p. 14). Ne consegue che questo disciplinamento espressivo – non una reductio, ma una verifica permanente delle proprie responsabilità – permetta alla poetessa di articolare la sua «voce da una posizione obliqua, laterale, sghemba, in risposta a un sentimento – il pudore – dettato non da reticenza ma da coscienziosità» (p. 16). Sul piano della proposta stilistica e del conflitto con le scelte d’altri poeti – siano essi modelli esibiti, interlocutori indispensabili, siano essi esempi lontani e non condivisi –, la poesia di Anedda vive della ricerca di un ordine in grado di tenere assieme una severa interrogazione filosofica e una vigilata tensione lirica e per questo non rinuncia al rapporto con le forme della tradizione, nella versione di un dialogo costante con le proposte del passato (la cui eco è segno della persistenza di caratteri moderni, di una visione della storia come processo), concepito quale strumento per la comprensione del presente. Come scrive Donati, Anedda è «refrattaria al richiamo di una prosa, di una poesia oscure e pretenziosamente ineffabili […] come al sapore dolciastro del disincanto e a quel cinismo di grana grossa, magari un po’ ghignante, che per gli autori del postmoderno ha rappresentato un rifugio, una consolazione, un alibi. Parimenti, si sottrae alla vertiginosa tentazione di cantare il niente, l’impero del nulla» (ibidem). E dunque sceglie di confrontarsi con la quotidianità, con l’esperienza viva del contingente, non senza proiettare il suo sguardo laterale sui dettagli, sui frammenti, sulle dispersioni lungo uno sfondo più ampio, che ha come assillo – lo riconosce il critico nelle pagine centrali del testo – il problema fondativo della violenza della storia.
Da qui l’idea di vedere nella produzione di Anedda il tentativo di restituire presenza al sommerso e di tramandare la persistenza trans-storica (e non astorica, si badi) degli scarti e delle rovine, di tutto ciò che rischia di scomparire nell’oblio, e di opporre a quest’ultimo, pertanto, una strategia di inclusione, come se la poesia fosse anzitutto una ricomposizione possibile (in questo, forse, utopica) di una qualche unità esplosa (che non necessariamente va pensata come originaria compattezza): il gesto etico, pensato a partire da un soggetto che è esso stesso vittima della disintegrazione ma che, al contempo, non può rinunciare alla sua pur incerta presenza materiale, si configura come insistente e resistente pratica di collegamento fra le cose, restituzione possibile di nessi, sopravvivenza di una ragione a cui non si può rinunciare. Scrive Donati che «[…] alla letteratura è affidato il compito di favorire, attraverso lo spazio inclusivo della pagina scritta, la formazione d’una comunità transtemporale; agli scrittori è richiesto di impegnarsi in un lavoro di servizio a vocazione oblativa: mettere la sordina all’“io” per farsi camera d’echi, risonante delle voci d’ogni latitudine ed epoca» (p. 70). Non solo un principio bachtiniano di compresenza, ma, nel caso di Anedda, una cifra umana ed etica preziosa proprio perché non solo letteraria.