Non è facile seguire i tortuosi sentieri, le passeggiate o le cavalcate nei “boschi narrativi” lungo i quali ci porta Giordano Meacci nel suo splendido romanzo Il cinghiale che uccise Liberty Valance (2016): non tanto perché i luoghi in cui si muovono le bestie citate nel titolo sfuggono all’immaginazione del lettore (e anche in quel caso, una cartina appositamente inserita nel volume verrà in soccorso), quanto perché la lingua in cui il libro è scritto è di una creatività vertiginosa e demiurgica. Ogni passo del libro pare scritto in un impasto che, ad un primo colpo d’occhio, potrebbe far tornare alla mente i pasticci gaddiani: sicuramente, a questa impressione, contribuisce la sintassi spesso intricata, il citazionismo spinto (e perseguito ad ogni livello: da quello del cinema western alla formazione classica di uno dei personaggi, Walter); l’uso ricorrente dei localismi e dei termini dialettali (che aiuta, tra l’altro, a rendere più vivi e sinceri i dialoghi: espediente che Meacci ha usato sapientemente anche nella sceneggiatura di Non essere cattivo di Claudio Caligari, lì avendo a che fare col romanesco – si deve ricordare a questo proposito la militanza di Meacci nell’Accademia degli Scrausi guidata da Luca Serianni). Al tempo stesso, la sensazione che si ha addentrandosi nelle pagine del Cinghiale è quella di trovarsi al cospetto di una minacciosissima, densa e inestricabile nube di parole e di lingue: anche la scelta di non focalizzare il racconto su un singolo protagonista (forse si potrebbe assegnare il ruolo al cinghiale Apperbohr, e pure suona strano, e pure occupa comunque meno della metà del libro) concorre a lasciare, in chi porta a termine la lettura del romanzo, l’idea di aver appena assistito a una parata di personaggi che avevano tutti poco da dire, ma hanno tenuto a dirlo.
Il fatto che abbia usato la parola “parata”, tuttavia, non deve trarre in inganno: se di parata si tratta, è una parata statica, quasi stanziale: Meacci dispone i suoi personaggi nello scenario tra Umbria e Toscana come statuine in un presepio, tutti del tutto inutili se presi singolarmente, ma efficacemente funzionali se accettati in blocco. Il vero protagonista del romanzo, dunque, verrebbe a identificarsi nella comunità di Corsignano stessa, e qui Meacci abbandonerebbe i territori di Gadda per avventurarsi nei rapidi affreschi tombali di Edgar Lee Masters, o come è stato notato nelle recensioni al romanzo, nelle volute del romanzo fantastico sudamericano (tra Marquez e il Pedro Páramo di Juan Rulfo, Ernesto Sabato). D’altro canto, mentre la prosa gaddiana è tutta attraversata da una certa forza vitale, dalla necessità di dare forma sulla pagina all’intreccio del mondo (“singula enumerare” e “omnia circumspicere”), nella pagina di Meacci la vita scorre molto più lentamente, come se non fosse vera vita, come se i corsignanesi fossero già morti. Ma anche qui è possibile rintracciare l’idea della realtà come reticolo inconoscibile, sempre sfuggente per definizione, e a questo parrebbero servire i numerosi riferimenti al cosmo e alle vicende storiche che si svolgono in parallelo (nelle stesse date) agli insignificanti fatti di Corsignano.
Meacci sembra voler insinuare che, sebbene il reticolo sia imperscrutabile nella sua interezza, al di qua e al di là di questa realtà (“Essendo del resto la fine della consapevolezza di sé la vera spina nel fianco di qualsiasi speranza metafisica”), possiamo soffermarci su un nodo particolare dell’intreccio che è la nostra vita, passata presente e futura, e da qui mettere insieme un po’ di speranze, qualche illusione (o almeno una qualche nostalgia di futuro). Il nodo che sceglie l’autore è Corsignano. Ma per osservarlo meglio, Meacci preferisce adottare un punto di vista “altro”, alieno persino alla visione antropocentrica: di qui, la possibilità di ritrarre dei cinghiali; di qui, la possibilità che uno di questi cinghiali sviluppi e inizi a comprendere il linguaggio umano (nella sete infinita di conoscenza che lo scrittore attribuisce dunque ad ogni essere vivente).
Nel Cinghiale, insomma – in questo favoloso “ordigno” espressivo che tiene insieme una spiccata dimensione etica e gnoseologica con una sperimentazione visionaria e a tratti manieristica del linguaggio – è particolarmente rilevante la posizione del narratore inteso come demiurgo, vera intelligenza creatrice che si spinge sino alla possibilità di scrivere un libro in una lingua che descriva la nascita della lingua stessa, e il fiorire della sua consapevolezza, e la perdita dell’innocenza, e quel misto di gioia e disperazione che ne consegue.