Martedì, 13 Dicembre 2016 21:58

Cento poesie d’amore a Ladyhawke: Michele Mari poeta

Scritto da Simone Giorgio

Pubblicata nel 2007, Cento poesie d’amore a Ladyhawke è la prima (e finora unica) raccolta poetica di Michele Mari (1955), narratore tra i più stimati del panorama italiano contemporaneo. Il libello, edito da Einaudi tra i suoi bianchi, ha riscosso un successo crescente nel corso degli anni, soprattutto in rete, dove ha cominciato a circolare tra i più giovani grazie anche alla natura stessa dell’opera, costituita da cento poesie più o meno brevi che si prestano bene al passaparola e alla mania citazionista che è tanto diffusa sui social network. Eppure, questo tipo di successo pop non rende giustizia alla raccolta, che presa nella sua interezza tradisce l’animo da narratore di Mari: la raccolta è infatti un canzoniere sul tema amoroso, o meglio, su una particolare storia d’amore che si evince essere sbocciata ai tempi del liceo e proseguita clandestinamente nel corso degli anni, sebbene il sentimento verso l’amata non fosse propriamente corrisposto.

In una sua intervista su Minima et Moralia, Mari ha dichiarato che le poesie in questione sono state scritte in giovane età. Questo giustifica i netti cali di tensione poetici disseminati lungo tutto il canzoniere: scrivere cento poesie sullo stesso tema è una maratona difficile e per un poeta alle prime armi come doveva essere il giovane Mari la sfida rischiava di sconfinare nel territorio dell’impossibile.

Ad ogni modo, l’indicazione temporale del componimento di una parte delle poesie è significativa nel collocare con giustezza quest’opera all’interno della carriera di Mari: parecchi dei temi e delle cifre decisive nello stile dello scrittore sono infatti già presenti anche nelle poesie. Innanzitutto, in perfetto accordo con la tendenza poetica del ‘900, Mari ha operato un deciso abbassamento del tono lirico, che si avvicina di molto alla prosa. In questa intelaiatura, ha poi inserito alcuni punti (soprattutto in concomitanza con le basilari figure retoriche dell’iperbole e della metafora) in cui il linguaggio sembra impennarsi improvvisamente, al fine di stupire e provocare meraviglia nel lettore. La sensazione è che le poesie siano, più che dirette all’amata, indirizzate a un pubblico ideale col fine di dilettare e commuovere, quasi a condividere ed esorcizzare il demone della tristezza indotta dall’amore non corrisposto. Così, tutto il libro è innervato dall’ironia sottile e pungente e dal sarcasmo colto che hanno fatto la fortuna del Mari in prosa, assieme anche all’uso quasi parodistico dell’italiano settecentesco e ottocentesco. Nelle poesie di Mari vengono dunque a convivere i film western e la poesia italiana classica, con citazioni dirette e malcelate di Petrarca e Pavese; al tempo stesso, non viene meno la dimensione narrativa dell’opera, saldamente realizzata nella forma del canzoniere.

Le cento poesie non paiono seguire un ordine particolare: i primi componimenti presentano la vicenda («Un uomo/che non suscitò in chi amava l’amore», scrive nella poesia d’apertura) e sono caratterizzati da un’atmosfera infantile e tenebrosa al tempo stesso. In queste prime poesie, trovano spazio i «mostri» e i «fantasmi», sebbene due di queste liriche contino già sull’anticlimax (l’enumerazione alla rovescia dei giorni necessari all’innamoramento di Centoundici e le iperboli in Dal mio banco al tuo). Sono presenti anche rimandi al mondo scolastico: è chiamato in causa in modo diretto il liceo milanese dove i due amanti si sono conosciuti, ovvero il «Berchet»; la classe, la III A; la disposizione dei banchi, prefigurazione nello spazio ristretto dell’aula scolastica della futura lontananza dell’oggetto amoroso del poeta. La sezione “infantile” del canzoniere termina con uno dei componimenti più celebri, Tu non ricordi, in cui il rimpianto per un’epoca perduta e felice si unisce a una spiritualità raccolta: il poeta prega, ma s’accontenta di richiedere che il dondolio che lo congiungeva all’amata «non finisse mai».

Dopo questa parte introduttiva, l’atmosfera delle poesie si fa più adulta. Aumentano i riferimenti alla costituzione di famiglie, al lavoro, alla vita da adulti che i due sembrano aver intrapreso separatamente. Il balzo temporale sembra essere sancito in Se fin dall’inizio mi avessero informato: «Se fin dall’inizio mi avessero informato/che dopo più di trent’anni/senza aver niente in cambio/ancora ti avrei amata…». Il rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato diventa più lancinante: «Potessi anch’io ridisegnar così/la vita mia e la tua…» (Nella pista deserta). Tale rimpianto non riguarda (o non riguarda solamente) la soddisfazione del desiderio amoroso, ma anche la costruzione di un’ordinaria quotidianità con l’amata: «Non ti ho mai visto i piedi/non ti ho mai visto in camicia da notte/non ti ho mai visto lavarti i denti…». L’amore del poeta assume così una forma totalizzante, che occupa costantemente la sua attività mentale («Così hai dominato i miei pensieri…», scrive in Ti sei sempre riassunta per me), ne influenza la vita sentimentale («Come un serial killer/faccio pagare alle altre donne/la colpa/di non essere te», Come un serial killer). Ciononostante, il poeta ricorda all’amata che la loro relazione è sempre stata segreta: «Ti ho amata sempre nel silenzio…», o ancora, recuperando il tema del liceo, insiste sulla complicità nel celare il sentimento: «Nessuno dei nostri compagni/ha mai sospettato niente…». Sebbene il tema della fatalità di quest’amore ritorni in più poesie («Così la tua immagine/è l’ultima che vede di notte il guidatore/prima del frontale», Ti sei sempre riassunta per me; «l’esosa arte di celare/perfino il proprio suicidio», Nessuno dei nostri compagni), pare che Mari voglia comunque tentare di abbassare il tono, cercando ora di enfatizzare le piccolezze, i dettagli a cui più tiene, ora di sdrammatizzare i momenti più cupi di quest’angosciosa relazione. Il dubbio sulla natura stessa del suo sentimento e sulla sua validità è il tema di Come una vestale: «non so se la mia vita/sarà rubricata come cosa patetica/o come cosa eroica». Al tempo stesso, Mari continua a non saper spiegare l’origine del proprio amore: «dobbiamo tenerci stretti al mistero/e non fiatare» (Mi chiedi perché proprio tu).

La tensione di questa situazione è spesso rappresentata dalla ricorrente immagine della partita a poker, ma per alludere alle dinamiche scatenanti del proprio amore Mari preferisce pescare nell’immaginario dell’infanzia e delle fiabe: il componimento centrale, che spiega il titolo, riprende la storia di Ladyhawke e Knightwolf, amanti che non potevano incontrarsi a causa di un sortilegio. In altre poesie, cita la favola dei tre porcellini, o leggende medievali come quella di re Artù. Ovviamente, una larga parte delle poesie ha invece come sfondo quello letterario: dalle citazioni di Boccaccio (la novella di Federigo degli Alberighi contiene, per l’autore, il destino della sua amata, che nel gioco di corrispondenze del canzoniere coincide, come si intuisce, col falco; l’amore mortale viene raffigurato poi anche con la citazione di Simona e Pasquino) all’esposizione dei gusti dell’amata (che cambia le sue letture da Ferlinghetti allo stesso Mari), fino a citazioni più irrisorie e dirette come quella del cuore rivelatore di Edgar Allan Poe.

A due terzi circa del canzoniere, lo stile e il tono delle poesie diventa improvvisamente più cupo. Nella narrazione della vicenda amorosa, questo salto coincide con la decisione, da parte dell’amata, di interrompere qualsiasi comunicazione col poeta. I componimenti si fanno più brevi e lapidari, caricando di significati i versi: «Il tuo silenzio/dici/è pieno di me//Così so/come si sentono i morti/pensati dai vivi» (Il tuo silenzio). Anche se continuano a pullulare le citazioni della cultura pop (il motel di Norman Bates di Psycho, Per qualche dollaro in più, la nouvelle vague), tornano le immagini spettrali e di morte; quest’ultima parte è dunque contrassegnata da un’alternanza tra momenti più cupi e momenti decisamente più leggeri, e ci conduce fino alla lunga elencazione floreale che chiude la raccolta nella constatazione rassegnata che l’amore di Mari è il suo «fiore che non sfioro».

Il carattere dirompente e scanzonato di molte delle poesie qui contenute ha diviso i lettori, che si sono schierati in uno sterile pro o contro Mari sui forum e sul web, dove (come si diceva all’inizio dell’articolo) la raccolta ha riscosso largo successo. Probabilmente l’autore non la ritiene niente di più che un divertissement, il che giustificherebbe la natura quasi irrisoria di certi momenti di questo canzoniere. Inoltre, la scarsa dimestichezza di Mari col mezzo poetico, dovuta all’indole di narratore del professore milanese, spiegherebbe anche i paurosi cali di tensione poetica che abbassano la qualità complessiva dell’opera: nonostante si sia cercato di dipanare qui i fili tematici della raccolta, è evidente, nel momento in cui la si legge, che Mari ha cercato di perseguire sistematicamente una variatio col fine di non annoiare eccessivamente il lettore (non potendo uscire dal seminato della tematica amorosa); tuttavia, il tentativo di mescolare momenti alti e momenti bassi, citazioni pop e classiche, oggetti e personaggi umili (come gli animali, e i cani, e il domestico) a situazioni e fantastiche e iperboliche (le citazioni fiabesche, gli scenari cosmici) ci sembra solo parzialmente riuscito. Se c’è un merito indiscutibile che va riconosciuto a Mari è quello di aver fatto avvicinare anche un pubblico particolarmente giovane alla poesia contemporanea, seppure nelle forme intramontabili (e quindi stereotipate) del lirismo sentimentale. Se questo avvicinamento darà i suoi frutti, se gli adolescenti che condividono sui loro blog le poesie di Mari si metteranno anche a leggere altri poeti, non possiamo dirlo: possiamo solo sperarlo.

 

Tre poesie di Michele Mari

 

Ogni volta che ci incontriamo
studio l’incanto per portarti via
ma ogni volta
ti giri su te stessa
e fai ritorno al tuo confortevole averno
Euridice che per ripetere i tuoi passi
non hai bisogno
della dabbenaggine di Orfeo

***

Ci siamo fidanzati virtualmente
e dunque il rituale
simbolo non era ma sostanza

Qualche cosa però è andata storta
ed ora
una folla di fantasmi incuriositi
starà pensosamente esaminando
i pezzi di cerimonia
che abbiamo abbandonato
dalla loro parte

***

Sei venuta a vedere per la prima volta
l’università dove insegno e dove ho studiato
il giorno stesso in cui mi hai detto addio

Non altrimenti l’assassino
fruga nel portafoglio della vittima
per saperle un nome
che ne renda più domestico
il fantasma