Venerdì, 09 Dicembre 2016 14:40

Gianluca Furnari, il canto come rivolta: recensione a "Vangelo Elementare"

Scritto da Guido De Simone

Vangelo Elementare di Gianluca Furnari è un libro che sorprende per la maturità stilistica e contenutistica dimostrata da un ragazzo così giovane (classe 1993). Anche Giuseppe Conte, nella breve lettera che funge da prefazione all’opera, ha dovuto ammettere: «lei ha scritto versi bellissimi. Vista la sua età, sono versi miracolosi».

Partendo da domande davvero elementari, Furnari esplora un universo d’albori, luci fioche e penombre. Un universo, a tratti inquietante, in cui «il buio si addens[a] in forme ostili» e le giornate scorrono «senza evento», negando al vivere ogni significazione. Furnari si muove in questo spazio «nella speranza che la luce a un tratto si decodifichi», «che nel buio ci si apr[a] un varco» e che giunga così un significato a riempire il vuoto di una vita fatta di meri significanti. La sua ricerca pare, tuttavia, votata allo scacco: il poeta s’imbatte in una «luce non serena», che illumina un’umanità dirotta, crepitante e tormentata, senza neanche il conforto delle stigmate per «riaversi vivi».

L’unica «arma»così la definisce l’autore (vd. www.lestroverso.it/vangelo-elementare) – l’unico strumento di significazione pare essere la parola «sotto cui riposi l’umanità sedata»; il «verbo», nell’accezione latina del termine. E così scrive di «verbi a smuovere rocce tumefatte, verbi a smottare il mondo, a dare un verso», verbi «che epura[no] qualsiasi particella di dolore». La capacità di «dominare la forza formidabile dei nomi» rende Furnari invincibile, ma solo per un attimo, come ben sa chiunque pratichi il «canto come rivolta».

Alla domanda iniziale, cioè quale ragione ci tenga in vita, Furnari non sembra in grado di rispondere, forse neppure gli interessa davvero; d’altronde, quale ragione dovrebbe esserci, «se non siamo venuti che a ripetere la vita?». Quello di Furnari è dunque un Vangelo molto particolare: gli autori dei Vangeli, di norma, vogliono costruire la fede nei loro lettori; per converso, con quest’opera, Furnari vorrebbe costruire la propria. Tuttavia, il giovane catanese pare non essere certo del cammino da intraprendere e il lungo colloquio con il padre «senza fede» pare essere un colloquio con se stesso. C’è in Furnari un dissidio, tutto petrarchesco, tra l’uomo che vorrebbe essere e l’uomo che realmente è. La sua è una fede che deve e vuole costruirsi attraverso la poesia, ma è una fede incerta, tutta umana e sensibile al crollo, e pertanto estremamente affascinante; la fede in «un’altra vita (o molto meno)».

 * 

Gianluca Fùrnari è nato nel 1993 a Catania e vive a Santa Maria di Licodia. Laureato in Lettere con una tesi sulle Rime d'amore di Torquato Tasso, studia Filologia Classica all'Università di Catania. La sua raccolta d'esordio, Vangelo elementare, è risultata finalista al Premio Rimini 2015 ed è stata pubblicata per i tipi di Walter Raffaelli. Suoi testi sono apparsi sull'antologia Post '900, lirici e narrativi (Ladolfi, 2015) a cura di M. Fantuzzi e I. Leardini. È membro e collaboratore attivo del Centro di Poesia Contemporanea di Catania.

 

***

 

Che cosa ci teneva tutti in vita?

Quando stando alla posta sui torrenti
mezzi vestiti o nudi
aspettavamo i suoni della notte –
di corsa da laggiù li si inseguiva
fino alle loro impervie scaturigini –
che cosa ancora ci teneva in vita?

Trascinavamo i nostri corpi chiari
temendo che fuggissero nell’alba –
qualcuno era così che era sparito –
e cedevamo quasi a ogni radura
distrutti dalla notte. Ma chi avrebbe
potuto più di noi?

Eravamo invincibili nel canto
come rivolta, noi dominavamo
la forza formidabile dei nomi.

 

***

 

La nostra ultima volta
fu quella stessa inavveduta soglia,
se non che eri dirotto, crepitante,
se non che per stornare il tuo tormento
ti rinfacciammo tutte le poesie.

Eravamo addestrati
a ogni stagione, non a quell’estate
freddata, a quella luce non serena
(tanto era irrazionale prevederla
nel pieno mezzogiorno),
non a quel volto, che oggi ci sorprende
in ogni camera della memoria.

Ma ci era chiaro, infine,
il nostro e tuo destino, il pomeriggio
che dovevamo attuare le parabole,
allinearle, provarne la tenuta.

 

***

 

L’opera della luce sugli stagni
erano segni, rime elementari:
così al nostro comando si accendevano
quando vi passavamo a torso nudo;
era il linguaggio mai perfezionato
che la notte tentava con sé stessa –
come mani quei segni ci assalivano,
esperte, a tratti quasi creaturali,
a tratti un corpo solo si tendeva
tra i nostri corpi tesi.

Poi di quel moto perdevamo il senso
nell’acqua alta – tornavamo a riva.
Ma era pioggia dirotta ormai da giorni.
Non avevamo tempo per capire.