Mercoledì, 04 Aprile 2018 12:37

Il "dialetto in toto" di Nino De Vita. Recensione a «Sulità»

Scritto da Carolina Tundo

Considerata la pluralità del significato di Solitudine, è impensabile pretendere di registrarne ogni concreta manifestazione nella realtà così come in letteratura; è possibile, tuttavia, ricavare una valida campionatura richiamandosi ai casi di autori che, nel corso della nostra storia letteraria, ne hanno offerto la propria rappresentazione. Esistono, insomma, svariate solitudini; e di queste racconta anche Nino De Vita nel suo ultimo lavoro, Sulità, pubblicato nel 2017 da Mesogea.

Il libro raccoglie ventiquattro poesie, suddivise in otto sezioni, e fa seguito all’Antologia (1984-2014) del 2015, una efficace sintesi del lungo percorso poetico dell’autore, con la quale Sulità dialoga insistentemente. Viene infatti confermata la tendenza di De Vita – diametralmente opposta a quella del suo conterraneo Vincenzo Consolo – a scrivere “prosa in poesia”, ossia a comporre racconti in versi, icastici, scevri di caratterizzazioni bozzettistiche e lontani da sperimentalismi (forzati) o innovazioni (modaiole); viene ribadita una ‘tolstojana’ fede nell’universalità del singolare, del particolare, del locale – che coincide, ancora una volta, con il micro-cosmo di Cutusio, contrada del marsalese dove l’autore vive ed è nato, nonché vera protagonista dei suoi componimenti, sin dagli esordi.

In Sulità si innesta anche un altro tratto distintivo della poetica di Nino De Vita: quella dimensione civica che lo rende il continuatore di una «“linea civile” siciliana» che va da Sciascia a Buttitta[1], e che vede agire un poeta-testimone, il quale «getta le sue radici in profondità […] scavando nella terra e nella lingua»[2] per scoprire l’essenza di un particolare luogo e delle sue parole. La ‘conversione’ al dialetto come lingua letteraria risale alla pubblicazione di Cutusìu (Mesogea, 2001; successiva a Fosse Chiti, del 1984, che, invece, comprendeva testi poetici in italiano) e nasce da una intensa esigenza di recupero memoriale e di scavo identitario. La scelta di De Vita in favore di un “dialetto in toto” e la sua volontà di riunire nella propria opera tutti i termini del dialetto marsalese non provengono da una banale smania di esercizio ‘vocabolariesco’, ma risalgono all’intenzione dello scrittore di “salvare” le parole, dando loro «fisicità»[3]. La dimensione progettuale che determina questo utilizzo del dialetto parte dall’intima convinzione che un luogo sia la sua lingua, e viceversa. Afferma Nino De Vita nel 2012, in un’intervista con Giuseppe Lupo: «[…] nel momento in cui scrivo affiora alla memoria quella parola – perché io, questo dialetto, ce l’ho tutto dentro di me – e la scrivo e la vivo particolarmente»[4]; e ancora, dialogando con Roberto Galaverni nel 2016, ricorda i tempi della stesura di Cutusìu e l’«esultanza interiore […] per la contemporanea scoperta di un luogo e della lingua deputata a dirlo». Il concetto è espresso con molta chiarezza proprio da Galaverni, il quale su «La Lettura» scrive, a proposito di De Vita: «è un poeta antico […], che […] mette in gioco una tradizione ricca e complessa, e dunque una sapienza di vita»[5]. La resa ‘fisica’ delle parole è garantita da una rappresentazione del micro-universo marsalese attenta ai dettagli, «al piccolissimo»[6], all’ordinario che diventa straordinario, in un susseguirsi di epifanie di gusto borgesiano, sapientemente cadenzate e miscelate da De Vita, homo narrans espertissimo, capace di riprodurre un quadro antropologico veritiero, giocato sul contrasto continuo di pietas e violenza, sensibilità e ottusità morali.

Il micro-universo della contrada, quasi un ‘verghiano’ micro-cosmo dei vinti, diventa così «teatro universale»[7], in cui si muovono uomini, animali, elementi naturali, legati da un rapporto di interdipendenza ed efficacemente tratteggiati dalla voce narrante. Difatti, è il poeta che regge le fila del discorso, raccontando micro-storie in versi (perlopiù endecasillabi e settenari) sotto forma di dialoghetti (i Chiacchiaratini che danno il titolo all’ultima sezione di Sulità), soliloqui (come i Rrutulìi della seconda sezione) o brevi colloqui che riproducono i modi corali e comunitari dell’oralità. La voce poetante modula tono e ritmo della narrazione – abbondano le sequenze iterative e gli effetti di aprosdòketonon a chiusura dei testi; e le forme di espressione linguistica (dai costrutti sintattici alla grammatica) ricostruiscono, pure nel testo a fronte in italiano, le espressioni del parlato quotidiano. Anche nel processo di auto-traduzione, infatti, si realizza l’atto creativo del poeta, attento a non ridurre l’italiano a mero calco letterale del dialetto, puntando piuttosto a istituire un rapporto di biunivocità tra i due idiomi, pur restando consapevole di ciò che si perde nella riscrittura dei testi dal dialetto alla lingua, e ‘compassionevole’ nei confronti di questa perdita[8]. Per fare un esempio, nella traduzione della poesia ‘U rrialu (Il dono), tutta costruita su un gioco di detto/non detto e di allusività (perché la Verità, per De Vita, è inafferrabile), la resa di «nnui» con «due» comporta inevitabilmente la scomparsa di una felice ambiguità di senso, quella con la parola «noi», omografa di «due» nella versione dialettale, senza che per questo la versione in lingua risulti depotenziata sotto l’aspetto della drammaticità. E a proposito dell’impronta “drammaturgica” dei componimenti, costitutiva dell’intera opera del marsalese, essa si affaccia prepotente anche in Sulità (tanto che, persino in seconda di copertina, si parla di «racconti») e sarebbe inappropriato riferirsi a questi testi usando il termine «liriche»: i “mondi” tratteggiati da De Vita, difatti, sono conflittuali, contrastivi, relazionali, abbracciano èpos e télos, e pertanto devono dirsi essenzialmente narrativi. All’interno di questi mondi, i personaggi si muovono in uno spazio ristretto, quello di Cutusio, che diventa teatro universale anche in virtù della tematica che accomuna le loro storie, la Solitudine. Per usare una definizione di Guido Monti, questi personaggi sono «abissali»[9], attraversati dal dolore, dalla «crudezza del vivere»[10]; eppure allo stesso tempo suscitano «umanità, amorevolezza»[11], e sembrano voler lasciare al lettore un messaggio quasi testamentario per cui «il dolore non è solo dolore, ma può avere un risvolto inaspettato di stupefazione»[12].

Così si susseguono in Sulità numerose declinazioni della Solitudine, che non è solo umana, ma anche degli oggetti, o degli animali (penso alla rana di ‘A littra): c’è la Solitudine sofferta dopo una malattia mentale (Rrosa), quella economica di una madre che riesce a stento a procurare un tozzo di pane per il figlio (Dommianu), o quella di Bbettu, nell’omonima poesia, isolato nella sua cecità, provocata (probabilmente) dallo scoppio di una granata. Ancora: c’è Solitudine nella storia di un uomo, Pino Ciulla, che si reca al cimitero per omaggiare la propria gamba sepolta (‘A scala), così come nei libri, che «stannu suli, comu chiddi / chi sunnu dispizziati, l’angariati, / stritti nne ligna, muti» (I libbra). Ma il segno negativo di queste solitudini può convertirsi nei sentimenti di umana (leopardiana) pietas, di condivisione dei fardelli e delle croci: allora è sufficiente una frase d’affetto, sussurrata all’orecchio di una donna rimasta sola nel giorno del suo compleanno (Rrusulia), un colloquio con un giovane paraplegico che desidera soltanto camminare (Oronziu), i consigli elargiti a Libberanti, che, sebbene non sappia scrivere né parlare correttamente, vuole pubblicare un libro per dire di sé e vincere, in questo modo, la Solitudine. (E non è un caso, mi pare, che l’ultimo dei ventiquattro racconti ci parli di una «sulità» in absentia, quella avvertita dall’autore stesso nei confronti di un fratello mai nato, alludendo a un segno resistente di utopia o di riscatto che riguarda un futuro possibile, i sereniani “cento futuri del passato”).

In Sulità Nino De Vita affronta un tema attuale in una lingua antica, una lingua lessicalmente ricca, impregnata di storia e di memoria identitaria, e lo fa in «modo fresco»[13] e vivo, dimostrando come sia possibile guardare alla tradizione, rinnovandola, senza per questo risultare anacronistici. De Vita è un poeta tutto contemporaneo, capace di condensare sulla pagina vere e proprie «icone di destino»[14] (tragiche, grottesche, folli), universalmente valide al di là dei confini localistici. Alla deriva dei ‘narcinismi’, all’indifferenza e alle emozioni volatili della nostra era, dunque, si può forse trovare un antidoto nella riscoperta – salvifica – della Solitudine. Temuta, esorcizzata, demonizzata, come vogliono le logiche del branco dominante; oppure vagheggiata, idolatrata, esasperata in posture solipsistiche, essa può rivelarsi, invece, una cura efficace, se soltanto si riuscisse a riconoscerne, una volta incontrata, l’intima dolcezza. Dovremmo, allora, riflettere sulle parole pronunciate da Nino De Vita nel 2012, molto prima della pubblicazione di questa raccolta («La cerco tuttora, mi piace») e imparare non soltanto a coglierla nell’altro, ma ad accoglierla in noi.

 

 

 

[1] Così ha affermato Roberto Galaverni, dialogando nel 2016 con lo scrittore marsalese. Di seguito il link dell’intervista https://www.youtube.com/watch?v=eayd4wlQkXo .

[2] Si veda, ancora, R. Galaverni, L’epica del mondo sotto l’arco del cordaio, «La Lettura», 21 maggio 2017. Consultabile anche su https://www.pressreader.com/italy/la-lettura/20170521/281732679423470 .

[3] Così Nino De Vita, in un’intervista di Guido Monti, del 2017 (https://www.youtube.com/watch?v=vNhmQvvn3b4&t=1191s ).

[4] https://www.youtube.com/watch?v=DTuLBiHC_VU .

[5] Ibidem.

[6] A. Cusumanno, Il racconto in bilico tra oralità e scrittura nella poesia di Nino De Vita, «Dialoghi Mediterranei», n. 15, settembre 2015. Consultabile su http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-racconto-in-bilico-tra-oralita-e-scrittura-nella-poesia-di-nino-de-vita/

[7] Ibidem.

[8] Cfr. P. Malicka, Salvare l’insalvabile. La poesia di Nino De Vita fra traduzione e autotraduzione, «KWARTALNIK NEOFILOLOGICZNY» a. LXIV, 4/2017. Consultabile su http://journals.pan.pl/Content/102370/PDF/KN%204-17_10%20MALICKA.pdf.

[9] Nino De Vita dialoga con Guido Monti al Poesia Festival ’17, https://www.youtube.com/watch?v=vNhmQvvn3b4.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] R. Galaverni, L’epica del mondo…, cit.

[14] D. Calcaterra, Una coralità imperfetta, «L’Indice dei Libri del Mese», a. XXXV, n. 1, gennaio 2018.