“E, comunque sia, si trema sempre”: verrebbe voglia di scomodare le lettere di Kafka, il suo impetuoso soffrire e dolersi, la sua paura per ciò che è stato e per ciò che può inesorabilmente essere nel raccontare la storia del Davide Miriani di Bonazzi (L’abbandonatrice, Fernandel, 2017), una storia fatta di convulsioni, panico e paura – tanta – di non essere mai all’altezza del caso di specie.
«Dove è finito il respiro? Qualcosa mi sta premendo sull’addome! Siamo vicini, cazzo, siamo tutti ammassati! C’è troppa gente! Statemi lontano adesso, VIA! Non capite che non riesco a respirare?» (p. 13).
Il testo inizia con un crollo, uno svenimento quasi provvidenziale, che consente al Miriani la conoscenza di Sofia, figura totale e duratura negli anni a venire: i due personaggi – anzi, vorremmo dire i tre, giacché subentra nella narrazione la figura di Oscar, giovane pianista dall’umore vacillante – concretizzeranno un rapporto di forte dipendenza e mutua assistenza in una Bologna universitaria fatta di cenere, silenzi ed alcoliche distese di vetro. Passato scomodo, quello dei tre, e futuro da decifrare mediante aspirazioni e professioni nelle quali arte e bravura devono, talvolta, accompagnarsi ad una massiccia dose di fede laica e strenua resistenza: Davide scatta, sviluppa e custodisce negativi, Sofia lascia ogni sofferenza sul legno marchiandolo col fuoco e pirografandolo e Oscar accarezza tasti bianchi e neri affidando a melodie tristi un’inquietudine interna. Tre esistenze complesse, macchiate, che vanno ramificandosi, con un sentimento – quello tra i due uomini – che coinvolge puntualmente, e scivolosamente, la figura di Sofia: non basterà il suo abbandono e la sua scomparsa a risolvere delle vite intricate dalla nascita. L’assenza, piuttosto, si misurerà in ripercussioni, conseguenze inaspettate – un bambino, Diamante, figlio di Sofia nascosto e taciuto – e una necessaria e risolutoria resa dei conti.
Ciò che colpisce dell’autore è la capacità di sviluppare, in una trama che consentirebbe un facile scivolamento tondelliano, un suo personale ed intimo sviluppo della matassa, nel quale omosessualità, droghe e stabilità sognate e raggiunte con fatica prendono le distanze da qualsiasi effetto sensazionalistico volto a stupire ed eccitare il lettore di massa: quella fatta da Bonazzi è la cronaca di una – anzi tre – esistenze, inquadrate nelle loro difficoltà e nella loro ricerca di un attraversamento del problema con conseguente traviamento, ricaduta e nuova ricerca dell’equilibrio. Interessa a chi scrive il mettere in evidenza almeno tre punti della penna del ferrarese: la presenza di luoghi-spugna, il passato familiare e gli effetti dello stesso sull’agire dei personaggi.
«Piazza Santo Stefano, a quell’ora, era un’oasi di silenzio immersa nel cuore di Bologna. I pochi studenti rimasti in città sedevano sui muretti sotto i portici e, oltre al refrigerio, a quel nucleo di cemento armato parevano chiedere qualcosa come protezione». (p. 25)
Non è una semplice accezione petrarchesca del paesaggio come stato d’animo quella che pervade queste pagine, quanto una interiorizzazione dello stesso: non il luogo in sé, quanto ciò che quel luogo rappresenta per colui che lo ha esperito, per colui che lo occupa o lo ha occupato in una perenne risemantizzazione della realtà del luogo. Di Bologna l’autore presenta gli squarci, le accademie, i porticati pieni di birra e le corse ansiolitiche effettuate da una zona all’altra della città a cavallo di preoccupazioni e paure. Accade lo stesso con un’Inghilterra misura prima della distanza e delle aspettative di un Oscar in concerto a Piccadilly e poi reticolato dei rifugi di Sofia in una Soho bagnata e allucinata da perenne gradazione alcolica.
Tutte fughe, tutti rinvii, tutti ritardi volti al differenziare e allontanare il più possibile quel nido, quella casa «in cui non c’è nulla e il nulla è l’unica cosa che mi terrorizza davvero» (p. 34).
Famiglie assenti, incapaci o semplicemente inadatte – per riprendere un termine usato da Cosimo Argentina nel Cadetto – al ruolo padrematerno: radici storte o deboli che hanno minato dalla nascita il quieto vivere dei protagonisti condannandoli ad un percorso fatto di inciampi, equilibri ciondolanti e cadute disastrose. Si consideri la storia di Sofia, la sua missione volta a ristabilire un nucleo familiare almeno apparente e la sua sofferenza nel consegnare ad una diaspora ogni singolo componente del nido, dinanzi ad una madre assente, piegata dal dolore e prossima alla follia:
«Ricordo che casa nostra aveva una chiave, che però era uguale a tutte le serrature di casa. Ora invece c’è solo il bianco, tutto quel dannato bianco che per anni era rimasto nascosto sotto le nostre cose più care e che adesso era lì, esploso nella sua desolante freddezza. Quel bianco abbagliante aveva trasformato la nostra camera in una stanza d’ospedale. (…) Quel bianco era il simbolo del mio fallimento» (p. 39).
Nessuna sorpresa nell’immaginarla un domani nel provare dolore dinanzi all’esercizio del ruolo di madre a causa di esempi mancanti o sbagliati, nessun dubbio nel riscontrare come questo stesso ruolo possa in lei accendere ricordi dolorosi scomodando fantasmi ingombranti. Eccolo, il vero problema del Bonazzi: le cicatrici.
Non ci sono sani in questa narrazione. Precari semmai: nel sentimento, nelle occupazioni, nelle aspettative. Icari dalle ali spezzate, ricucite alla peggio, inadatte al volo. Figure incidentate che non hanno sufficiente stabilità e forza per continuare un percorso di ristrutturazione o che, al contrario, ne hanno anche troppa per capirne la natura fallimentare: da qui il paradigma dell’abbandono che consentirà al sopracitato Miriani, diverso per ammissione dei suoi due stessi commilitoni, di intraprendere un’esistenza altra, da professionista, padre o, almeno, da semplice essere umano, per nulla al riparo dal tremore kafkiano ma certamente intenzionato a fare esercizio e professione di una regolarità sfuggita ai caduti.