Martedì, 25 Luglio 2017 23:00

Fofi, "Lo straniero", il super-festival: intervista a Nicola Lagioia

Scritto da Camilla Mauro
Nicola Lagioia Nicola Lagioia

Caro Nicola, si è da poco conclusa la tua esperienza come direttore della 30ª edizione del Salone del Libro di Torino. Tu e i tuoi collaboratori avete dato grande importanza a quella che hai definito bibliodiversità. Com’è stato lavorare con così tanti e così diversi editori? So che alcuni, nei mesi di progettazione del Salone, li hai incontrati a Torino mentre altri li hai raggiunti in un viaggio per l’Italia che un po’ ricorda quello per la promozione de La ferocia

 

- Tutto quanto è iniziato l’estate scorsa con la scissione fra Milano e Torino, quando ancora era inimmaginabile che potessi diventare direttore del Salone del Libro. La sfida è stata dimostrare che l’editoria indipendente poteva benissimo reggere il passo dei grandi editori, che pure non sono mancati al Salone: Feltrinelli, Giunti, Einaudi (dopo contrattazioni con Mondadori è riuscita a prendere un piccolo stand)…

Riguardo al viaggio, il contatto umano è importante in eventi molto grandi come quello del Salone: siamo andati a cercare editori, autori, bibliotecari e librai da coinvolgere in diversi progetti. Ad esempio, c’è stata la Biblioteca nel Salone, un consorzio di venticinque librai e cento bibliotecari che hanno messo in atto il criterio, teorizzato dallo storico dell’arte Aby Warburg, della divisione dei libri per affinità tematiche. Abbiamo coinvolto la Scuola Holden, il Museo Egizio, il Museo Nazionale del Cinema e, in generale, tutte le istituzioni culturali cittadine. 

In sostanza, abbiamo cercato di realizzare un Superfestival, un luogo in cui i maggiori festival italiani si dessero appuntamento, proponendo ciascuno contenuti di grande valore: da una ragnatela di incontri ben fatti nascono progetti sensati.

Per mettere insieme tutto questo, è stato ovviamente necessario un lavoro fatto di spostamenti e treni presi. Ripeto, il contatto umano è imprescindibile nel lavoro che faccio: ieri ero ad Ivrea, oggi a Copertino con Goffredo Fofi, anche lui girovago da sempre…

 

 

A proposito di Fofi, il vostro è un sodalizio che dura da anni ormai. Lo straniero è stato un periodico imprescindibile sia per la sua anima militante sia per il reclutamento sistematico, portato avanti da Fofi, di collaboratori che sarebbero poi diventati dei punti di riferimento nel panorama culturale nazionale. Cosa puoi dirci sulla tua collaborazione alla rivista? Che ruolo credi abbia svolto nella tua formazione?

 

- È stata un’esperienza bellissima, la mia università. Goffredo ha sempre coinvolto me e gli altri collaboratori in incontri interessanti con molti esponenti non solo del mondo della letteratura, ma anche di quello del cinema, del teatro, della filosofia e della politica, intesa come “fare comunità”.  Ho incontrato scrittori, musicisti, intellettuali dieci anni prima che questi finissero sui quotidiani nazionali. Ti rendevi conto sempre con un certo anticipo di cosa stava succedendo nel panorama politico e culturale. Goffredo ha mostrato interesse per il Matteo Garrone di Estate romana e L’imbalsamatore, o, facendo un altro esempio, per il teatro di ricerca italiano, che è stato uno dei migliori d’Europa nella seconda metà degli anni ’90. La Ferilli ricevette il premio Lo Straniero per il suo primo film e gli stessi Gipi, a cui abbiamo fatto realizzare il manifesto del Salone del Libro di Torino, e Carmelo Bene sono stati in qualche modo una scoperta di Fofi. O ancora, il fatto di considerare Totò come un genio e non come un attoraccio di serie B, cosa che invece accadeva prima della successiva riabilitazione, è stato un merito di Goffredo. Tutta una serie di pensatori del Novecento, non necessariamente così popolari oggi, fanno parte del pantheon de Lo Straniero: da Hannah Arendt a Chiaromonte, a Silone, ecc. Tu eri un ragazzino appena approdato in rivista e iniziavi a leggere tutti questi pensatori: conoscevi il Camus de Lo straniero e La Peste e scoprivi quello de L’uomo in rivolta e Il mito di Sisifo. Frequentare una rivista libera che abbia dei contenuti sensati e profondi ti apre la mente. La linea d’ombra e Quaderni piacentini, che hanno preceduto Lo Straniero, sono state importanti tanto quanto lo era La Voce nel primo Novecento. Sì, Lo Straniero è stata una straordinaria palestra per me e, se ha chiuso, non è perché fosse letto da poche persone ma perché Fofi ritiene giustamente che dopo sei o sette anni ogni rivista perda parte della sua forza propulsiva e quindi la sua ragion d’essere.

 

 

A dispetto delle teorizzazioni sulla fine della storia, ogni giorno abbiamo notizie di conflitti, tensioni internazionali, nuovi muri. È stato molto coraggioso (e perfettamente in accordo con l’esperienza militante de Lo straniero di cui abbiamo appena parlato) mettere al centro di questa 30ª edizione il concetto di confine. Il manifesto realizzato da Gipi ben esemplifica il ruolo che può avere la cultura nell’aiutare anche solo a familiarizzare con tutto ciò che è altro da sé…

 

- Il Salone è una realtà troppo grande per essere totalmente compatta, ma abbiamo voluto provare a renderla omogenea – nei limiti del possibile – lavorando intorno al concetto di confine, che è sempre duplice: se i muri non portano a nulla di buono, chi va canticchiando Imagine di John Lennon non tiene conto che è giusto che ci siano i confini perché determinano e preservano la diversità culturale e religiosa. L’attraversamento di un confine non è mai semplice o indolore: quando ci troviamo in un mondo che non è più il nostro, è normale provare ostilità o spaesamento. In quei momenti riemerge la parte primitiva di noi: siamo istintivamente portati a percepire l’altro come un nemico e ci sentiamo nuovi guardiani delle Termopili. Se non bisogna assecondare questa violenza atavica, la cancellazione dei confini è però legata ad altri tipi di violenza, penso alla colonizzazione.  Bisogna essere pronti al confronto con il diverso: l’identico a sé non fa sentire smarriti o spesati ma non comporta neanche la crescita connaturata ad un confronto sensato con tutto ciò che ci è estraneo. Sebbene la questione sia estremamente complessa, abbiamo provato ad affrontarla ruotando attorno a queste due polarità, cercando di fare il punto della situazione – in parte ci siamo riusciti. Sono intervenuti, fra gli altri, Domenico Guidi parlando di guerre e Amitav Gosh che ha riflettuto sui cambiamenti climatici. Le persone hanno capito che non abbiamo trattato la cultura come un qualcosa di innocuo (la cultura della guerra, della sopraffazione, della violenza di innocuo non hanno nulla) e hanno risposto molto bene.

 

 

Leggendo il programma del Salone si ha la sensazione che abbiate tentato uno sguardo onnicomprensivo della realtà. Gli incontri con gli autori e gli operatori culturali hanno toccato i temi più diversi: disuguaglianza economica, discriminazione di genere, difficile assimilazione e rielaborazione dell’eredità del passato – solo per citarne alcuni. Anche le scuole sono state coinvolte, giusto?

 

- Sì, sono anni che il Salone intrattiene con le scuole un rapporto molto stretto. C’è un progetto, chiamato Adotta uno scrittore, grazie al quale gli scrittori tengono incontri e laboratori nelle scuole e qualche volta anche negli ospedali e nelle carceri. La scuola è il luogo in cui si dovrebbero formare nuovi lettori e nuovi cittadini consapevoli e, ovviamente, il dialogo con essa deve essere costante.

 

 

Gli eventi che hanno preceduto il festival (penso agli incontri con Philip Schultz, Svetlana Aleksievic, Patti Smith ecc.) e il Salone off sono stati il tentativo di sincronizzare il respiro del Salone con quello della città di Torino. Sei stato soddisfatto del risultato? Come hai visto trasformarsi la città?

 

- Sì. Molto soddisfatto. Torino, essendo una città capace di farsi comunità, ha risposto bene. La rivalità con Milano sicuramente ha avuto la sua funzione: siamo, in fondo, anche il Paese dei campanili e i torinesi hanno voluto dimostrare che il Salone è a Torino. Gli incontri preparatori a cui hai accennato si sono svolti in posti strategici nella città, come la Scuola Holden o la Cavallerizza. Questo ha fatto capire ai cittadini che stava succedendo qualcosa e la risposta è stata forte: si è creato un bellissimo feeling fra città e Salone: la gente era felice di esserci, c’era una bella atmosfera, viva. Abbiamo cercato ottenere la massima inclusione senza rinunciare ai contenuti.

 

 

Cosa credi che ti abbia dato il luogo in cui hai vissuto negli ultimi mesi? So che hai fatto spola fra Torino, Roma e Bari per gli incontri al teatro Kismet…

 

- Vivo a Torino da ottobre e mi ci sono trovato molto bene, tanto che ho deciso di rimanere lì per i prossimi due anni, dopo aver passato gli ultimi diciotto a Roma, diventata sempre meno gestibile e meno comprensibile. È una delle città più belle del mondo, forse quella in cui c’è più arte per metro quadro al mondo ma, allo stesso tempo, è totalmente allo sbaraglio.

 

Ti trasferisci con moglie e gatto quindi?

 

- Sì, con moglie e gatto. Il senso di condivisione e socialità che c’è sotto la linea Gotica è ineguagliabile ma Torino è una città che è riuscita a comunicare con sé stessa grazie anche grazie ai meridionali immigrati negli anni Cinquanta - Goffredo Fofi ha scritto un bel libro sull’argomento[1]. Torino ha molto rispetto di sé stessa, al contrario della Roma degli ultimi anni. Stare lontano per qualche tempo non mi dispiace poi tanto…

 

 

Ancora una domanda che un po’ esula dal Salone. Come procedono le trattative per la trasformazione de La ferocia in un film? Non hai paura che una trasposizione cinematografica appiattisca su un’unica dimensione la complessità del tuo romanzo?

 

- Le trattative sono ancora in corso, in realtà, e tutto dipenderà dalla bravura del regista. Di solito i film che riescono a rendere l’essenza del libro sono quelli che lo tradiscono formalmente. Il più bravo in questo senso fu Kubrick, pensa a Eyes Wide Shut, tratto da Doppio Sogno di Arthur Schnitzler ma ambientato nella New York di fine ‘900 o a 2001: Odissea nello spazio da La sentinella di A C.  Clarke. Seguendo pedissequamente i libri non si sono mai ottenuti risultati soddisfacenti - come nel caso delle trasposizioni dei romanzi di Roth, in primis de La macchina umana. Staremo a vedere.  

 

 

 

[1] G. Fofi, L'immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1964.