Venerdì, 26 Agosto 2016 20:34

Michelangelo Zizzi: "La resistenza dell’impero"

Scritto da Simone Giorgino
Michelangelo Zizzi Michelangelo Zizzi


A oltre dieci anni di distanza dal precedente Del sangue occidentale (Lietocolle, 2005), Michelangelo Zizzi ha da poco pubblicato un poema programmaticamente inattuale e anti-moderno che ha al centro – cito dalla Nota d’autore – la sua «biografia non addizionale né minimale»: La resistenza dell’impero (Lietocolle, 2016) è un’opera coraggiosa perché deliberatamente anacronistica e Zizzi, ultimo alfiere di quella che lui stesso definisce, in maniera un po’ ribalda, linea orfico-borbonica, tiene ben saldo il timone verso il miraggio di Eleusi, anche se i venti soffiano in direzione contraria e anche se persino il suo riconosciuto maestro, Milo De Angelis, sembra prendere sempre più le distanze da un’etichetta, il neo-orfismo appunto, che si presta facilmente a equivoci e manomissioni e che, fra gli epigoni meno dotati, ha provocato delle derive imbarazzanti e un’inflazione, più che di devoti ‘innamorati’ della parola oracolare, di stalker pasticcioni.

Sarebbe ingiusto non riconoscere, però, che, nella declinazione di Zizzi, quest’attitudine iniziatica è giustificata e sorretta da un’urgenza espressiva così sorprendentemente autentica che non può che risultare convincente. Ciò si verifica, credo, per la scelta strategica di organizzare il poema non più attorno a una vicenda pubblica e civile – penso ai fatti dell’11 settembre su cui ruotava Del sangue occidentale – ma privata e familiare, cioè la struggente rappresentazione della propria orfanità, la catabasi dell’io nelle regioni più remote della propria storia, la superba e furente fedeltà a un progetto di poesia ‘totale’ da opporre alla chiacchiera perbenista e mediocre degli intellettuali-parvenu ‘da aperitivo’: «per questo sto nel retro del retrò / nel bistrò / dove fiaccheggio sfiascando vino / e saccheggio parole inutili e vane / del radical chic / e vi vedo che passa / il fantasma del moderno / ma con una cartografia immateriale / utopia di città silenziose», p. 48.

Zizzi, «savio monaco» (p. 18) e anacoreta, si barrica nel suo eremo, gettando via la chiave; e da lì modula a pieni polmoni il «suono di flauto d’orfica foce» (p. 73), cioè un flusso oracolare ininterrotto attraverso cui esibisce una sofferta meditazione interiore che certifica, rivendicandola, un’orgogliosa disappartenenza alla modernità. Questa poesia eccedente e compiaciuta corteggia gli abissi semantici che la insidiano minacciandone la tenuta, opponendovi una tumida verbosità barocca costruita per ipersaturazione retorica (penso, per esempio, al tic stilistico della paronomasia).

L’impero che combatte per resistere coincide con la forma o piuttosto con la nostalgia della forma ed è sempre minacciato da un informe-negativo che ne erode i confini. La forma è, innanzitutto, difesa della memoria soggettiva, della propria storia privata e quindi della propria identità. Da qui le escursioni «nel recinto d’acqua di Mnemosine», p. 32 – e si noti che il motivo dell’acqua, anche nelle varianti di neve, rigagnolo, pioggia, canale di scolo, ecc., è emblema ricorrente di una fluidità cangiante e ingovernabile che determina il paesaggio interiore, carsico, di questa poesia: «Ora l’acqua corriva scroscia in tomba / di perduti antenati, stati / ma non discende in ade / perché qui la stagione è un’era / raccolta in capienti falde di memoria in forme» p. 23 – che l’autore intraprende e trascrive con cocciuto zelo da cronachista («E invece no. / E invece torno, storno, se per corrivo inchiostro / monarchico e patriarcale scendo in amnio e forgia d’inizio», p. 29), regredendo persino, nella sua indomita, allucinata recherche, sino al buio dell’amnio materno («nel ventre greve», p. 34) e da qui sino alla stupefatta contemplazione della propria nascita: «e così vi discendo come la prima volta, quando fui estratto in vagito / della mattina del Natale / all’uscio dell’amnio estratto da Mamma / ché volto a Papà / col rossetto sulla barba dissi: / ecco nacqui; sono qui» p. 54.

Solo se, attraverso la parola, si riescono a salvare dalle macerie del tempo, dal suo vorticoso sfaldarsi, alcune cose salde («poche cose ma non transitanti», p. 65), allora l’impero può resistere. Ma quelle macerie continuano a sfarinarsi fra le mani, le immagini salvate sono sempre sfuggenti, provvisorie: riemergono per un attimo ma poi tornano a inabissarsi ancora. Le cose salde non sono che ombre. E al poeta non resta che cominciare da capo a «ricomporre la morte per endecasillabi», gettando ancora sale sulla ferita di questa continua e tremenda lacerazione:

 

Ora però devi resistere alla lima lisergica del tempo
che ora corrode nel fiato fatuo del vento
le cose che amasti sparpagliandole
in cumuli di disfatta neve.
Ma saprai revolvere ed anche saprai apprendere
il caldo fuoco d’uno spiro segreto
in trasparenza di vetro del fiato interno
e fare come un lavoro d’artigiano:
stoppare
sostare
sgusciare
ogni altera sostanza che non sia tua
ricomporre la morte per endecasillabi.
Poi tornare alla franca essenza
di non dicibile origine,
restaurare
come si incassa la bellezza nel buco di biliardo angolare,
adolescenziale. (p. 33)