Martedì, 11 Luglio 2017 21:00

«Il mondo della verità»: su "Il Consiglio d’Egitto" di Leonardo Sciascia

Scritto da Irene Pagliara
Leonardo Sciascia Leonardo Sciascia

Sebbene il rapporto tra storia e letteratura sia uno dei nodi fondamentali della riflessione di Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto può essere considerato un unicum all’interno della sua produzione letteraria. Infatti, nonostante la ricerca storica e l’utilizzo dei documenti d’archivio siano alla base di molte delle sue opere, solo Il Consiglio può essere fatto rientrare nel filone del romanzo storico moderno. D’altra parte, a causa della sua complessa problematicità, per il romanzo storico potrebbe sembrare più opportuno fare riferimento alla categoria di “modo”, piuttosto che a quella di genere in senso stretto, così da poter cogliere le continuità, al di là delle fratture, tra i diversi filoni della narrativa storica dell’Ottocento e del Novecento[1].

All’interno di una categoria statutaria così fluttuante e magmatica, tra l’altro, il romanzo sciasciano presenta una collocazione particolare. Infatti l’opera, pubblicata nel 1963 e salutata come l’“antigattopardo[2], si collega alla triade antistorica siciliana individuata da Vittorio Spinazzola e costituita da I Viceré (1894) di De Roberto, I vecchi e i giovani (1909) di Pirandello e Il Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa, che cercava di recuperare la voce dei “vinti” soffocata dalla celebrazione della memoria dei “vincitori”, restando nel filone del romanzo storico moderno, in quanto a fronte del sentimento di sfiducia nella Storia si riscontra comunque una forte carica civile e morale, laddove il romanzo postmoderno, o “neostorico”, dimostra nelle sue tendenze generali un atteggiamento disimpegnato e un confine sempre più labile tra storia ed invenzione[3].

Il 1963, anno di pubblicazione del romanzo, è anche l’anno di nascita del Gruppo 63 e dell’affermazione della neoavanguardia, in cui convergevano poeti, romanzieri e critici uniti dall’esigenza di opporsi alla mercificazione dei prodotti intellettuali attraverso una radicale eversione del linguaggio, che mimasse il caos labirintico della realtà. Sciascia non fece mai mistero della sua ostilità verso l’arte e la letteratura d’avanguardia, infatti in piena stagione “rivoluzionaria” scrive un romanzo storico “ben fatto”, in cui non si rovesciano i canoni della tradizione romanzesca, ma si utilizza comunque una configurazione letteraria di tipo sperimentale, che oscilla tra l’adozione problematica dei modelli di scrittura tradizionali (Manzoni) e una sorta di ibridazione tra narrativa e saggismo[4].

Il Consiglio d’Egitto si basa sulla ricostruzione romanzata delle vicende che videro coinvolti, nella Palermo di fine Settecento, l’abate maltese Giuseppe Vella, artefice di una falsificazione di codici arabi in grado di minare le basi del privilegio feudale, e l’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, promotore di una congiura giacobina destinata al fallimento. Pur essendo un romanzo storico, il Consiglio non si può ridurre ad una semplice interpretazione dell’ambiente e del momento storico, per cui risulta molto più complesso del canonico genere ottocentesco, “misto di storia ed invenzione”. Infatti, Sciascia attua una reinvenzione del genere, utilizzando in maniera ora fedele, ora critica e ora parodistica le fonti storiche, alle quali si mescolano le sue convinzioni, veicolate talvolta dalla voce del narratore onnisciente, talaltra da quella dei personaggi o da alcune citazioni colte, lasciate all’interpretazione del lettore[5]. Le fonti storiografiche utilizzate sono ben precise e riconoscibili: nella ricostruzione dell’impostura ideata dal Vella si serve delle pagine di Domenico Scinà, contenute nel Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII, pubblicato a Palermo nel 1824-’27; molti aneddoti e dettagli minimi sono invece ricavati dallo sterminato Diario palermitano del “grafomane” marchese di Villabianca; il vivace clima palermitano e in particolare i contrastati rapporti fra il viceré Caracciolo e i nobili siciliani sono desunti per lo più dallo storico ottocentesco Isidoro La Lumia. Tutte queste fonti sono tuttavia utilizzate in senso critico e parodistico, poiché spesso le convinzioni sciasciane divergono da quelle degli autori citati, considerate talvolta poco imparziali e, nel caso del Villabianca, poco intelligenti[6] e fortemente reazionarie.

Questa lettura “obliqua” delle fonti, tuttavia, non impedisce al romanzo di assolvere a quella che secondo l’autore è la finalità tipica del romanzo storico, cioè far rivivere il passato in funzione del presente, attuando la reinvenzione di un passato che è «discorso critico di un presente, condizionato da quel passato[7]». Pertanto, l’ambientazione nel passato ha senso in funzione della contemporaneità in cui l’opera è coinvolta, consentendo di inoltrarsi all’interno di una problematica che riguarda il tempo in cui lo scrittore vive e agisce.

La scelta del Settecento non è certo casuale[8], non solo perché Sciascia aveva indubbiamente una particolare affezione per il “secolo educatore”, che lo aiutò a superare o correggere quel suo “pirandellismo di natura”[9], ma anche perché si tratta di un periodo particolare, in cui l’Italia moderna, dal punto di vista politico, non aveva ancora visto la luce. Quindi, la Sicilia non si trova a confronto con il resto del Paese, come già nei Viceré, nei Vecchi e i giovani e nel Gattopardo, ma con l’Europa illuminista, sconvolta dalla Rivoluzione francese. E non può non campeggiare nel romanzo la constatazione di come la rivoluzione politica in Italia non si sia verificata, a differenza di altri paesi, e come quindi il passato non fosse segnato da nessun grande cambiamento.

Coprendo un periodo convulso della storia isolana, dalla fine del 1782 alla primavera del 1795, il romanzo mette in evidenza l’involuzione che, dal cauto riformismo dei viceré Caracciolo e Caramanico, espressione del tentativo di distruggere le basi giuridiche a fondamento dell’ideologia feudale, porta alla “normalizzazione” operata dal successore Lopez y Rojo, dimostrando ancora una volta come la Sicilia resti estranea al cambiamento, una sorta di baluardo dell’antico regime contro la Rivoluzione simboleggiata da Parigi. E infatti, proprio a proposito del Caracciolo, che dopo vent’anni a Parigi viene mandato a Palermo come viceré, si dice: «dal luogo della ragione all’hic sunt leones, al deserto in cui la sabbia della più irrazionale tradizione subito copriva l’orma di ogni ardimento[10]».

Facendo riferimento al secolo dei lumi, Sciascia intende concentrare l’interesse su un momento cruciale per la storia europea, ma anche dell’America del Nord, in cui si sono sviluppati dei radicali cambiamenti, che hanno portato alla teorizzazione di uno status dell’individuo, soltanto successivamente introdotto anche in Italia. Tramite questo romanzo storico, l’autore ha voluto esprimere anche la sua volontà di contestare l’ambiente politico-sociale in cui è stato costretto a vivere, cercando l’identificazione con l’uomo del Settecento, che aspira alle riforme e al mutamento[11].

Il contesto storico-politico verso cui si rivolgono il rifiuto e la polemica dell’autore è ovviamente la Sicilia del suo tempo, cioè dei primi anni Sessanta. Infatti, Traina ha rintracciato nel romanzo diverse “microallusioni al presente”, come ad esempio nel momento in cui il principe di Trabia, leader dell’aristocrazia siciliana, paragona il Di Blasi, reo della congiura, al brigante Testalonga, dichiarando apertamente di apprezzare maggiormente quest’ultimo. In tale episodio si potrebbe celare un’allusione al movimento separatista, strettamente legato agli agrari siciliani e alla vecchia classe dirigente prefascista e fortemente condizionato da una massiccia presenza mafiosa, che nell’immediato dopoguerra si era servito proprio di bande di briganti, come quella di Salvatore Giuliano, per reprimere il movimento contadino. D’altra parte anche nell’episodio dell’arresto del Cammilleri, il monaco complice dell’abate Vella nell’impostura, Sciascia sottolinea ironicamente che «pareva una spedizione per catturare una di quelle feroci e numerose comitive[12]», tanto era sproporzionata, e allude poi a come tali operazioni poliziesche non sortissero in realtà alcun effetto (con un rimando cifrato al prefetto Mori).

Tuttavia, nel romanzo non sono presenti soltanto riferimenti alla storia siciliana, ma anche al presente della storia nazionale, dal momento che si può collegare l’anno di pubblicazione del romanzo alla stagione del centrosinistra organico, che avrebbe dovuto essere foriera di grandi cambiamenti e che forse Sciascia intendeva stigmatizzare parlando del fallimento del riformismo settecentesco, e internazionale, poiché l’autore trova il modo di pronunciarsi contro gli orrori perpetrati nei lager nazisti e contro la repressione messa in atto proprio dai «più diretti eredi della ragione», in Algeria[13].

Un motivo centrale e problematico, all’interno del romanzo, è rappresentato dal rapporto tra storia e letteratura. D’altra parte, secondo Hayden White, i racconti storici baserebbero la loro capacità esplicativa proprio sul fatto che gli eventi non vengono semplicemente registrati in ordine cronologico, ma anche narrati, conferendo loro una struttura e un ordine di significato, in base alle due categorie descritte da Hegel nelle sue Lezioni di Estetica, ossia la tragedia e la commedia[14]. In Sciascia, ad una fiducia salda, anche se non dogmatica, nella storia subentra già a partire dal Consiglio una certa sfiducia nel valore ermeneutico di quest’ultima, a tutto vantaggio della letteratura, che in Nero su nero è definita come «la più assoluta forma che la verità possa assumere», anticipazione di quella svolta gnoseologica che giungerà a maturazione negli anni Settanta, rivelando la crescente influenza di Borges e Savinio[15]. Già nel romanzo emerge una profonda sfiducia nella storiografia, che non solo viene svalutata, ma addirittura assimilata all’arabica impostura messa in atto dall’abate Vella. Quest’idea è veicolata dalle stesse parole dell’abate, il quale spiega a Cammilleri, il monaco suo complice, che:

               

il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro ad inventarla[16]

 

e ancora:

 

Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere […] La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà, nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?[17]

 

La storiografia diventa così oggetto di un sentimento di profondo scetticismo, in quanto giustificazione ideologica di un Potere che perpetra il sopruso e la menzogna e mistifica soltanto le gesta dei grandi personaggi, ignorando invece la vita degli umili, le cui vicende sono destinate a scomparire come le foglie di un albero al ricambio stagionale. Di conseguenza, paradossalmente, proprio l’impostura comincia a configurarsi come un’approssimazione alla verità, se è vero, parafrasando ciò che Calvino scrive in Se una notte d’inverno un viaggiatore, che un falso, essendo la mistificazione di una mistificazione, è come una verità alla seconda potenza. Le mistificazioni del Potere, d’altra parte, investono anche il linguaggio, concretizzandosi nelle leggi, nei codici, nella storiografia e nell’erudizione. Sciascia cerca di svelare la falsità del linguaggio attraverso la figura dell’abate, che con il suo lavoro insieme filologico, storiografico, creativo e letterario mette in atto una demistificazione dei codici e dei meccanismi linguistici del potere[18].

Si potrebbe dire che l’impostura del Vella suscita una sorta di “sentimento del contrario”, per dirla con Pirandello, poiché in quanto parodia di un’opera letteraria consente l’adozione di una prospettiva rovesciata del mondo, al contrario di come dovrebbe essere e che quindi meglio corrisponde a quello che il mondo è veramente[19]. Quindi è la stessa letteratura a farsi storia o comunque strumento civile, realizzando la sua funzione critica e progressista attraverso la parodia. In tal modo l’opposizione tra storia e letteratura finisce per sfociare nella metamorfosi dell’una nell’altra. Nonostante ciò, nella sua opera continua a permanere una strenua attenzione al presente e ai suoi legami con il passato, e se nel romanzo l’abate Vella è il portavoce dello scetticismo nei confronti della Storia, l’avvocato Di Blasi rappresenta proprio il polo opposto, mantenendo una strenua fiducia nella «storia che riscatta l’uomo dalla menzogna, lo porta alla verità[20]».

L’autore non si identifica univocamente né con l’uno né con l’altro personaggio, anzi la sua posizione è particolarmente incerta e contraddittoria, soprattutto nei confronti dell’abate. Il Vella è senza dubbio un personaggio dalla forte valenza metaletteraria, in cui il mestiere di storico si mescola a quello di “smorfiatore di sogni”, incarnando la stessa invenzione letteraria, la creatività, il potere della letteratura che demistifica le falsità della storia; ma d’altra parte risulta anche un perfetto immoraliste, mosso inizialmente all’impostura dai vantaggi materiali e dal desiderio di essere temuto e rispettato. Nel Vella, rispetto al quale l’autore ora punta all’identificazione ora al distanziamento, convivono slanci ideali e grettezza, tanto che egli confessa l’impostura soltanto per avere il riconoscimento della grandezza della sua opera letteraria, non per un sincero pentimento.

In particolare, l’abate prova un «oscuro disprezzo» per i suoi simili, con l’unica eccezione dell’avvocato Di Blasi, per quell’onestà e chiarezza che intravede in lui e ammira come una possibilità irrealizzata della propria vita. In questo modo l’abate comincia ad “umanizzarsi”, passando dalla simpatia alla pietà verso il giovane orribilmente torturato in seguito alla scoperta della congiura. Similmente si ha un progressivo avvicinamento del Di Blasi all’abate, poiché davanti alla violenza e alla barbarie del Potere, anche se solo per un momento, la sua fede illuministica vacilla:

 

“I libri, i tuoi libri” si disse Di Blasi, ad irridere se stesso, a ferirsi. “Vecchia carta, vecchia pergamena: e tu ne facevi una passione, una mania… Per questa gente hanno meno valore che per i sorci, i sorci almeno li mangiano: e anche per te, ora; non ti servono più, ammesso che ti siano mai serviti; che ti siano mai serviti se non per ridurti a questa condizione”[21].

 

Nel destino del Di Blasi e dell’abate Vella si può rintracciare la condizione peculiare degli eroi sciasciani, moralmente vincitori, in quanto in grado di elevarsi attraverso la contestazione nei confronti dei ciechi meccanismi del Potere, anche se di fatto perdenti[22]. Tuttavia, nonostante tra i due personaggi si stabilisca una sorta di borgesiana reversibilità degli opposti, non si verifica una completa osmosi, in quanto essi rispecchiano dialetticamente il pensiero dell’autore.

La conclusione del romanzo sancisce da una parte il valore ambivalente della scrittura, al tempo stesso strumento del potere e del contropotere, in ogni caso mai una pratica neutra, e dall’altra la rivincita morale del Di Blasi, dimostrando che l’obiettivo dell’autore è quello di comunicare un residuo di speranza nella ragione, nella cultura e nella storia. Una speranza sofferta e mai pacificata che è del Di Blasi, ma che diventa anche dell’abate, il quale riflettendo sull’imminente morte dell’avvocato:

 

“Tra poco sarà nel mondo della verità” pensò. Ma gli sorse, a sgomentarlo, il pensiero che il mondo della verità fosse questo: degli uomini vivi, della storia, dei libri[23].

 

 

[1] Per un approfondimento sul tema si rinvia a M. GANERI, Il romanzo storico in Italia, Lecce, Manni, 1999.

[2] La definizione è del critico Giancarlo Vigorelli, autore del saggio L’antigattopardo. Per un approfondimento si rimanda a P. SQUILLACIOTI, Leonardo Sciascia e Il Gattopardo, in “Galleria”, XLIII, 1993.

[3] G. BENVENUTI, Il romanzo neostorico in Italia. Storia, memoria, narrazione, Roma, Carocci, 2012.

[4] F. MOLITERNI, La nera scrittura. Saggi su Leonardo Sciascia, Bari, B.A.Graphis, 2007, pp. 57-58.

[5] G. TRAINA, In un destino di verità. Ipotesi su Sciascia, La Vita Felice, Milano, 1999, p. 46.

[6] L. SCIASCIA, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino, Einaudi, 1977, p. 65.

[7] C. AMBROISE, A che cosa serve il Settecento in Sciascia?, in Leonardo Sciascia ed il Settecento in Sicilia, a cura di R. Castelli, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1998, p. 37.

[8] In una lettera a Prandstraller, lo stesso Sciascia ha spiegato che alla base di ogni sua opera che ha a che fare con la storia vi è una speciale affezione per un personaggio, dal quale si passa poi all’interpretazione dell’ambiente e del momento storico. In questo caso il personaggio è il viceré Caracciolo, che solo apparentemente ricopre nel romanzo il ruolo di un personaggio minore.

[9] G.P. PRANDSTRALLER, Il neo-illuminismo di Sciascia, in Leonardo Sciascia. La verità, l’aspra verità, a cura di A. Motta, Lacaita, Manduria, 1985, p. 179.

[10] L. SCIASCIA, Il Consiglio d’Egitto, in Opere. Volume 1. Narrativa- Teatro- Poesia, a cura di Paolo Squillacioti, Milano, Adelphi, 2012, p. 405.

[11] C. AMBROISE, A che cosa serve il Settecento in Sciascia?, cit., pp. 35-38.

[12] L. SCIASCIA, Il Consiglio d’Egitto, cit., p. 430.

[13] G. TRAINA, In un destino di verità. Ipotesi su Sciascia, cit., pp. 46-48.

[14] Si rimanda a H. WHITE, Forme di Storia. Dalla realtà alla narrazione, Roma, Carocci, 2006.

[15] Si consultino a questo proposito le voci Letteratura e Storia in G. TRAINA, Leonardo Sciascia, Milano, Mondadori, 1999.

[16] L. SCIASCIA, Il Consiglio d’Egitto, cit., p. 393.

[17] Ivi, pp. 393-394.

[18] F. MOLITERNI, La nera scrittura. Saggi su Leonardo Sciascia, cit., p. 72.

[19] C.M. CEDERNA, “La storia non esiste”: erudizione e impostura in Sciascia, in Leonardo Sciascia ed il Settecento in Sicilia, cit., p. 77.

[20] L. SCIASCIA, Il Consiglio d’Egitto, cit., p. 446.

[21] Ivi, p. 461.

[22] G. TRAINA, In un destino di verità. Ipotesi su Sciascia, cit., p. 62.

[23] L. SCIASCIA, Il Consiglio d’Egitto, cit., p. 497.