Domenica, 02 Luglio 2017 11:48

Prime note fuori di chiave: Pirandello, "Mal giocondo"

Scritto da Maria Serena Masciullo
Luigi Pirandello Luigi Pirandello

Concludiamo così il ciclo di articoli dedicato alla figura di Luigi Pirandello, nato il 28 giugno 1867, centocinquant'anni fa.
Dopo aver incontrato degli antenati ottocenteschi del suo "tema del doppio", facciamo la conoscenza di un aspetto poco noto dello scrittore e drammaturgo siciliano: quello poetico.

 

Se già con i romanzi e soprattutto con il teatro, come è noto, Pirandello ha dovuto subire l’iniziale ritrosia del pubblico e della critica nel percepire l’originalità della sua opera, giudizi particolarmente negativi furono rivolti al Pirandello poeta, tuttora ignorato rispetto al drammaturgo e narratore. A partire dalle antologie per così dire istituzionali del periodo ermetico e post-ermetico, come quelle di Spagnoletti e Anceschi-Antonielli, che non inserivano l’autore tra i poeti italiani degni di essere antologizzati, la presenza del versante lirico della sua scrittura nei manuali o nelle antologie scolastiche, anche più recenti, testimonia di questa sorta di ostracismo nei confronti della sua scrittura in versi.

Pirandello, che al tempo di Mal giocondo dichiara di voler essere poeta, ed esclusivamente tale, scriverà versi fin dopo i quarant’anni. I primi e maggiori “censori” del Pirandello poeta furono proprio i suoi familiari, i quali, pur avendo tutte le poesie pronte per essere ripubblicate già nel 1941, ritennero poco opportuno pubblicare un’opera “minore” rispetto alle novelle, ai romanzi e alle opere teatrali[1]. Si deve ricordare d’altra parte che l’autore negli ultimi anni della sua vita pensava ad una riedizione antologica delle sue liriche migliori:

 

Ora vorrei, Stenù mio, che tu mi facessi il piacere di raccogliere dal cassetto della scrivania tutti i miei versi perduti e me li mandassi, Mal giocondo, Pasqua di Gea, Zampogna, Fuori di chiave, Elegie renane, e tutti gli altri manoscritti o stampati in giornali. Mi bisognano.[2]

 

In effetti, chi legge oggi le poesie del primo tempo di Pirandello, dopo tanti anni di verso-liberismo e di musiche irregolari, ha di primo acchito la sensazione di tornare indietro di due secoli, notando un forte attaccamento alla tradizione che si fa evidente nell’uso di versi regolarissimi. Manlio Lo Vecchio-Musti lo definisce “grande novelliere e drammaturgo e mediocre poeta: forse nemmeno un poeta”[3]; Leone de Castris dichiara che “egli adopera con acritica disinvoltura, quasi a caso, senza sentirle mai sue, forme tolte di peso al repertorio carducciano e post carducciano”[4].

Le prime liriche, composte tra il 1883 e il 1889, sono contenute in due quaderni inediti: Prime note e Nuovi versi, che confluiranno in Mal giocondo, la sua prima raccolta poetica. Il titolo nell’arte retorica costituisce un ossimoro e deriva da un verso di Angelo Poliziano: “Sì bel titolo d’Amore ha dato il mondo / a una cieca peste a un mal giocondo”[5]. La raccolta fu pubblicata a Palermo dalla Libreria Internazionale Luigi Pedone Lauriel di Carlo Clausen nel 1889. Ricevuto il libretto, Pirandello non esitò a criticare gli errori tipografici, imputati soprattutto alla revisione delle bozze affidata all’amico Enrico Sicardi:

 

Non so se poi tu abbia già ricevuto il mio «Mal giocondo» che ti spedii da Roma. È un libro che non posso più vedermi dinanzi agli occhi pei molti errori di stampa che me lo deturpano. A p. 52, per esempio, verso V mi han stampato un sonoro invece di mordace – un sonoro poco sonoro, come vedi, appunto perché mi guasta la rima con pace. Come si possa scambiare una parola con un’altra non giungo a comprenderlo: bisogna proprio dire, che in quel momento il proto, componendo i caratteri, poetava lui. A p. 117 verso II mi han fatto dire profumi invece di profumo. A p. 191, verso I, e a p. 192, verso IV, mi ha stampato Celio invece di Elio ribattezzando un ponte col nome d’un quartiere dell’antica Roma. A p. 202, poi, verso III mi han fatto fare a dirittura un verso zoppo, volendo rendere l’o che avevo troncato a Costantino. O Costantin dai miti occhi di capro, e lì fa “dei miti occhi di capro”. Cose mie, cose mie, mia Lina! Ma non ci pensiamo altro.[6]

 

Il libricino del novizio Pirandello, con tutti i suoi refusi, è oggi diventato una rara gemma collezionistica, valutato intorno ai mille euro dal Gambetti-Vezzosi, il più autorevole catalogo delle rarità bibliografiche del Novecento italiano[7]. La raccolta consta di sei sezioni: Romanzi, Allegre, Intermezzo Lieto, Momentanee, Triste, Solitaria, incorniciate dalla lirica proemiale A l’Eletta e dall’ultima Eterno immenso e vario. In questi primi versi della giovinezza troviamo elementi forti e contrapposti quali amore e odio, bellezza e tristezza, giovinezza e vecchiaia; e traspare già la sfiducia tipicamente pirandelliana nei confronti della scienza e della società a lui contemporanea. Nell’alcaica introduttiva[8], in cui sono evidenti le influenze carducciane sia per quanto riguarda l’adozione della metrica barbara sia per il linguaggio, Pirandello evoca la Musa pagana della poesia, eterna consolatrice, perché discenda tra gli uomini per far rivivere gli antichi ideali legati all’arte, ormai perduti a causa dei tempi moderni. Il poeta vive la crisi di questo periodo, rimpiangendo la bellezza e l’equilibrio del tempo passato. La “novissima iddia”, la Scienza, ha illuso gli uomini di poter migliorare le proprie condizioni di vita: “per fila metalliche”, attraverso il telegrafo, gli uomini comunicano tra loro; “eque leggi” codificano un’educazione migliore; le industrie prendono “vita”; gli uomini si spostano velocemente facendo “solo una patria del globo”. Quest’ultimo verso ricorre similmente nell’ode carducciana Nell’annuale della fondazione di Roma: “Ecco, a te questa, che tu di liete / genti facesti nome uno”[9], ispirato a sua volta da Rutilio Namaziano: “fecisti patriam diversis gentibus unam”[10], ma anche nella Palinodia di Leopardi “essi di molti, / tristi e miseri tutti, un popol fanno / lieto e felice”[11].

Il leopardismo pirandelliano è presente anche in Quasi cristallo liquido, ondeggiante[12] in cui è descritto il porto di Agrigento, ricoperto dalle alghe trasportate nel corso del tempo: il poeta desidera “naufragar” tra le onde per dimenticare le preoccupazioni. La contemplazione del mare serve ad evocare la bellezza del mondo antico lontano da quello del poeta. Verso di lui muovono non “achee fanciulle” ma i ricordi e non gli è concesso dimenticare il montaliano “male triste di vivere”. E ancora nella sezione Triste: “Naufragare or voglio nel vorace/ mare inquieto de l’umano affetto. / Solo così, se dentro il cuor si tace,/ me ne gli altri obliando e in quel febrile/ continuo agitamento senza pace,/ la viltà umana non avrò più a vile” [13].

Pirandello dedica alcuni versi metapoetici ai suoi colleghi, denunciando l’uso ridondante di temi e linguaggi che si fanno retorica o cattiva eloquenza (inutile rilevare un rimando sarcastico al suo contemporaneo Gabriele D’Annunzio). Le “trite parole” sabiane risultano già al Nostro “sconciate dall’uso” poiché “è vecchio, o vecchissimo, il mondo”[14] e i poeti hanno ormai affrontato qualsiasi sentimento, dagli amori ai piaceri, dalle glorie ai mali, fino alla “noja”.

 

Ma non ti s’è crepata ancor la pelle

sotto le rime a pioggia, a manatelle,

in vario stile, in tutte le favelle?

non ne hai cocciuole in carne e pizzicori?

 

Oggi i versi han l’umore de l’ortica,

e ridon acre i vati: «Gran nimica,

urlan la vita!» e il ciel gli benedica...

Che cocomeri in corpo e che dolori![15]

  

In Intermezzo lieto momenti di pace dati dall’immediato contatto con la natura si alternano a sentimenti di contrasto e disarmonia, di incertezza e dubbio. La vita intima del poeta, il fondo creativo della sua anima, è un mondo di sentimenti in tensione, un mondo che però offre anche largo spazio alla gioia e alla serenità. Questa ricchezza di sentimenti, questa vita ossimorica, è un presupposto indispensabile per lo sviluppo della sua opera futura.

Pirandello non risparmia dalla satira neanche la classe dirigente italiana, in quel delicato momento storico dell’Italia post-unitaria, descritta con disperata ironia al culmine della sua corruzione, nei suoi aspetti più negativi e lascivi. I cittadini post-risorgimentali trascorrono “vite sciocche” impregnate di ozio e assumono tratti grotteschi. Il poeta li descrive attraverso parole cardine della più matura poetica pirandelliana: una “retata di drammi originali!...”. In Fuori: -Un fanale, e nel cristallo opaco[16] la scena si svolge all’interno di un’osteria romana. Non mancano parole tratte dal linguaggio comune, i toni discorsivi utilizzati sono un’anticipazione di quelli presenti nelle opere drammaturgiche, con tanto di descrizione della scena e di direttive dello sceneggiatore tra parentesi.

 

Fuori: - Un fanale, e nel cristallo opaco

l’insegna «Vini scelti» in cifre rosse;

due scalini d’invito, e l’uscio a vetri.

Dentro: (Aguzza lo sguardo), tra una nube

soffocante di fumo, un tanfo acuto

di vino inacidito tra la muffa

di vecchie botti

  

Il mondo illusorio degli uomini è spesso oggetto di scherno: Pirandello li addita come “sciocchi cittadini”, “sciocche vanità mortali”. Lo scetticismo si riflette nelle efficaci e forti immagini della folla romana, protagonista dell’VIII lirica di Triste mentre passeggia sotto la finestra del poeta:

 

Sono a la mia finestra, al quinto piano

e guardo giù per via: - C’è molto fango

oggi non scenderò. - Nubi vaganti,

nubi ideal d’ogni ideale vano,

nubi amor dei poeti e degli amanti,

egli è dunque così che va a finire

l’alta idealità che vi sublima?[17]

  

La fanghiglia come colla che lega gli uomini “a questa informe trottola sciocchissima” è contrapposta alle nubi, inganno dei sensi per poeti ed amanti. È l’illusione che logora l’animo dell’uomo. Il poeta decide di rimanere in un limbo, nel mezzo, non confondendosi né con il cielo né con la terra, e continuando ad osservare questo “spettacolo” in cui la menzogna penetra anche nell’animo dei giovani, i quali dovrebbero essere l’unica speranza della patria. Nel finale prende il sopravvento un tono cupo e pessimista: il poeta decide di strapparsi “la maschera” dal viso, metafora ricorrente nella sua produzione, che ha indossato per tutta la vita, non riuscendo più a reggere il gioco, stanco di questa finzione: “A voi: Dal viso / la maschera, or compunta or gioviale, / mi strappo - e ve l’avvento: La portai / già troppo; e sol con essa vi baciai... / Raccattatela or voi - vi farà ancora / un benevolo ed ultimo sorriso” [18].

La coscienza umana non diventa altro che un teatro che porta in scena il marcio di una coscienza collettiva, di una “folla di beoni”, incapace di gestire il proprio cammino del quale il poeta vorrebbe essere la bussola. Se da una parte troviamo questo spirito quasi nichilista per quanto riguarda la sfera dell’esistenza e dell’identità umana, dall’altra troviamo un’ammirazione e una glorificazione della vita e della natura in tutte le sue forme, un fortissimo desiderio di staccarsi dagli orrori della società industriale borghese e positivista.

È nello stesso ossimoro permanente, a guardare bene, che vivono le soluzioni formali adottate dal giovane poeta, dal lessico alla metrica: accanto all’eco dei classici greci e latini, ai grandi poeti della tradizione dai provenzali a Manzoni, passando per Dante, Leopardi e Carducci, non di meno dobbiamo dimenticare l’influenza della sua permanenza nella primissima giovinezza in un’area culturalmente isolata. Si cita qui da una lettera al poeta siciliano Giuseppe Schirò:

 

Peppino mio, i miei canti del secolo sono quattordici, compreso il preludio. Non sono prosa e non sono versi: questo mi tormenta. Sono poesia, è vero, e poesia originale fors’anco, ma la forma… Mi è venuto più d’una volta di ridurli in versi, ma è stata fatica perduta. Non sarebbe meglio spogliarli di ogni veste metrica e trascriverli tutti in forma di prosa? Così come sono, non vorrei pubblicarli, perché sono sicuro, che non essendo fermati in una forma decisiva, ma vacillante tra un germe e l’altro, non potranno essere duraturi. Dammi sul riguardo un tuo parere, dammi un consiglio. Io sento in me la forza e la voluttà, la volontà e l’ebbrezza della distruzione. Vorrei dire far quello che nessuno ha mai detto e fatto: le forme vecchie mi spiacciono tutte, e il mio pensiero per svolgersi ed esplicarsi ha bisogno di nuove forme, svincolate da ogni legge, e che lo rendano tutto con chiarezza ed efficacia.[19]

 

Questa lettera è la dimostrazione del suo consapevole attaccamento ai modelli poetici tradizionali, ma il suo pessimismo e i suoi dubbi affiorano anche nelle forme strofiche più chiuse; riuscendo, per esempio, a trasformare attraverso l’effetto di toni parlati l’apparente immobilità del sonetto.

 

La poesia di Pirandello non è né una espressione di dilettantismo né un semplice mezzo di apprendistato e d’ulteriore saltuario esercizio di stile, anche se in parte, e agli inizi in gran parte, è stata anche questo né l’effusione immediata, ma involontaria di sentimenti fondamentali dell’autore.[20]

 

La raccolta, insomma, contiene inevitabilmente tracce persistenti e riflessi della tradizione letteraria italiana, soprattutto nelle prime liriche, ma presenta anche cenni di modernità, per quanto concerne i temi trattati e per i toni prosastici che pian piano si avvicinano alle modalità espressive del teatro. Così come, in nuce, affiora l’umorismo che vent’anni dopo verrà codificato e approfondito nell’omonimo saggio. Le poesie di Mal Giocondo sono le poesie della crisi in cui il male viene già definito pirandellianamente “giocondo”[21]. Il giovane Pirandello, a soli 22 anni, si dimostra poeta “del sentimento del contrario” e persegue il proposito di un’arte “nuda” come lo è la vita.

 


[1] F. BONANNI, Pirandello poeta (motivi della poesia pirandelliana), Napoli, Morano, 1966, p. 9.

[2] D. FABBRI, Luigi Pirandello poeta drammatico, in Atti del congresso internazionale di Studi Pirandelliani, Firenze, Le Monnier, 1967, p. 49.

[3] M. LO VECCHIO-MUSTI, L’ opera di Luigi Pirandello, Torino, Paravia, 1939, p.46.

[4] A. L. DE CASTRIS, Storia di Pirandello, Bari, Laterza, 1962, p.33.

[5] A. POLIZIANO, Stanze per la giostra, I, ott. 13.

[6] L. PIRANDELLO, Lettere da Bonn, 1889-1891, introduzione e note di Elio Providenti, Roma, Bulzoni, 1984, p. 43.

[7] U. CANTONE, “Mal giocondo”, un Pirandello da mille euro, in “La Repubblica”, 18 maggio 2014.

[8] L. PIRANDELLO, A l’Eletta, in Saggi, Poesie, Scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1960, p. 435.

[9] G. CARDUCCI, Odi Barbare, Bologna, Zanichelli, 1887.

[10] C.R. NAMAZIANO, De Reditu suo, v. 63.

[11] G. LEOPARDI, Tutte le opere, a cura di F. Flora, Mondadori, Milano, 1968

[12] L. PIRANDELLO, Quasi cristallo liquido, ondeggiante, in Saggi, Poesie, Scritti varii, cit, p. 436.

[13] Ivi, p. 492.

[14] Ivi, p. 464.

[15] Ibid.

[16] Ivi, pp. 497-498.

[17] Ivi, pp. 449-450.

[18] Ibid.

[19] L. PIRANDELLO, «Amicizia mia». Lettere inedite al poeta Giuseppe Schirò (1886- 1887), a cura di Angela Armati e Alfredo Barbina, Roma, Bulzoni, 1980, p. 88.

[20] R. LO CASCIO, Le varianti nella produzione in versi di Pirandello, in Atti del congresso internazionale di Studi Pirandelliani, Firenze, Le Monnier, 1967, p.38.

[21] F. NARDI, L'emozione feconda: Luigi Pirandello e la creazione artistica, Nuova Cultura, Roma, 2008, p.25.