Mercoledì, 05 Luglio 2017 08:00

«La gloria che mai arriverà e la malattia che resterà sempre». Legge e desiderio ne "Il male oscuro" di Giuseppe Berto

Scritto da Gabriele Carluccio
Giuseppe Berto Giuseppe Berto

Leggere Il male oscuro[1] di Giuseppe Berto lascia storditi. Un fiume debordante di parole che colpisce le nostre pieghe più nascoste, denuda le nostre paure e i nostri fantasmi. Parole vestite di «stile psicanalitico», che non rispondono alla garbata e pacificata logica del discorso ma seguono piuttosto il ritmo irregolare e martellante delle libere associazioni inconsce, intollerante alle pause e alle virgole. Il narratore, alter-ego per larghi tratti dell’autore (eccetto per il finale) ripercorre le tortuose strade della sua nevrosi, che prende avvio dalla lotta col padre e si declina nella ricerca affannata e mai paga della gloria, passando per infinite disavventure e incomprensioni e per un ambiguo dialogo con la psicanalisi.

Sin dalla sua pubblicazione il testo, ripubblicato oggi per Neri Pozza, ha incontrato reazioni contrastanti. Così come si oppone resistenza all’emergere dell’inconscio, così è facile mettersi sulla difensiva rispetto alla bulimia verbale ed emotiva di Berto. Troppo poco “impegnato” perché troppo autoriferito, troppo poco allineato per essere preso in considerazione[2], l’io frantumato del narratore occupa tutta la scena. L’autore fa in effetti della propria soggettività il palcoscenico del romanzo, vi si rifugia per fuggire il deserto affettivo che vive intorno a sé. Sarebbe quantomeno miope considerarlo un romanzo puramente solipsistico: «uno riuscirà a essere artista soltanto se egli è gli altri, cioè se riuscirà a esprimere qualcosa di comune a tutti gli uomini, e tanto meglio se questo qualcosa di comune a tutti è qualcosa di cui gli altri non si sono ancora accorti».[3] Berto scrive Il male oscuro nella convinzione di essere molto più realista del neorealismo a lui contemporaneo.

Nel 1964 espone così un memoriale della sua personale esperienza di nevrosi d’angoscia emersa in seguito alla scomparsa del padre, odiato e amato in vita, persecutore simbolico post-mortem. Il lettore contemporaneo, immerso nel tempo ipermoderno di Padri sempre più lontani, «evaporati», morti come Dio e come ogni grande narrazione, potrebbe non trovarvi un interlocutore all’altezza del tempo. Chi scrive ha avuto tuttavia difficoltà a staccare gli occhi dalla pagina, a non ridere di gusto per l’umorismo sparso in ogni angolo, a trattenere la commozione per la drammatica crudezza di un dolore riversato sino all’ultima goccia. In quest’articolo si tenterà di dare conto delle continue provocazioni a pensare suscitate dal racconto di Berto, che sa dialogare con il classico, nella figura di Spinoza, e con il contemporaneo, a metà strada fra Deleuze e Lacan, poiché instaura una costante tensione fra legge e desiderio, cura e nevrosi, ricerca di libertà e rassegnata solitudine.

Sul nodo fra Legge e desiderio si giocano tutta l’ambiguità e il fascino del romanzo, la sua incessante ricerca di libertà nonché il suo singolare epilogo, e su questo nodo è opportuno brevemente soffermarsi.

 

  1. Le briglie della Legge: «l’ineffabile Maresciallo»

 

Cercavo di riaddormentarmi chiedendomi che diritto mai avesse uno di rompermi l’anima a quel modo solo perché aveva fatto la bella prodezza di darmi i natali come si suol dire [...]

 

L’origine e lo sviluppo del «male oscuro» che attanaglia il narratore ruotano intorno alla figura e alla funzione del padre. Una «lunga lotta» che si articola in tre fasi: la prima, segnata da una «massiccia prevalenza paterna», dalla nascita al diciottesimo anno d’età, «quando mi venne in mente la bella idea di partir soldato»; una seconda fase, che giunge quando, «a forza di scoprire in mio padre contraddizioni e deficienze [...] arrivai a mettermelo sotto i piedi»; una terza, «al trentottesimo anno di età, quand’egli ebbe la disavventura di morire [...] e qui le cose si sono messe di nuovo [...] per me molto male». Alla notizia del padre morente sul letto d’ospedale il narratore si trova a Roma, lavora per il cinema e vive «benone sia di anima che di corpo». Torna per assistere il padre al suo paese d’origine, dove lo attendono la madre e le cinque sorelle: trova il padre degente in ospedale, con un «tumore esteriorizzato là sulla pancia». Questi muore proprio quando il narratore è appena ritornato a Roma, tranquillizzato dal medico curante: il senso di colpa nei suoi confronti esplode con un fragore che resterà dominante fino alla fine del romanzo.

Se il narratore idealizza da bambino la figura paterna come il «bene che sconfigge il male», un padre «forte e massiccio e praticamente invincibile», quell’immagine è destinata a cambiare nel tempo: egli caricherà sulle spalle del giovane Berto il peso delle proprie aspettative, un padre minaccioso e austero che rinfaccia al figlio i sacrifici fatti per lui, al punto da profetizzarne la galera: «gridava che era stufo di dar la vita per mantenere certa gente che poltriva fino a mezzogiorno, gridava che non ne poteva più di sfamare certi lazzaroni che senza fallo sarebbero finiti in galera per il disonore della famiglia [...]». Da qui prende le mosse il debito simbolico che il narratore porterà sulle sue spalle per sempre, nonché quel contrapporsi di affetti contrastanti verso il padre, dall’adorazione infantile allo «sbalzo in giù nella scala dei valori diciamo pure mitologici», fino al «ritorno della sua strapotenza» successivo alla sua morte.

Dal momento della sua improvvisa scomparsa, si tratterà per il narratore-Berto di fronteggiare una vera e propria persecuzione ideale: il Padre che è in lui lo tormenterà con un senso di colpa inestinguibile, insieme al quale si sviluppa un inarrestabile processo di identificazione che sgorga come forza invisibile e malefica dalle fotografie che il narratore aveva scattato al padre ormai defunto nella bara. Significativamente, in un momento di estremo dolore fisico causato dalla nevrosi, il padre-carabiniere si riveste di assonanze divine[4]: «padre mio perché non allontani da me questo calice, dico padre che sei nei cieli e non tu che stai nella tua cassa di noce che m’è costata invano un occhio della testa, vedi quanto seni entrato in me padre terreno se penso ai quattrini anche nei limiti estremi dell’agonia [...]». La nevrosi dell’io narrante ha dunque origine dall’inflessibile condanna paterna che grava sulla sua esistenza, dal senso di inestinguibile inferiorità e di inadeguatezza di cui non saprà mai liberarsi, un senso di colpa ancestrale che lo fa sentire «consapevole, giudicato e condannato dal destino».[5]

La Legge che conduce il narratore-Berto al terremoto psicofisico della nevrosi è allo stesso tempo ciò che produce il suo desiderio, ciò che lo spinge a cercare senza sosta un soddisfacimento che non troverà mai.

 

  1. La spinta desiderante: l’ambizione di gloria

 

Nel mio inconscio c’era qualcosa che diceva «sta a vedere che sei capace di scrivere opere d’arte» [...] L’ambizione di scrivere un capolavoro alimentava il male, e invero finché non fossi riuscito a soffocare quella smania di gloria postuma era del tutto improbabile che riuscissi a raggiungere la condizione spirituale diciamo pure.

 

La travagliata esistenza di cui il narratore-Berto ci dà conto è attraversata in larga parte dall’ossessione per il raggiungimento della gloria, un desiderio che assume diverse forme ma che resta prepotente centro di gravità di ogni sua azione. La decisione giovanile di partire per l’Abissinia, che «era un’ottima occasione per conquistare insieme al resto anche morte e gloria», l’ambizione dell’età adulta di realizzare «il capolavoro che mi darà gloria», sono diverse declinazioni di un’unica insistente aspirazione: colmare il vuoto che il narratore avverte al centro del suo essere. La gloria è difatti per l’io narrante cosa ben diversa dal semplice successo:

 

Ecco tutti dovranno dire quest’uomo per quanto figlio di un modesto cappellaio è l’artista interprete della nostra epoca i posteri capiranno il nostro modo di pensare e vivere, in fondo pretendo solo questo non necessariamente ricchezze e fama passeggere e redditizia, io punto alla gloria che può venirmi anche dopo morto però lo so bene anche da vivo se mi verrà la gloria dopo morto.

 

Si tratta di una tensione costante e inesausta verso un Ideale, il suo personale modo di rispondere al desiderio dell’Altro, con la tipica conflittualità dell’ossessivo. È il desiderio di affermarsi agli occhi dei «radicali», odiati per il loro impegno civile che ne celava lo snobismo, e segretamente invidiati per la posizione sociale raggiunta («tutte persone che almeno secondo la mia opinione avevano più fama e fortuna di quanto non meritassero», e inoltre «erano gente magari senza volerlo boriosa tanto che non si sapeva mai se salutarli o no per non correre il rischio di salutare a vuoto»); nondimeno affermarsi agli occhi del padre, verso il quale abbiamo visto essere principalmente rivolto il debito, materiale e simbolico, che l’autore sente di dover ripagare .

Un obiettivo che si rivela quasi sacrale: è l’esigenza di qualcosa di assolutamente superiore e incontestabile, un desiderio affannoso e perseverante di soggettivazione destinata al continuo fallimento. Il rovello di un’ambizione che non troverà mai pieno compimento assume i caratteri di una figura introdotta da Jacques Lacan nel Seminario VII[6], dedicato all’etica della psicanalisi: si tratta della Cosa (das Ding), un luogo di godimento impossibile, destinato a rimanere irraggiungibile. Emblema di tale tensione è per Lacan la figura di Antigone, colei che trasgredisce le leggi della città e dà la vita per seppellire il fratello Polinice, nemico della patria. Antigone resta fedele al suo desiderio poiché il fratello per lei è un unicum, unicità assoluta che causa in lei il desiderio che la rende un soggetto; allo stesso modo, ciò intorno al quale ruota l’esistenza del narratore-Berto è l’Ideale della gloria eterna, che si concretizza ora nella fantasticata morte eroica in guerra, ora nella scrittura del «romanzo magari imperituro»[7]. Un luogo tragico, come la fine di Antigone, come quella del nostro protagonista.

Il pioniere della equivalenza fra desiderio e soggettività, Baruch Spinoza, illumina la questione dell’ambizione al punto da considerarla il desiderio «dal quale tutti gli affetti sono alimentati e corroborati». Nessuno può dirsi immune dal desiderio di essere riconosciuto dall’Altro. Spinoza cita a proposito Cicerone: «anche il migliore è guidato in massimo grado dalla gloria. i filosofi appongono il proprio nome anche sui libri che scrivono per teorizzare il disprezzo della gloria».[8] La relazione con l’altro da sé è un passaggio necessario per Spinoza, nel momento in cui quest’incontro accresce la «potenza» degli individui, che possono perseverare nel proprio «sforzo» (conatus) all’esistenza in maniera più ricca e complessa: essa è principalmente imitazione, tensione a fare in modo che ciò che facciamo sia in naturale accordo con quanto abbiamo intorno. Questo “naturale” sforzo di compiacere gli altri è appunto ambizione, «soprattutto quando ci sforziamo così intensamente di piacere al volgo [...] con danno nostro o degli altri; altrimenti suole chiamarsi umanità».[9]

L’appetito di fare ciò che piace agli altri uomini può avere una duplice declinazione: laddove sia diretto a fare il bene altrui come il proprio è un affetto “attivo”, che accresce la potenza individuale perché accresce quella comune, in un vincolo di amicizia; laddove invece si presenti come una ricerca autoriferita di gloria, a discapito del bene collettivo, non è altro che vanagloria. Essa è l’estremo dell’insocievolezza, e non a caso il narratore-Berto non incontra sulla sua strada neanche una figura che gli sia sinceramente amica, vive una solitudine estrema e inconsolabile, e in quella solitudine chiuderà il cerchio della sua esistenza. Egli racchiude in sé le due figure che Spinoza descrive come le due degenerazioni dell’ambizione: il superbo e l’abietto, colui che stima se stesso più del dovuto (il narratore convinto di poter scrivere il capolavoro che segni un’epoca) e l’abietto (lo stesso narratore che si sente costantemente inferiore agli altri), manifestazioni uguali e contrarie di un desiderio immoderato, debordante e solitario.

Per ridimensionare l’immagine del padre e l’ossessione altrettanto ingombrante della gloria che lo avrebbe riscattato, l’io narrante incontra la psicoanalisi. L’asfissiante ombra paterna che aleggia sul povero Berto troverà il suo contraltare nella figura del «vecchietto», l’analista grazie al quale egli riuscirà, per mezzo del transfert psicanalitico, a dare nuova significazione ai suoi affanni. Poco più che un respiro di sollievo.

 

  1. Verso la cura, oltre la cura

 

Dio mio sta’ a vedere che questa psicoanalisi non è che una montagna di balle.

 

«Mi pareva di avere alle spalle Svevo e Gadda, ed era a mio avviso una buona compagnia», dice Berto nell’Appendice a Il male oscuro. Riferimenti inequivocabili: se La cognizione del dolore era «un aborto di romanzo, ma mirabile descrizione d’un nevrotico», La coscienza di Zeno è il grande antenato della letteratura psicanalitica. Il testo di Berto ci mostra l’abisso nella sua crudezza, è un dolore psichico che si fa carne; la psicanalisi giunge in soccorso dell’io narrante per alleviare quel dolore.

Berto sceglie la terapia psicanalitica animato dal bisogno vitale di reagire a quel dolore, spinto da una simultanea diffidenza nei confronti del lavoro analitico. Il fallimento di ogni trattamento precedente era sotteso dal pensiero “magico” del narratore, che riteneva che il padre reale lo perseguitasse dopo la morte, che lo punisse per la sua assenza, che facesse realmente in modo che le sue nefaste profezie per il figlio si avverassero. Le manifestazioni iniziali del male sono d’altro canto interpretate come puramente fisiologiche: il «rene mobile» che gli provocava fitte lancinanti, l’infiammazione delle «cinque vertebre lombari» che lo costringeva a rantolare sul pavimento in preda al panico. Affronta varie strane terapie, subisce un intervento chirurgico del tutto inutile, in un drammatico e deliziosamente umoristico climax di sconforto («accidenti se è bella questa clinica [...] proprio il posto giusto per venirci a crepare senza averne l’impressione»). Così Berto sceglie la psicanalisi, preferita all’elettroshock «a causa di un forse eccessivo riguardo al mio cervello», e anche per un «segreto bisogno di sostituire in qualche modo il padre morto, affinché il conflitto [...] avvenisse con un essere vivo e ragionevole».

L’incontro col «vecchietto» (epiteto affettuoso e allo stesso tempo indicativo della funzione paterna che va a ricoprire) permette a Berto di liberarsi di quel pensiero magico che lo incatenava a una radicale incomprensione del suo stato. Per mezzo della cura può chiamare la sua nevrosi per nome, può dare una nuova significazione alla sua condizione psichica: «Ecco dunque che io stesso comincio a ragionare in termini psicoanalitici e non più con quella smania di razionalismo realista [...] ora riesco in verità a viaggiare direi agevolmente nelle ipotesi dell’inconscio nelle diatribe tra l’Io e l’Es e il Super-Io»; può interpretare la violenza della legge interiore che lo ha sempre accompagnato come quella di un Super-Io che ha «fagocitato tutto intero un maresciallo d’Arma» rendendolo un uomo del tipo «coattivo», dove «predomina il Super-Io che staccandosi dall’Io genera nell’individuo un’alta tensione con proclività a fregarsene del mondo esterno ma con spiccata dipendenza interiore e paura della propria coscienza».

Comprendere e ri-significare la propria condizione sono ottimi frutti dell’analisi. L’io narrante si libera parzialmente delle tenaglie che gli rendono impossibile la vita e gli affetti, riesce a ridimensionare la sua ambizione di gloria e sembra voler «reinserirsi produttivamente nella società e fruire della gioia di vivere». Ciò nonostante la riconciliazione col mondo non avviene. Quando sembra ormai pronto a terminare l’analisi, scopre il tradimento della moglie: il dolore resta dolore e non diventa angoscia (che sarebbe una prova del parziale successo dell’analisi), il narratore non regge l’urto, torna a salutare la vecchia madre e si rifugia nell’ultimo lembo di terra della penisola che il padre decantava come il paradiso terrestre, le terre calabresi dalle quali può osservare le coste siciliane in solitudine fino alla fine dei suoi giorni. Può così dare alle fiamme i capitoli del suo bramato capolavoro insieme alle fotografie del padre: l’identificazione è ormai compiuta, la sua ricerca di un centro si spinge oltre la civiltà, rivolta all’infinito.

Il narratore-Berto mostra così l’utilità e i limiti della (sua) esperienza psicanalitica. Riconosce in un primo momento il buon esito del trattamento, che gli consente un miglior adattamento al mondo esterno, ma lo smentisce nei fatti, abbandonando ogni affetto e conducendo altrove la sua personale ricerca. L’esito ultimo della ricerca dell’io narrante è una sostanziale critica alle possibilità “adattative” o “disciplinari” dell’analisi, una critica che avrebbe trovato di lì a poco un’ampia risonanza. Gilles Deleuze e Félix Guattari poco dopo gli eventi del Sessantotto avrebbero mosso nell’Anti-Edipo[10] un importante attacco al progetto freudiano: pur ammettendo che l’opera di Freud avesse liberato la «produzione desiderante» dell’inconscio, inteso come «macchina pulsionale», subito lo avrebbe riavvolto fra i lacci della legislazione edipica, lo avrebbe «territorializzato» al punto da inibire il pieno dispiegarsi della potenza del desiderio.

È probabile che Deleuze avrebbe considerato inevitabile lo scacco in cui si imbatte l’io narrante, e che l’analisi freudiana non potesse condurlo altrove che a un tentativo fallimentare di “adattarsi” al mondo circostante, legittimando la rinuncia pulsionale. Ma avrebbe potuto il nostro narratore liberarsi del tutto dalle briglie della Legge? Jacques Lacan denuncia con altrettanta forza l’analisi intesa come «ortopedia dell’Io», che non può mirare a una normalizzazione del soggetto: la specificità della cura psicanalitica è quella di far «addivenire l’Io, laddove è l’Es», far sì che il soggetto acceda al luogo dell’inconscio. Per Lacan è tuttavia inscindibile il legame fra legge e desiderio: laddove Deleuze vede nell’Edipo l’ennesimo laccio imposto dalla società (capitalistica e repressiva) intorno al desiderio, per Lacan è proprio da lì che il desiderio trae origine. Il desiderio poggia sul vuoto strutturale del soggetto.

Se quella “dionisiaca”, vitalistica è certo una tendenza del nostro narratore (la tormentata sessualità, l’ostilità all’istituzione del matrimonio), è pur vero che terminata l’analisi il narratore assume su di sé tutta la tragicità della sua condizione, fino al ritiro dal mondo delle relazioni e la solitaria ricerca dell’Altro, sempre più tendente all’assoluto, nelle terre calabresi. Giunge ad abbandonare l’unico affetto sincero che gli è rimasto, quello per la figlia Augusta, che lo andrà a trovare «o meglio conoscere poiché ben poco si ricorda di quando abitavo a casa», e la guarda andare «con cuore stretto perché è tale e quale la madre sua quel giorno sulla fontana di Piazza del Popolo» quando la vide la prima volta.

Un esito tragico e solitario, ma fedele in qualche modo al desiderio che da sempre sembra aver abitato il nostro narratore. Quella che appare una rinuncia alla vita in realtà lo è forse solo in apparenza: il narratore cerca infine di godere di un luogo ultimo e ineffabile, sempre lambito e irraggiungibile. 

 

 

 

[1] Giuseppe Berto, Il male oscuro, Milano, Rizzoli 1964. Nel presente lavoro facciamo riferimento a Id., Il male oscuro, Neri Pozza, Vicenza 2016.

[2] Per avere un’idea dell’aspro trattamento riservato al romanzo di Berto da buona parte della critica, si veda Ferruccio Monterosso, Come leggere “Il male oscuro”di Giuseppe Berto, Mursia, Milano 1977, pp. 88 e sgg.

[3] Da un’intervista a Claudio Toscani, in Il ragguaglio librario, vol. 5, maggio 1968, p. 108.

[4] Sulla scia dei lavori di René Girard, Aleramo Paolo Lanapoppi interpreta la storia del narratore-Berto come un tentativo di colmare il bisogno di assoluto: «Si tratta del bisogno di uscire dal mondo dell'immanenza, e di ancorarsi a qualcosa di certo, stabile e rassicurante; l'uomo metafisico assolutizza tutto ciò che incontra, e trasforma i suoi simili in divinità o il frutto ideale dei suoi pensieri in capolavoro immortale». A.P. Lanapoppi, Immanenza e trascendenza nell‟opera di G. Berto: la realtà di dentro, in Modern Languages Notes, vol. 87, gennaio 1972, p. 78-104.

[5] Salomon Resnik, Berto e la funzione del padre, in Giuseppe Berto. La sua opera, il suo tempo, ,a cura di Everardo Artico e Laura Lepri, Olschki Editore, Firenze 1989.

[6] Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicanalisi, Einaudi, Torino 2008.

[7] L’espressione compare in G. Berto, Colloqui col cane, Venezia, Marsilio 1986, p. 132; è inoltre il titolo di un bell’articolo di Alberto Bassan dedicato al tema della “gloria”, Un romanzo magari imperituro, in Giuseppe Berto. La sua opera, il suo tempo, op. cit., p. 85 e sgg.

[8] Baruch Spinoza, Etica, parte III definizione 44, ed. it. a cura di E. Giancotti, Editori riuniti, Roma 1978.

[9] ivi, parte III, proposizione 29, scolio.

[10] G. Deleuze, F. Guattari,  Capitalismo e schizofrenia. L’Anti-Edipo, Torino, Einaudi 1975.