Venerdì, 30 Giugno 2017 08:17

Antenati ottocenteschi del doppio pirandelliano: "Sind Ichs und Ich" - II parte

Scritto da Ruben Donno
René Magritte, "Le double secret", 1927, Museo Nazionale d'Arte Moderna di Parigi René Magritte, "Le double secret", 1927, Museo Nazionale d'Arte Moderna di Parigi

Prosegue il ciclo di articoli dedicato al 150° compleanno di Luigi Pirandello.

 

Un altro tratto che accomunerebbe Pirandello de Il fu Mattia Pascal e la letteratura romantica tedesca sul tema del doppio è la deformità fisica che, descritta minuziosamente, rappresenterebbe non solo una sorta di catalizzatore per il dipanarsi degli avvenimenti successivi della vicenda, ma anche uno spartiacque tra un prima e un dopo, un tratto distintivo tra il bene e il male, tra l’antagonista e il protagonista. In poche parole: l’alterità si concretizza mediante un connotato fisico.

 

Si legga di Mattia Pascal, il nuovo Adriano Meis, intento a costruirsi una nuova forma, «sicché, alla fine, [...] possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d’essere stato due uomini»:[1]

 

Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e radicale alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed ecco una nuova ragione d’odio per lui! Il mento piccolissimo, puntuto e rientrato, ch’egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell’occhio! «Ah, quest’occhio» pensai, «così in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d’occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendermi più amabile l’aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e cappellaccio a larghe tese».[2]

 

Proprio quel naso, «che sembrava, anche in un certo senso conosciuto»,[3] perso dal signor Kovalèv e da lui incontrato, successivamente, in carrozza e uniforme, rappresenterà, in Uno, nessuno e centomila, il movente dell’intera vicenda di Vitangelo Moscarda. Egli, infatti – in seguito all’osservazione che la moglie fa sul suo naso –, resosi conto di come l’immagine che sino a quel momento si era creato di sé non corrispondeva a quella che gli altri avevano di lui, decide di rifiutare categoricamente ogni plausibile identità, vivendo ogni giorno in modo nuovo.[4]

Anche per i sosia protagonisti de Gli elisir del diavolo di Hoffmann e del Setteformaggi di Jean Paul, l’elemento fisico d’identificazione e di riconoscimento sembra possedere un’estrema importanza. Se per Medardo, infatti, il segno a forma di croce risulta essere necessario ai fini del riconoscimento dall’antagonista durante un processo intentato ai suoi danni («Ora però, vedendoselo davanti, riconosce quanto questi sia sostanzialmente diverso dal signor Leonardo, nel modo di parlare, nello sguardo, nell’andatura e nel personale. Fu scoperto anche quel notevole segno a forma di croce, a sinistra sul collo, che tanto scalpore destò nel vostro processo»),[5] il neo accanto all’orecchio sinistro dell’avvocato Setteformaggi, proprio perché risulta essere un contrassegno per distinguerlo dal sosia, viene abilmente cancellato dal protagonista in virtù di una fratellanza che non conosce distinzioni:

 

Per questo non mi sarebbe dispiaciuto se Donacorpo non fosse stato zoppo, perché non lo si potesse affatto distinguere da Setteformaggi, tanto più che questi aveva invece abilmente cauterizzato e cancellato mediante l’applicazione di un acido l’unico contrassegno che avrebbe potuto distinguerlo dall’altro, e cioè un neo piramidale accanto all’orecchio sinistro: piramidale nel senso di triangolo o di segno zodiacale o di coda di cometa rovesciata o – vulgo – d’orecchio d’asino.[6]

 

Sin dall’antichità il tema del doppio ha sprigionato un grande potenziale simbolico. Le famose commedie plautine, ad esempio, dimostrano come il tema del sosia, più specificamente quello dei gemelli (simillimi), conseguiva enorme successo soprattutto per il suo sviluppo comico e grottesco. Chiari esempi possono, a tal proposito, risultare i Menecmi e Anfitrione. Nel primo, il tema del doppio è, infatti, sviluppato sull’espediente della somiglianza perfetta che provoca fraintendimenti e momenti di esilarante comicità – questa fortunata struttura renderà Plauto il maestro della “commedia degli equivoci” –, mentre, nel secondo, l’identità rubata scatena continui incontri-scontri tra i doppi.[7] L’importanza del nome è evidente nelle commedie plautine ed è essenziale, ad esempio, al fine del riconoscimento conclusivo dei gemelli. Se, infatti, per Pirandello, il nome è la prima cristallizzazione all’interno di una forma, o la trappola che blocca l’eterno fluire della vita, per Plauto, invece, esso è dirimente per la risoluzione dell’equivoco, che aveva inizialmente portato uno dei fratelli ad assumere in modo parziale l’identità dell’altro attraverso l’acquisizione del nome:

 

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.[8]

 

Con l’affacciarsi della nuova modernità e del “disagio nella civiltà”, come affermava Sigmund Freud, l’uomo acquisisce in forma stabile quella scissione che lo aveva caratterizzato nelle epoche precedenti e perde di vista l’assoluto valore della vita, estraniandosi dalla società che lo circonda e decidendo, come nel caso di Mattia Pascal, di abbandonare la sua vecchia identità di uomo ormai perso nel buio del relativismo, per acquisirne deliberatamente un’altra; ma anche quest’ultima, alla fine, lo renderà incapace di vivere al di fuori delle convenzioni sociali, mostrando, difatti, quella «fissità, l’inderogabilità di una sagoma, se si vuole, di destino, che Mattia è costretto meccanicamente a replicare».[9] Proprio la differenza ormai insanabile tra classicità e modernità dell’uomo contemporaneo è rappresentata dalla descrizione fatta dal signor Paleari dello «strappo nel cielo di carta del teatrino»,[10] con le sue stelle, simbolo dell’epoca classica stabile e certa irrimediabilmente lacerata dall’avvento della modernità, portatrice, al contrario, di illusioni e smarrimento.

In questo senso, una chiara allegoria della condizione umana, divisa tra bene e male, può essere il visconte Medardo, protagonista del romanzo Il visconte dimezzato di Italo Calvino. Demolendo la convinzione che l’uomo abbia soltanto un unico punto di vista per osservare il reale, l’individuo sdoppiato rappresenterebbe proprio la molteplicità delle prospettive conoscitive che l’uomo contemporaneo possiede e che utilizza per esaminare la realtà che lo circonda. L’uomo contemporaneo è anche l’intellettuale che preferisce staccarsi ironicamente dalla realtà e osservarla con la giusta distanza, quel barone rampante o “forestiere della vita” pirandelliano che ha capito il gioco e lo osserva con straniante lontananza. Ma è anche colui che, comprendendo come sia completamente impossibile avere una conoscenza razionale e oggettiva del mondo, si mantiene, invece, in equilibrio tra la consapevolezza di vivere in una realtà sfuggente, ambigua e informe, e la fiducia nelle proprie forze capaci di cambiare tale realtà, assumendo la figura del cavaliere inesistente, il quale, toltosi l’armatura, come la maschera per l’uomo pirandelliano, è un “nessuno” fatto soltanto di pura razionalità, in grado, dunque, di abbandonare la propria corporeità per essere, al contrario, pura essenza ontica: «Ma io non sono un pazzo a modo vostro, dottore! Io so bene che quello [indica il Di Nolli] non può esser me, perché Enrico IV sono io: io, qua, da venti anni, capite? Fisso in questa eternità di maschera!».[11]

 

[1] Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 144.

[2] Ivi, pp. 144-145. Debenedetti spiega come Pirandello, non sapendo quale “uomo nuovo” far interpretare allo sventurato Mattia Pascal, non poteva far altro che rappresentarlo negativamente, far sì, cioè, che egli incarnasse l’indecisione del suo creatore e, al contempo, l’infelicità del protagonista e, infine, che tutto ciò fosse dimostrato dalla bruttezza dei suoi connotati fisici, da quella “fisiognomica del malessere” propria di chi «ha messo tra parentesi la vita»: «Erano i connotati [...] difformi e disarmonici che parevano accentuare, motivare le loro bruttezze, in quanto rivelavano una disarmonia col mondo, con le condizioni generali e particolari di una vita in cui quell’uomo era immerso», debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 336.

[3] Gògol, Il naso, cit., p. 56.

[4] Anche Adriano Meis, intavolando un discorso a proposito della coscienza e della relazione di quest’ultima con gli altri, dirà: «Nella coscienza, secondo me, insomma, esiste una relazione essenziale... sicuro, essenziale, tra me che penso e gli altri esseri che io penso. E dunque non è assoluto che basti a se stesso, mi spiego? Quando i sentimenti, le inclinazioni, i gusti di questi altri che io penso o che lei pensa non si riflettono in me o in lei, noi non possiamo essere né paghi, né tranquilli, né lieti; tanto vero che tutti lottiamo perché i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre inclinazioni, i nostri gusti si riflettano nella coscienza degli altri», Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 163.

[5] Hoffmann, Gli elisir del diavolo, cit., pp. 209-210.

[6] Jean Paul, Setteformaggi (Siebenkäs), Milano, Frassinelli, 1998, pp. 35-36.

[7] «MERCURIO: Come farei a non sostenerlo quando Sosia sono io? SOSIA: Nel nome di Giove, giuro di essere io Sosia e di non mentire. MERCURIO: E io giuro nel nome di Mercurio che Giove non ti crede. So che crederà più a me, anche senza giuramenti, che a te se giuri. SOSIA: Chi sono io allora, se non sono Sosia? Lo chiedo a te. MERCURIO: Quando io non vorrò più essere Sosia, allora siilo pure tu. Ma ora, dal momento che lo sono io, le prenderai se non te ne vai di qui, innominato! SOSIA: (tra sé) Per Polluce, quando lo guardo e ripenso al mio aspetto, a come son fatto io (e lo so bene, perché mi sono guardato spesso nello specchio) devo dire che è proprio identico a me. Ha un cappello, un vestito come li ho io, precisi; le gambe poi, i piedi, la figura, il taglio di capelli, gli occhi, il naso, la bocca, le guance, il mento, la barba, il collo: tutto identico. Che dire ancora? Se ha anche la schiena piena di cicatrici, la somiglianza è al colmo. Eppure, se ci penso, io sono quello di sempre: conosco il mio padrone, conosco la nostra casa. Sono a posto di cervello e di sentimenti. Non devo dar retta a quello che dice. Batterò alla porta», Plauto, Amphitruo Mercator, Milano, Mondadori, 2013, p. 43, vv. 435-449. Il corsivo è nel testo.

[8] Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 2014, p. 142.

[9] Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 384.

[10] Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 207.

[11] Luigi Pirandello, Enrico IV, in Maschere Nude, Milano, Mondadori, 1997, pp. 864-865. Il corsivo è nel testo.