Mercoledì, 28 Giugno 2017 10:00

Antenati ottocenteschi del doppio pirandelliano: "Sind Ichs und Ich" - I parte

Scritto da Ruben Donno
Diane Arbus, "Identical twins", Roselle, N.J. 1967. Diane Arbus, "Identical twins", Roselle, N.J. 1967.

Centocinquant'anni fa, il 28 giugno 1867, nasceva Luigi Pirandello. Per ricordare questo anniversario pubblichiamo una serie di articoli a lui dedicati.

 

«Una delle cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: mi chiamavo Mattia Pascal».[1] Forse il più celebre romanzo di Pirandello esordisce con le lapidarie parole del protagonista, cosciente di non sapere più chi sia. Con l’autoconsapevolezza del lucido narratore e, al contempo, con l’esperienza dello sventurato protagonista dei fatti narrati, Mattia Pascal, dopo questa breve e straniante premessa, racconta le mirabolanti vicende che investirono la sua apparentemente normale, duplice, esistenza.

Chiuso all’interno della trappola sociale tipica della piccola borghesia, vale a dire una famiglia oppressiva, composta da moglie e suocera, e un lavoro frustrante – quello di bibliotecario del suo piccolo paese, Miragno, in Liguria – il protagonista sembra non avere via d’uscita dall’inferno che lo opprime.[2] Un giorno, fuggendo via da casa, travolto da un insolito colpo di fortuna, vince una cospicua somma di denaro alla roulette di Montecarlo e viene a conoscenza, per puro caso, del ritrovamento, avvenuto qualche giorno prima, del corpo di un uomo suicida, riconosciuto in seguito dalla moglie e dalla suocera in quello del marito.

L’assurda somiglianza del povero annegato che ha ingannato moglie e suocera e la liberazione dal duplice inganno che costringevano il protagonista spingono Mattia Pascal a cancellare del tutto la propria identità, ad abbandonare quella «condizione di uomo scontento»,[3] e a forgiarne una nuova, quella di Adriano Meis, il quale, a metà del romanzo, entra prepotentemente in scena come nuovo protagonista del racconto.[4]

Leggendo attentamente la prima parte del romanzo, si nota subito come, a più riprese, l’elemento del doppio (Doppelgänger) assuma una rilevante importanza. Seppur Pirandello non avesse mai chiaramente esplicitato come Il fu Mattia Pascal fosse un romanzo sul doppio, possiamo dire con assoluta certezza come egli fosse stato influenzato da una certa letteratura, vale a dire quella romantica, e in particolare tedesca, concentrata, in modi differenti e in base ai molteplici interessi e alle personali vicende biografiche dei singoli autori, sul tema del doppio.[5] In apparenza futile o di secondario interesse, in realtà, proprio quella serie di consistenti analogie – strutturali, tematiche e via dicendo, presenti all’interno del romanzo pirandelliano – richiamerebbero le lezioni dei romantici a proposito di una tematica affrontata dall’antichità classica sino al più tardo Ottocento, per poi sfaldarsi, ed essere sporadicamente ripresa, come in questo caso, nel corso di tutto il Novecento.[6]

Massimo Fusillo, cercando di dare una definizione quanto più chiara possibile del tema, parlerà del doppio in questi termini:

 

[...] In un contesto spazio-temporale unico, cioè in un unico mondo possibile creato dalla finzione letteraria, l’identità di un personaggio si duplica: un uno diventa due; il personaggio ha dunque due incarnazioni: due corpi che rispondono alla stessa identità e spesso allo stesso nome.[7]

 

Questa unità ridotta a dualità ha lo scopo di scardinare quel modo univoco che l’uomo ha per leggere e interpretare il mondo, fondato, essenzialmente, sui principi aristotelici di identità e non contraddizione e di aprirsi, invece, a quella totalità indistinta, magica e atavica, dove i contrari convivono e che Freud, successivamente, definirà “inconscio”.

Attraverso le figure del doppio, la letteratura ha scomposto l’io in diverse zone conflittuali della coscienza, perpetuandolo nel tempo o proiettandolo negli altri; queste due entità distinte hanno assunto spesso forme diverse, in base alle istanze creative del singolo scrittore. Basti pensare al doppio apparente, a quel tipo di sdoppiamento che avviene all’interno di un singolo individuo, senza una duplicazione effettiva e che, a sua volta, può assumere i tratti di una possessione demoniaca in un contesto magico e fantastico, oppure ai sintomi di una dissociazione identitaria con punte di schizofrenia in ambito scientifico e psichiatrico; è ciò che il lettore avverte leggendo, per esempio, Il sosia di Dostoevskij e che verrà, in parte, confermato nel suo triste epilogo con l’internamento in manicomio del signor Goljadkin:

 

«Voi ricevere alloggio governativo, con legno, luce e servizio, del che siete indegno» sonò severa e terribile, come una condanna, la risposta di Krest'jan Ivanovič. Il nostro eroe gettò un grido e si afferrò il capo. Ahimé! Già da un pezzo avevo questo presentimento.[8]

 

Se per il doppio apparente l’ambientazione varia in base alle necessità del suo autore, per il doppio onirico, invece, la divisione avviene sempre nel sogno. L’Orlando di Virginia Woolf ne è un chiaro esempio, collegato, non a caso, con il tema della reincarnazione. Se, invece, ci troviamo davanti a un personaggio del tutto identico a un altro morto, la “fortunata” disavventura di Mattia Pascal, il protagonista redivivo del romanzo pirandelliano, rientra appieno in questa categoria.

Un’ultima ma non per questo meno importante tipologia di doppio risulta essere quella che si instaura tra un personaggio umano e un oggetto esterno. Si pensi, ad esempio, alle immagini capaci di duplicare la realtà, a Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde o alle svariate raffigurazioni pittoriche presenti ne Gli elisir del diavolo di E. T. A. Hoffmann;[9] sino al più comune specchio, già presente nella mitologia classica come elemento per definizione di duplicità.[10]

Un altro requisito essenziale e ricorrente nel trattamento letterario del tema è l’ombra. Gustav Jung parla di essa come di una parte nascosta e negata, che ha la funzione non solo di contenere tutti quei tratti poco positivi della personalità umana, ma anche tutte le aspirazioni e i desideri di un individuo. Imprescindibile dalla persona – quella parte, al contrario, più chiara e visibile di noi –, essa, nel corso della storia e secondo le più disparate interpretazioni, rappresenterebbe allegoricamente la patria, la famiglia, la buona condotta sociale di ogni individuo, in poche parole, la prima oggettivazione dell’animo umano. Sembrerebbe essere il caso del protagonista di uno dei più famosi racconti di Adelbert von Chamisso, Peter Schlemihl, colui che, dopo aver concluso uno scambio con una misteriosa figura diabolica vestita di grigio, si accorge di come la propria ombra valesse, per se stesso ma soprattutto per gli altri, molto più di un’eterna ricchezza[11] («Quanto valga un’ombra l’umorista sa bene: il Peter Schlemihl di Chamisso informi»).[12]

Vista come perdita di una parte di sé, la dura sorte capitata a Schlemihl investe, sul fronte opposto, il povero Kovalèv, protagonista del racconto pietroburghese Il naso di Gògol. Tutte le aspirazioni e i sogni del protagonista sembrano, infatti, non solo sfumare improvvisamente nel nulla, insieme al proprio naso, ma anche realizzarsi separatamente in quel doppio, ormai distinto, strano personaggio:

 

Quale non furono lo spavento e nello stesso tempo lo stupore di Kovalèv quando in lui riconobbe il proprio naso! Davanti a questo spettacolo insolito, così almeno gli parve, la sua vista si annebbiò; sentiva che poteva appena reggersi in piedi, ma decise di aspettare a qualunque costo il ritorno del naso nella carrozza, sebbene tremasse tutto come in preda a un delirio. Due minuti dopo, effettivamente, il naso uscì. Indossava un’uniforme ricamata in oro, con un grande colletto rigido; aveva pantaloni scamosciati e la spada al fianco. Dal cappello con le piume si poteva dedurre che si considerava in possesso del grado di consigliere di stato. Guardò da entrambe le parti, gridò al cocchiere «andiamo!» salì in carrozza e partì. Il povero Kovalèv per poco non uscì di senno. Non sapeva nemmeno che cosa pensare di un fatto così strano. Com’era possibile, in realtà, che il naso che sino al giorno prima era sulla sua faccia, che non poteva né camminare né andare in carrozza, adesso fosse persino in uniforme?[13]

 

Come osservatore attento della realtà duplice e caotica, Hoffmann attua una sottile critica antiborghese che non risulta essere estranea alla concezione umoristica pirandelliana.[14] Se da una parte, infatti, Hoffmann trae dal romanticismo quel senso di disillusione nei confronti della realtà contemporanea, attraverso, invece, quel filone filosofico-idealistico e mistico-esoterico, egli poté smontare la concezione di un Io sino a quel momento centro del mondo e suo creatore, e calarlo, al contrario, come protagonista, in quel mondo fiabesco e immaginario tipico degli scenari hoffmanniani.[15] Se però, per Jean Paul, la creazione del doppio rompe l’unità individuale[16] lasciando immutata la realtà circostante, per Hoffmann quella stessa realtà, anch’essa frantumata, viene messa in discussione e in ultimo sostituita da un mondo onirico e fantastico capace di recuperare la propria interezza mediante i suoi significati simbolici e metaforici (si pensi, ad esempio, al colore rosso e al sangue presenti ne Gli elisir del diavolo, simbolo biunivoco di redenzione e amore, o alla costante erotica preludio anche di perversione).

Infatti, uno degli elementi che appartiene alla concezione mistico-esoterica di Hoffmann è proprio la componente demoniaca. Da una parte vi è Medardo, il protagonista de Gli elisir del diavolo, che, nel corso di tutto il romanzo e quindi dell’intera sua personale vicenda, viene continuamente tentato dai piaceri demoniaci e viene guidato, in molte occasioni, dalla personalità malvagia del fratellastro; dall’altra vi è, invece, Adriano Meis, secondo protagonista per così dire de Il fu Mattia Pascal, che nasce dalla morte fittizia del suo creatore – nonché figura ladra, in un certo qual modo, dell’identità dell’uomo, «quell’ombra di vita, sorta da una menzogna macabra»[17] – e che, per volere di quest’ultimo, stanco ormai di reggere un gioco tanto fittizio quanto distruttivo, muore verso la fine del romanzo[18] («[...] si sarebbe chiusa degnamente, così, come una menzogna macabra!»[19]):

 

Io non dovevo uccider me, un morto, io dovevo uccidere quella folle, assurda finzione che m’aveva torturato, straziato due anni, quell’Adriano Meis, condannato a essere un vile, un bugiardo, un miserabile; quell’Adriano Meis dovevo uccidere, che essendo, com’era, un nome falso, avrebbe dovuto aver pure di stoppa il cervello, di cartapesta il cuore, di gomma le vene, nella quali un po’ d’acqua tinta avrebbe dovuto scorrere, invece di sangue: allora sì! Via, dunque, giù, giù, tristo fantoccio odioso! Annegato, là, come Mattia Pascal! Una volta per uno![20]

 

Ecco allora come «il suicidio-menzogna risolve il drammatico travaglio dell’esistenza-non esistenza del protagonista».[21]

Come è convenzione nei momenti in cui si tratta il tema del doppio, entrambi i racconti potrebbero, effettivamente, terminare con la medesima situazione: da un lato vi è la lotta, portata avanti per tutto il romanzo, all’interno della coscienza scissa dello stesso individuo, dall’altro tale conflittualità si esplica, verso la fine della storia, attraverso il duello, rappresentato con un certa aura di allucinazione e follia,[22] tra i due sosia, simboli antitetici di bene e male.

Per questi motivi, spiega Claudio Magris, attraverso un linguaggio di chiara «portata europea»,[23] Hoffmann ebbe modo di uscire da quell’isolamento provinciale, tipico di molti suoi scrittori coevi, e ottenere una risonanza europea all’interno del panorama culturale della sua epoca; ciò è dovuto, continua Magris, alla presenza, nelle opere dello scrittore tedesco, di una «molteplicità di piani; nel tema del sosia confluiscono ad esempio l’ironia anti-fichtiana, una vaga pre-intuizione dell’Es freudiano, dissociazione “pirandelliana” della personalità, suggestione narcisistica o edipica, proiezione oggettivata delle proprie componenti negative».[24]

 

[1] Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 1970, p. 53.

[2] Più volte il protagonista fa riferimento alla misera condizione esistenziale in cui è costretto: «Oppresso e fiaccato com’ero dalla doppia recente sciagura» – il riferimento è alla morte della piccola figlia e della madre – «[...] pensando alla mia vita d’un tempo, provai un grande avvilimento per me stesso. Eh che! Due anni di biblioteca, col contorno di tutte le altre sciagure, m’avevan dunque immiserito a tal segno il cuore?». Ivi, pp. 111 e 124. Debenedetti spiega come Mattia Pascal – non riuscendo più a vivere della “disponibilità” per gli altri, a «[...] guardarsi come personaggio estraneo a se stesso, alienato alle tragiche farse che la vita gli combina, o che lui stesso si combina nella totale assenza di una precisa vocazione umana» – preferisca prendere coscienza di come «quella vita mediocre che l’ha afferrato, fatto prigioniero coincide pienamente e anche dolorosamente con lui; ormai egli ha coscienza che corrisponda alla sua costituzione di inetto», Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento. La letteratura del nostro secolo in un grande racconto critico, Milano, Garzanti, 1998, p. 321.

[3] Ivi, p. 333.

[4] Proprio ora, nel clou della vicenda, Mattia Pascal ha la possibilità concreta di far coincidere quella doppia essenza, sino a quel momento discorde, all’interno di un’unica persona, «di fabbricarsi insomma un destino che permetta al se stesso attivo, partecipe della vita quotidiana, di esprimere il di là da se stesso, e non di doverne subire le pressioni incessanti e oscure come forze avverse, estranee, insoddisfatte, che contraddicono la modalità del suo manifestarsi e del suo comportamento. [...]  Di rifabbricarsi, dunque, mediante questo nuovo personaggio, una biografia che soddisfi le esigenze del suo oltre. Che trasformi quell’oltre, da corpo insieme estraneo e interno, da ospite bizzarro nocivo e insopportabile, nel vero nucleo della sua persona». Quest’imperdibile occasione, continua Debenedetti, viene immediatamente bruciata dal protagonista, esule, ancora una volta, nella società che lo aveva, già precedentemente, escluso, ivi, p. 338. Il corsivo è nel testo.

[5] Cfr. Carlo Heinemann, Storia della letteratura tedesca, Milano, Hoepli, 1925, pp. 292-327.

[6] Tale specifico topos, nel corso del Novecento, più che scomparire, si affianca ad altre importanti tematiche che non esitano a farsi spazio all’interno del panorama culturale europeo.

[7] Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Modena, Mucchi, 2012, p. 24.

[8] Fëdor Dostoevskij, Il sosia, Milano, Mondadori, 2009, p. 172.

[9] Oltre alle svariate pitture presenti ne Gli elisir del diavolo (il quadro raffigurante santa Rosalia, il ritratto di Francesco e i dipinti sulla vita di Medardo), anche nella rocambolesca vicenda di Peter Schlemihl la raffigurazione di sé assume un ruolo importante. Dopo aver perso non solo l’ombra, ma tutto ciò che essa significava, il protagonista chiede a un artista di dipingerla. Egli risponde allo sventurato dicendo che essa risulterebbe soltanto un mero sostituto per chi, come lui, prestava poca attenzione e attribuiva poco valore alla propria ombra: «“Professore”, continuai, “lei sarebbe forse in grado di dipingere, a un uomo che nel più sfortunato dei modi al mondo è stato privato della propria ombra, un’ombra posticcia?”. “Proprio quella”. “Ma”, mi chiese ancora, “per quale inettitudine, per quale negligenza costui ha potuto perdere la propria ombra?” “Come ciò sia accaduto”, replicai io, “è del tutto indifferente, comunque è andata così”. E mentendogli spudoratamente continuai: “In Russia, dove egli fece un viaggio l’inverno scorso, per via dell’eccezionale freddo gli si congelò l’ombra a terra in modo tale, che non gli riuscì più di riprendersela”. “L’ombra posticcia che io potrei dipingergli”, replicò il professore, “potrebbe essere soltanto un’ombra che egli, al minimo movimento, perderebbe di nuovo... soprattutto essendo una persona che, come si può dedurre dal suo racconto, aderiva tanto poco alla sua ombra innata; chi non ha ombra, non vada al sole, questa mi pare la cosa più ragionevole e più sicura”». Adelbert Von Chamisso, Storia straordinaria di Peter Schlemihl, Milano, Garzanti, 1999, pp. 24-25.

[10] Si leggano, a tal proposito, le considerazioni che Otto Rank fa sull’immagine attraverso le differenti superstizioni e nell’ambito della mitologia classica. Cfr. Otto Rank, Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Milano, Sugarco, 2009, pp. 69-90.

[11] «Non appena mi trovai solo nella vettura scoppiai a piangere amaramente. Allora forse nacque in me il sospetto che, se sulla terra l’oro vale più della virtù e del merito, l’ombra però possiede un valore più alto dell’oro stesso; e io, che prima avevo sempre sacrificato la ricchezza alla mia coscienza, mi trovavo ora ad aver dato via la mia ombra per il vile denaro». Chamisso, Storia straordinaria di Peter Schlemihl, cit., p. 19. Stessa sorte capitata ad Akàkij Akakièvič Bašmačkin, funzionario in una ditta di Pietroburgo e soggetto a derisioni e insulti nel momento in cui viene derubato del suo nuovo cappotto, oggetto che agli occhi degli altri sembrava essere di necessaria importanza “sociale”. Nel finale, il protagonista, metaforicamente morto di freddo, continuerà a vagare per le strade di Pietroburgo spaventando gli alti strati sociali e riprendendosi, in questo modo, la sua rivincita: «Portarono via Akàkij Akakièvič e lo seppellirono. E Pietroburgo rimase senza Akàkij Akakièvič, come se mai fosse esistito. Scomparve e si dileguò un essere che nessuno aveva difeso, che a nessuno era stato caro, per nessuno interessante, che non aveva attirato su di sé nemmeno lattenzione del naturalista, il quale pure non disdegna di infilare su uno spillo una comunissima mosca e di osservarla al microscopio, un essere che aveva sopportato docilmente tutte le irrisioni del suo ufficio ed era sceso nella tomba senza aver compiuto alcuna straordinaria impresa; però, verso la fine della vita, a questo essere era apparso un ospite luminoso sotto forma dun cappotto, un cappotto che per un istante aveva ravvivato la sua povera esistenza, ma sul quale poi sera abbattuta implacabile la sciagura, così come si abbatte sugli imperatori e i sovrani del mondo...». Nicolàj V. Gògol, Il cappotto, in I racconti di Pietroburgo, Milano, Garzanti, 1967, pp. 172.

[12] Luigi Pirandello, L’umorismo e altri saggi, Firenze, Giunti, 1994, p. 147. Inoltre, Mattia Pascal, una volta divenuto Adriano Meis, si rende subito conto di come l’inconsistenza della sua nuova identità lo renda un semplice “spettatore” della vita, incapace di acquisire sia una dimensione umana che civile e di essere, per questo motivo, nient’altro che un’ombra: «[...] Lusingandomi di poter diventare un altro uomo, vivere un’altra vita. Un altr’uomo, sì, ma a patto di non far nulla. E che uomo dunque? Un’ombra d’uomo! E che vita? Finché m’ero contentato di star chiuso in me e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male salvar l’illusione ch’io stessi vivendo un’altra vita; ma ora che a questa m’ero accostato fino a cogliere un bacio da due care labbra, ecco, mi toccava a ritrarmene inorridito, come se avessi baciato Adriana con le labbra d’un morto, d’un morto che non poteva rivivere per lei! Labbra mercenarie». Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., pp. 251-252.

[13] Nicolàj V. Gògol, Il naso, in I racconti di Pietroburgo, cit., pp. 60-61.

[14] La crisi dell’identità personale risente, secondo Pirandello, dei grandi processi storici messi in atto dalla realtà contemporanea – l’instaurarsi del capitale monopolistico, la formazione delle metropoli moderne e la diffusione delle macchine nelle grandi industrie – e vede la borghesia protagonista dell’affermarsi di queste tendenze spersonalizzanti all’interno della società di massa. A tal proposito, Serafino Gubbio, un operatore cinematografico estraneo alla vita e a ciò che gli succede intorno poiché rimane sempre dietro alla macchina da presa – il suo doppio malvagio, colui che ruba l’identità al protagonista riducendolo a “cosa” svuotata di energie vitali – può essere il personaggio chiave di tale dissociazione e della conseguente alienazione causata da tutti quei fattori tipici dell’era contemporanea e del “trionfo della macchina”: «Ma non odiano la macchina soltanto per l’avvilimento del lavoro stupido e muto a cui essa li condanna; la odiano sopra tutto perché si vedono allontanati, si sentono strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi», Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze, Giunti, 1994, p. 64. Il corsivo è nel testo.

[15] «Hoffmann ci sembra perciò estraneo a quel progressivo “affannarsi dell’Io” che, come ha scritto giustamente Sergio Lupi nel suo saggio giovanile, costituisce indubbiamente uno dei contrassegni del Romanticismo [...]: quel soggetto (Nathanael) che “pone” la realtà non è, a nostro avviso, il trionfante Io idealistico, creatore etico del reale, bensì piuttosto un “ego” freudiano, dalla psiche sconvolta; un individuo, insomma, allucinato e disperato, travolto dalle forze oscure dell’inconscio, non un Io creatore», Claudio Magris, Tre studi su Hoffmann, Varese-Milano, Istituto editoriale cisalpino, 1969, pp. 30-31.

[16] «L’empia volontà di dominare richiede una particolare lucidità della mente che deve uscire da sé e sdoppiarsi; si produce così una scissura terrificante fra il pensiero e la volontà e, prima ancora, fra il pensiero e la parola», Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal pietismo al romanticismo (1700-1820), Torino, Einaudi, 1964, p. 858. Inoltre, il pensiero letterario di Hoffmann fu forse influenzato dalla “doppia vita” che egli conduceva: «Conviene però precisare subito che tale scissura si produce soprattutto per effetto della forza demoniaca della musica; e Hoffmann compositore vuol essere ricordato prima di Hoffmann narratore [...]; avvertiva nella musica la virtù redentrice, che rimane però nella sua anima quasi inefficace o addirittura del tutto sterile, ed una forza demoniaca, che travolge o minaccia di travolgere l’anima del compositore o l’anima di una donna purissima», ivi, p. 842.

[17] Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 284.

[18] Mattia Pascal è dunque l’uomo che ha imparato un “trucco”, è l’uomo che ricorre più volte all’«esperienza del morire» per correggere ciò che ha sbagliato o, meglio, ciò che non è stato: «Quando la vita diventa intollerabile, basta fingersi di ammazzarsi e così, rimanendo vivi, passare a miglior vita, una vita migliore riveduta e corretta». Inoltre, continua Debenedetti: «Adriano Meis [...] era l’incarnazione di una bugia, di un falso, che per di più pretendeva ai più prelibati diritti di un uomo vero sul vero della vita: agi, fortuna, tranquillità, benessere e perfino amore. Perciò questo secondo suicidio si converte in un verso e proprio omicidio, che però non è un delitto per due ragioni: primo, perché rivendica il giusto e il vero della vita contro la menzogna che li aveva offesi tentando di conseguirli per vie oblique e prevaricatorie; secondo, perché uccide una parvenza, un nulla, un “triste fantoccio odioso”, che scomparirà senza esalare un’anima e senza spargere sangue», Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., pp. 369-370. Il corsivo è mio.

[19] Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., pp. 284-285.

[20] Ivi, p. 284.

[21] Ivi, p. 285 n. 78. E, in un certo senso, risolverebbe anche quell’“insuperabile” dilemma di cui parla Debenedetti: «O far rivivere quel morto che egli è divenuto, o far praticamente morire, cioè annullare quell’abusivo sopravvissuto», Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 341.

[22] L’effetto meraviglia misto a effettiva confusione che Hoffmann fa provare ai suoi lettori calati, anch’essi, in un contesto magico-fiabesco, è visibile dalla descrizione della lotta tra i due sosia e della paura/follia che in quel momento prova Medardo: «Non saprei dare un’idea esatta di quanto tempo durasse quella fuga per tenebrosi boschi, incalzato dal mio sosia; mi sembra che debba essersi prolungata per mesi e mesi, senza ch’io prendessi cibo né bevessi un sorso d’acqua», Hoffmann, Gli elisir del diavolo, cit., p. 238.

[23] Magris, Tre studi su Hoffmann, cit., p. 40.

[24] Ivi, p. 34.