Sabato, 26 Agosto 2023 17:57

Sul materialismo di Volponi

Scritto da Fabio Moliterni

Durante la pausa estiva ripubblicheremo alcuni articoli presenti nell'Archivio del Centro di ricerca.

Buone vacanze dal Pens!

 


 



Eretico e “fuori-canone” sin dagli esordi lirici e poi nelle colate espressive dei romanzi e delle ultime raccolte in versi – nell’edificazione febbrile di una prassi di scrittura ispirata alla più anarchica osmosi dei generi e delle forme letterarie, tra poesia e prosa, epica e saggismo –, testimone e interprete controcorrente delle diverse mutazioni che hanno intaccato il midollo della società italiana dagli anni Cinquanta-Sessanta fino alle soglie del nostro millennio, Volponi resta all’altezza di questo presente (insieme con vecchi e nuovi compagni di strada) una delle voci più potenti e necessarie per decifrare in senso antagonista il nostro contemporaneo.

Si capisce come, prima di questi ultimi tempi, un tentativo di recupero organico della sua esperienza intellettuale sia databile intorno agli anni Ottanta-Novanta, sullo sfondo del crollo del comunismo, i segnali della crisi incipiente sul piano morale, politico e culturale, le trasformazioni delle ideologie e dei rapporti di produzione su scala globale (è l’orizzonte che occupa alcune riflessioni a caldo stese in dialogo con Leonetti nel Leone e la Volpe e nei suoi Scritti dal margine pubblicati da Manni nel 1994 a cura di Zinato). Tra le Tesi di Lecce e la Terza ondata di Bettini e De Marco, “Allegoria” e il Gruppo ’93 fino all’Ákusma di Giuliano Mesa, si tentava di aprire una stagione di battaglie critiche e militanti che, tra le altre cose, individuavano proprio nell’opera di Volponi (in prosa e in versi) uno dei modelli di scrittura più vitale e praticabile, un’idea di letteratura alternativa alle estetiche egemoni e al dominio del mercato: una voce che indicava nella libera sperimentazione formale e nel suo portato visionario e allegorico il valore di opposizione all’esistente – un potenziale etico, conoscitivo e politico, con le parole di Bettini, inteso come “presa di posizione” e “critica della crisi” (il “postmodernismo critico”, la “scrittura materialistica”). Se oggi bisogna ricordare quella stagione senza rimpianti né posture cimiteriali, vale la pena di sottolineare che molte furono le ipotesi e le proposte messe in circolo da quel lavoro critico di tipo comunitario (militante) e di gruppo, come una prima semina che attende(va) di essere proseguita. L’ermeneutica materialistica e la ricchezza antropologica di una letteratura non mimetica né a rimorchio dell’esistente, il pensiero della crisi declinato nelle forme biopolitiche, le riletture di Foucault strappato alle derive del postmoderno: tutte chiavi di lettura, a guardare bene, che diventavano congeniali per interpretare “da contemporanei” il pensiero e la scrittura dello stesso Volponi.
Ciò che Gramsci chiama il “mondo vasto e terribile”, che l’autore dei Quaderni poteva appena intravedere come orizzonte prossimo e venturo di un universo dominato dal capitale ben oltre le forme dell’organizzazione fordista, è per tutta la durata dell’opera di Volponi l’unico e solo perimetro da misurare e tentare di esprimere attraverso la scrittura, come una spina urticante o un ago conficcato in vena. Penso al lungo, ultimo tempo della sua opera in versi: dai lacerti di Foglia mortale (1962-66) alle raccolte “tarde” come Con testo a fronte (1967-85) e Nel silenzio campale (1990).

 

 


Di fronte al trionfo della merce e alla colonizzazione ormai compiuta dal capitalismo non soltanto nei confronti della natura vivente, ma anche nel fondo dell’inconscio, dello statuto psichico del soggetto e dei rapporti interpersonali, la poesia di Volponi si fa espressione di un pensiero agonistico, nel significato etimologico di un’estrema battaglia tra la vita e la morte, Todeskampf: “Vedremo, domani; ma oggi i nemici / si vedono già e si possono / toccare anche con le mani” (Petra Pertusa e mista). Diversa ma vicina alle esperienze di poeti anch’essi inclassificabili (si pensi a Fortini e all’ultimo Roversi, Majorino e Di Ruscio, a una genealogia di poesia “epica” e “di pensiero” che può comprendere Pagliarani, Porta e Cacciatore, Cattafi e Villa, ma anche De Signoribus e Ciabatti, Ranchetti e Mesa), la lirica di Volponi accoglie voracemente le figure della contraddizione e del conflitto che dalle zone psichiche o carnali di un soggetto sofferente si configgono nel cuore del destino storico dell’uomo occidentale.
Gli aspetti stilistici prevalenti che nell’ultimo tempo percorrono circolarmente poesia e prosa diventano proiezioni o, meglio, fenditure e cicatrici di questo conflitto mentale e corporale a tutto campo: la fissazione esasperata di autentiche parole-tema (la notte, l’insonnia, l’inconscio e la paura), la proliferazione debordante delle lasse rimate, le forme accumulative e onnivore proprie di un unico, grande poema “eventuale”, “aleatorio”, “ininterrotto” (così come per Guido Guglielmi è “aleatoria” la struttura narrativa degli ultimi romanzi); la “furia verbale” e allucinata, la fonicità gestuale e martellante ai limiti dell’enigma, dell’informale o della scrittura automatica: “la poesia dal fondo suo risale: - / il verso, pena materiale, la discaglia e slala / mentre dal fondale salgono voci, ancora” (Poesia, sei stata fatta tante volte...). Un fondo primitivo e arcaico, creaturale e visionario, che da Lucrezio e san Francesco arriva a Giordano Bruno e Campanella e sfocia nel leopardismo di Rebora e dei vociani, si congiunge alla potenza espressionistica di marca gaddiana e quasi céliniana, perché anche nello stesso componimento il lettore è alle prese con una lingua “primaria” o “preculturale”, come direbbe Beckett, che è sottoposta a continue escursioni e sollecitazioni allegorico-figurali.
Leggere oggi le poesie tarde di Volponi comporta un ascolto o una immersione senza riparo nella psiche di un soggetto alterato, dissociato e “deviante” (in conflitto con il presente) – ed è una tonalità, come è stato detto, che ricorda la “soggettività da drogati” rintracciata da Baldacci in Tozzi. E insieme provoca una presa di contatto quasi allucinata, ma ferma e precisa della devastazione planetaria ad opera del capitale, che si insinua nelle esistenze di tutti i viventi. È in questa saldatura tra “male fisico” e male storico-sociale che vive il materialismo (in versi) di Volponi, uno sguardo leopardiano che Sebastiano Timpanaro declinava, in termini inclusivi, come unione di etica e gnoseologia, fisica ed ecologia, materialismo storico e biologico. All’altezza del nostro presente.

 

[Questo articolo è uscito in “l’immaginazione”, n. 281, 2014, pp. 14-15]