Martedì, 06 Giugno 2017 13:03

"La guerra dei cafoni", una guerra eterna. Intervista a Davide Barletti

Scritto da Simone Andrea Camilli
I registi Davide Barletti e Lorenzo Conte con i ragazzi protagonisti de "La guerra dei cafoni" I registi Davide Barletti e Lorenzo Conte con i ragazzi protagonisti de "La guerra dei cafoni"

Nel 2008 minimum fax ha pubblicato La guerra dei cafoni, romanzo di Carlo D’Amicis. A distanza di nove anni, il libro diventa un film prodotto da Minimum Fax Media, con Davide Barletti e Lorenzo Conte alla regia. Abbiamo incontrato Davide per discutere con lui del suo ultimo lavoro.

 

Com’è nata l’idea di voler fare un film su La guerra dei Cafoni?

 

Io e Lorenzo Conte, con il quale lavoro da vent’anni, venivamo dal nostro precedente lungometraggio Fine pena mai, parliamo di circa nove anni fa. Venivamo dal racconto oscuro di questo territorio, condotto attraverso una lunga ricerca divisa tra il lungometraggio e il complesso documentario (Diario di uno scuro) sulla storia della Sacra Corona Unita; avevamo raccontato la Puglia e il Salento partendo da alcuni dei drammi sociali della nostra terra, dalla criminalità organizzata all’eroina, ricorrendo anche a un altro libro, Vista d’interni di Antonio Perrone.

Uscivamo da un periodo che potremmo definire oscuro per questa terra, quindi quando ci siamo imbattuti un po’ per caso nel libro di D’Amicis, complici diversi fattori, ci siamo immediatamente incuriositi: non è stato un incontro “preparato” o dettato dalla fama dell’autore. Ci siamo ritrovati a leggere il libro e ad essere affascinati dal racconto del mondo di passaggio che ci era presentato: siamo nell’anno della morte di Pasolini, il cruciale 1975, che segna soprattutto per l’Italia il passaggio da un tipo di società ad un altro. Si viene a creare una frattura ancora più grande, soprattutto nel meridione, fra l’Italia contadina e l’Italia della piccola borghesia legata ai consumi. Questo passaggio è molto importante per chi osserva la storia del nostro territorio e nel libro è un periodo raccontato tramite le esperienze di due bande di adolescenti. Ci è sembrato un disegno allegorico molto interessante da riprodurre. Poi è stato fondamentale, per noi, riscontrare la capacità dell’autore di tenere insieme più livelli: una caratteristica che si avvicina molto alla nostra cifra stilistica. La guerra dei cafoni fa coesistere nelle sue pagine un livello onirico, uno storico, uno legato alla commedia, uno socio-antropologico e molti altri.

 

Quali sono stati i punti maggiormente rivisitati nel passaggio dal libro al film?

 

Il lavoro di trasposizione dal libro al film è durato moltissimo. Ci sono stati molti processi di scrittura e purtroppo sono passati tanti anni da quando abbiamo iniziato a lavorare al momento dell’effettiva realizzazione dell’opera. Devo dire che è stato un percorso molto stimolante, innanzitutto perché abbiamo fortemente voluto Carlo D’Amicis nella squadra degli sceneggiatori; avere a che fare con lo scrittore di un’opera da trasporre di solito crea delle difficoltà, perché l’autore è giustamente geloso del proprio lavoro, ma questo è uno dei motivi per cui capita spesso che alcune trasposizioni non funzionino. Ciò avviene soprattutto quando si cerca di rimanere in tutti i modi aderenti al libro, senza tradirlo. La cosa bella, invece, è stata tradire il libro con Carlo: si è rivelata una grande possibilità per entrambi, perché si è potuto ridare nuova vita ai personaggi.

Innanzitutto abbiamo tenuto la struttura, il nucleo principale: ciò che rende il libro un romanzo di formazione, che gli permette di raccontare il passaggio dall’età adolescenziale all’età adulta e di avere questo particolare sfondo sociale. Sono rimasti i due covi, le due bande di ragazzini; quello che noi abbiamo fatto è stato una radicalizzazione dell’assenza degli adulti già presente nel libro, ma non con quest’accento così forte: nel film i genitori sono totalmente assenti e lo spettatore è portato a chiedersi come i ragazzi vivano o come mangino. Abbiamo ricreato uno sfondo particolare che nel libro non c’era: Torrematta, luogo immaginario, nel libro aveva la caratterizzazione del classico villaggio balneare che in estate è ripopolato dai figli della borghesia. Aveva un qualcosa che può essere riferito ad una località dello Ionio, dei paesini animati dai figli delle classi “dominanti” che incontrano d’estate i figli dei pescatori, rimasti lì tutto l’anno. Noi abbiamo voluto ricostruire un luogo fuori dal tempo, quasi fuori persino dalla geografia, una specie di teatro all’aria aperta in cui i personaggi sono molto più archetipizzati dei personaggi del libro di Carlo.

C’è la presenza quasi onirica della figura di Papaquaremma, il santo dei Cafoni, nonché il rimando ad un’ancestralità della terra rappresentata nella scena del prologo. Nelle luci viste da Mela e nella sua voglia di scappare c’è la pulsione verso qualcosa di esterno a Torrematta, più forte per intensità e più complessa per struttura rispetto al libro. Penso quindi che l’ambientazione abbia rappresentato lo scarto maggiore fra il testo e il film.

 

Una delle scene cardine del film riguarda l’incontro di Angelo con il “Santo dei cafoni”: qual è la funzione di questo scenario metafisico all’interno del film?

 

Sentivamo di voler dare un richiamo forte all’eternità di questa lotta, che venisse dall’alba dei tempi. Inizialmente, nel prologo, c’era anche una didascalia che recitava proprio “Alba dei tempi”.

Sia Papaquaremma, sia il bambino caduto nel pozzo rappresentano quelle figure, tipiche del meridione, a metà fra il magico, il pagano e il mitico. È un richiamo forte ma che va a inquadrarsi in un contesto più generico di richiamo al mito.

 

Nel prologo si è scelto di inserire una scena in cui si fa riferimento alla lotta secolare tra signori e cafoni, che fa vedere tutto l’accaduto non come un semplice gioco fra bande di ragazzi, ma come una guerra perpetrata nel tempo.

 

Volevamo mettere in scena proprio l’atto fondativo, preparare lo spettatore alla visione di una guerra tra ragazzini, scherzosa nella prima parte, che però ha una radice e un richiamo ben precisi.

C’è un riferimento storico, volutamente vago, perché la scena del prologo non è databile, ma è lì ad indicare che questa lotta c’è sempre stata.

Lo stesso scopo ha anche lo “svelamento” del quadro che Marinho trova nella casa dei suoi genitori, raffigurante un suo avo. Si tratta di una presa di coscienza del proprio passato, della scoperta di far parte di una classe che ha soggiogato per secoli i cafoni. In questo senso è da leggersi anche l’espiazione di Marinho, perché sarà lui ad andare nel pozzo per offrirsi in cambio del cane – e della felicità – di Mela.

 

L’unico adulto presente nel film (prologo ed epilogo esclusi) è il gestore del bar, un adulto incapace di farsi rispettare…

 

Il gestore del bar è lo “scudiero del padrone”, colui che rappresenta quell’atteggiamento tipicamente meridionale dell’adattarsi al nuovo che arriva; rappresenta quel “cambio di casacca” che la società italiana conosce da decenni, incarna la capacità di subodorare e di capire chi sarà il nuovo padrone. C’è poi l’aspetto del personaggio, dell’attore in sé, Ernesto Mathieux: un attore straordinario che ha fatto film importanti come L’imbalsamatore di Garrone, che ha anche un aspetto un po’ fanciullesco.

Per il resto la scena è completamente lasciata ai ragazzini.

 

Quali sono i pro e i contro nel lavorare con un cast così giovane?

 

Il lavoro di casting è stato molto complesso ed è durato circa un anno. La cosa bella è stato parlare con i ragazzi, conoscerli e ascoltare le loro storie perché ci ha arricchito molto; alcune delle dinamiche del casting sono addirittura rientrate nella sceneggiatura, come ad esempio l’ingresso in scena di Cugginu: in una scena del film i cafoni rivolgono insulti alla telecamera e lo spettatore ne è disorientato, fin quando non appare Cugginu e si capisce che è tutto un test che quest’ultimo ha fatto ai ragazzi per conoscerli meglio. Per scegliere i cafoni, durante il casting, abbiamo adottato lo stesso metodo, ossia chiedevamo di apostrofarci davanti alla telecamera nella maniera più pesante possibile.

Lavorare con i ragazzi è una delle esperienze più belle e, chiaramente, ha i suoi pro e i suoi contro.

Nei pro rientrano la freschezza della loro recitazione e il fatto dell’essere scevri di qualsiasi scuola; se li sai prendere e riesci a creare la giusta alchimia puoi creare scene straordinarie perché la loro recitazione viene da ciò che non è filtrato da studi o pensieri.

Allo stesso tempo, però, nel cinema le scene si fanno più e più volte perché c’è molto da cambiare, ad esempio il punto di vista e le inquadrature; le scene che sono state difficili da realizzare erano proprio quelle di raccordo, da doversi girare più volte, magari con venti ragazzini in scena: non avendo l’esperienza degli attori più grandi, due scene non uscivano mai uguali.

I contro si individuano anche nella velocità con cui si realizzano le scene: noi perdevamo molto tempo per avere silenzio, complice il fatto che non avevamo instaurato certo un clima da caserma. I ragazzi hanno vissuto con noi per due mesi, senza genitori; hanno vissuto tutti insieme e per molti di loro era il primo allontanamento da casa.

Per loro è stata un’esperienza importantissima. Noi abbiamo detto loro fin dall’inizio che un film non ti cambia la vita, ma che quell’esperienza sarebbe rimasta nei loro ricordi.

 

Come avete gestito la compresenza di così tanti registri linguistici differenti, e che significato dai alla scelta di sottotitolare il film?

 

La scelta del sottotitolaggio è stata una scelta abbastanza obbligata, e poi rivendicata, di cui siamo molto fieri.

Noi non abbiamo mai detto che il film è ambientato nel Salento, sono stati i giornali ad attribuire al nostro ambiente una posizione precisa. Tra parentesi: per noi Torrematta è addirittura un’isola, un teatro fuori dal mondo in cui determinate regole del linguaggio filmico e narrativo vengono meno; possiamo esemplificare quanto detto attraverso le figure di Tonino e di Mela: sono fratelli, eppure parlano due dialetti completamente diversi.

Questa polifonia di dialetti e di lingue (che parte dal greco bizantino del prologo fino alla canzone in grico dei titoli di coda) è una delle particolarità del film, che punta a rimanere addosso allo spettatore. La motivazione di tanta varietà è semplice: abbiamo fatto un casting di 800 ragazzi, avevamo bene in mente le figure che dovevano andare a comporre il mosaico dei ventitré ragazzini e quando li abbiamo scelti non abbiamo puntato ad una provenienza geografica precisa o uniforme, ma ci siamo concentrati sulla loro faccia e sulla loro storia, sul loro modo di comportarsi. Una volta terminato il casting ci siamo accorti che i ragazzi scelti avevano accenti e lingue differenti. Ovviamente questo non era un problema per i signori, visto che già nel libro parlavano prevalentemente italiano e anche lì avevano provenienze diverse. I cafoni erano invece gli abitanti locali: era inimmaginabile fare un film in cui i cafoni, i figli della terra, parlassero un italiano preciso.

Questa polifonia è però un handicap per la distribuzione nel mercato italiano. È divertente sfogliare i tamburini dei giornali e trovare scritto “La guerra dei cafoni, versione originale con sottotitoli in italiano”. 

 

Prima de La guerra dei cafoni hai girato numerosi documentari. Come pensi che la tua esperienza in questo campo abbia influenzato il film?

 

Forse questo è il film che più si allontana dalla nostra storia professionale: dal punto di vista tecnico e linguistico non dà l’idea di un documentario perché è un film molto scritto.

Tuttavia pensiamo che sia stato proprio il nostro percorso, fatto di lavoro sulla realtà con personaggi reali che interpretano loro stessi, a permetterci di lavorare con i ragazzi e di ottenere una “spontaneità” che a detta di molti si percepisce bene nel film.

 

Fra i personaggi de La guerra dei cafoni hai trovato qualcuno che richiamasse la figura di Perrone di Fine pena mai?

 

Cugginu, già tratteggiato con accenti forti nel libro, è stato per noi oggetto di un’ulteriore caratterizzazione. Rappresenta l’arrivo a metà degli anni ’70 nel piccolo meridione di una borghesia che non è più cafona, arricchitasi con il proprio lavoro e che va a creare una zona grigia, una sorta di antesignano della piccola criminalità organizzata, quindi della devianza e della violenza. Cugginu è un personaggio che rivendica ciò che gli è stato negato dai signori, tanto da chiedere in una scena del film, rivolgendosi a Marinho, chi sia il vero ladro fra loro due.

È una rivendicazione in linea con il periodo storico, per cui lo spettatore è portato a parteggiare per quel Cugginu capace di mandare in frantumi il codice millenario che separa i cafoni dai signori, immettendo anche simboli come la pistola, non imponendo alcun freno o limite alle proprie azioni.

 

Nel film è lui il vero vincitore, ancor più che nel libro in cui l’epilogo ristabilisce un certo equilibrio…

 

Sì. E nel film il finale è quasi senza speranza. L’unico barlume di speranza è lasciato completamente a Mela che esce da Torrematta con il motoscafo, andando incontro a quelle luci che inseguiva da tempo con lo sguardo.

Quello che rimane in questa società immobile è certamente la vittoria di Cugginu, del nuovo che avanza: ciò che si concretizzerà meglio negli anni ‘80.