Venerdì, 19 Maggio 2017 09:19

Quarantacinque giri per dieci anni: in viaggio con Pier Vittorio Tondelli - II parte

Scritto da Mariaelena Tucci
The Smiths, 1986 The Smiths, 1986

Giunto al suo trentunesimo anno di età, Pier Vittorio Tondelli avverte l’esigenza di rimettersi in viaggio, di “cambiare posto […], cambiare gente”, questa volta per congedarsi dal suo passato e per “scoprire la realtà non più in rapporto agli altri in senso generazionale, ma all’altro come soggetto singolo”[1]. Complice soprattutto l’incontro con Il trentesimo anno di Ingeborg Bachmann, lo scrittore di Correggio dà alle stampe Biglietti agli amici (1986), un “libro artigianale, curato, prezioso”, costituito da ventiquattro prose brevi (dodici per le dodici ore della notte e altrettante per quelle del giorno), ognuna delle quali è dedicata a una persona amica indicata con le sole iniziali[2]. La poetica del frammento, nata dalla “necessità del restringimento, […] della ricerca di un’essenzialità”, assume comunque un carattere tipicamente postmoderno in quanto, nei diversi biglietti, appaiono anche le citazioni delle canzoni di Joe Jackson, di Leonard Cohen e degli Smiths, che “Tondelli [ama] riportare dentro il corpo della sua scrittura, uniformandosi ad esse, assorbendone non solo il senso, la verticalità del sentire, ma anche quella “musica della pagina” [che possono contenere], il suo ritmo”[3].

Il culmine di tale processo sarà raggiunto con Camere separate (1989), che Tondelli stesso definisce come

 

[…] il percorso di una solitudine, di una persona che rimane sola, che viaggia e che rivede il mondo con gli occhi di una persona separata per sempre da un’altra. […] Ho iniziato così a creare una circolarità di struttura in tre movimenti, in ognuno dei quali c’è uno che muore, uno che resta solo, uno che cerca di affrancarsi da questa solitudine. Tale circolarità mi avrebbe permesso di far sì che i temi restassero sempre gli stessi, ma sviluppati via via sempre più profondamente.

L’idea era un po’ quella della musica ambientale in cui ci sono sempre le stesse note, apparentemente non cambia niente e poi, in effetti, capisci che non stai fermo, che ti stai muovendo, che stai sprofondando. In queste cadute c’è anche tenerezza, forse estasi[4].

 

Nella ricostruzione, condotta attraverso continui flashback e riflessioni, della tormentata storia d’amore omosessuale fra il trentaduenne Leo e il musicista tedesco Thomas, morto da due anni, la musica ha dunque il compito di scavare nell’anima, di creare uno spazio interiore, che è quello della memoria e del sentimento. Un esempio dell’osmosi che si verifica, nel romanzo tondelliano, tra la musica e le sonorità della vita può essere rintracciato nella scena del primo appuntamento tra i due amanti, cioè quella di un concerto rock, dove Leo “si tiene un po’ ai margini della folla” per cercare Thomas “in quel frastuono violento, angoscioso”; le note della cover di I feel love dei Bronski Beat segnano il loro incontro, ma consentono di cogliere anche la dinamica, la tensione intima dei due personaggi, che sembrano quasi consapevoli dei risvolti drammatici della loro futura relazione[5]. In Camere separate, quindi, un Tondelli nostalgico, introspettivo ed elegiaco insiste sui codici formali dell’autobiografia per lasciarsi alle spalle i contenuti mitici dell’adolescenza[6]; “la fenomenologia dell’abbandono, di fatto – scrive Ugo Perolino – allude a questa separazione non solo dall’essere amato, ma anche da se stessi e da ciò che si è stati”[7].

In questo senso Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta (1990) non si pone come una semplice raccolta di materiali giornalistici sulla realtà del decennio (apparsi nell’arco di dieci anni su testate come il “Corriere della sera”, “L’Espresso”, “Il Resto del Carlino”, “Linus”, “Rockstar”), ma soprattutto come una sorta di “romanzo critico” che permette di cogliere, passo dopo passo, o meglio ancora, nota dopo nota, il percorso “discendente” della traiettoria letteraria ed esistenziale dello stesso Tondelli. Durante le sue continue peregrinazioni tra piccole città di provincia e grandi capitali europee (Londra, Berlino, Amsterdam, Barcellona), l’autore si rapporterà con la “fauna giovanile”, osservandone con massima attenzione, come un antropologo, i movimenti, i gusti, i comportamenti. Così, ad esempio, Tondelli descrive il pubblico presente al concerto dei Police (tenutosi al Palasport di Reggio Emilia il 3 aprile del 1980):

 

[…] Moltissimi hanno i capelli lunghi e i vestiti stracciati; ci sono baleromani, molti punk e altrettanti giovani inguainati in pantaloni di pelle nera, braccialetti con borchie dorate, anelli ai lobi, distintivi e spilloni. Ci sono studenti dall’aria timida, hippy, creativi; ci sono i sopravvissuti dell’epoca dei grandi concerti rock degli anni settanta, che ora hanno trent’anni e se ne stanno dignitosamente seduti a chiacchierare: si vede che la sanno lunga. Ci sono ragazzine vestite di pezze colorate, altre svestite, altre in tute aderentissime, altre con i sottanoni, ci sono ragazzi con i jeans a tubo, altri in jeans stinti, altri in denim di classe; ci sono quelli un po’ mod con giacchettina nera, camicia dal colletto arrotondato, cravattino a stilo e occhiali da sole; ci sono quelli con i capelli lunghissimi e sporchi e pizzetto cristologico che camminano mezzo nudi, ciondolano di qua e di là; ci sono quelli con la testa rapata, quelli riccioloni, quelli con i capelli crespi e arruffati come i rasta, quelli con le sottilissime treccine afro adorne di pendagli e anellini colorati[8].

 

Tuttavia, lo scrittore di Correggio ha il merito di guardare al di là delle mode e delle tendenze, riconoscendo nella forma esteriore, nell’involucro, nell’aspetto le “uniche possibilità di comunicazione delle proprie intensità intime”[9]. Se, ad esempio, il nodo particolare di una cravatta (tratto distintivo della cultura new wave) individua quei bravi signorini “dalle lunghe notti assolutamente astemie e senza sesso, costituite solo di vagabondaggi in auto e lunghe chiacchierate ironiche e pettegole”[10], “i capelli stopposi e rizzati all’insù e le labbra ciclamino sbavate di rossetto” di un “bellissimo e solitario punk” di Budapest rappresentano “l’anima triste ed errabonda di qualcun altro”[11], mentre i ragazzini berlinesi “educatissimi e truccatissimi” che assistono al concerto dei Bronski Beat sembrano “alla ricerca di una propria identità sessuale” e di una quotidianità da vivere “in pace nei propri nervi e nella propria pelle”[12]. Nei racconti in presa diretta del “coloratissimo e imprevedibile bestiario galattico” giovanile risalta, dunque, la ricerca, attraverso “l’interpretazione” dello stile musicale prescelto, della libertà e della propria diversità: seguendo questo percorso, lo scrittore prova a comprendere meglio gli altri, ma anche se stesso.

In virtù di questa prospettiva, appare comprensibile come, negli ultimi anni della sua vita, Tondelli preferisca alle sonorità più marcatamente rock degli inizi, quegli autori che nei loro testi evidenziano un rapporto più stretto con la poesia e che, quindi, si confanno alla sua vena più intimista. Egli stesso afferma che

 

 

[…] l’immagine del poeta romantico – di colui che tragicamente vive fino in fondo, fino alla morte e alla dissoluzione, il conflitto fra arte e vita, fra ragioni dell’immaginazione e ragioni della quotidianità – sopravviv[e], incandescente, ormai solo nell’universo rock. I poeti ufficiali si nascondono dietro le loro scrivanie e i loro libri. Mescolano e affinano parole e rime […] Hai la sensazione che oltre la capacità combinatoria, oltre la perfezione formale, non esista un’anima. Nei poeti rock, più o meno maledetti che siano, questa anima è eccentricamente viva e pulsante[13].

 

 

Di Jim Morrison, ad esempio, l’autore apprezza la “psichedelia autodistruttiva”, mentre di Nick Cave la poeticità dark e, al contempo, comica[14]; di Leonard Cohen quella sacralità e quel misticismo attraverso il quale egli è in grado di regalare agli spettatori “un momento di pienezza, di felicità che [ferma] per un paio di minuti lo scorrere del tempo, un pezzo di vita sottratto all’angoscia[15]. Gli Smiths e Morrissey, in particolare, sembrano i più affini a quella poetica queer, tipicamente tondelliana, dagli accenti anarchici e melodrammatici, in cui “la pena della sconfitta diventa il piacere della sensibilità”[16]. A Tondelli intriga soprattutto il loro lato letterario, tanto da considerare i primi tre album della band, definiti la “trilogia dell’artista da giovane” di Morrissey, come “una sequenza poetica in tre fasi che viene ad accostarsi idealmente ai tanti giovani Werther e giovani Ortis e giovani Holden di ogni letteratura”[17].

Cambia la musica, così come i pensieri e i percorsi: l’autore decide di ritornare “a casa”, su quella stessa Via Emilia da cui era partito, che ora non appare più “un’enorme, scintillante città della notte con le sue balere adagiate sulle colline, le maxidiscoteche di cemento armato attorniate da parcheggi per migliaia di autovetture”, ma come quell’angolo sperduto del mondo in cui risuona la voce di “una vecchia contadina davanti alla soglia di casa, nell’ora del primo buio”, proprio come nell’epilogo di Diamante, celebre canzone di Zucchero[18]. L’allontanamento, la cancellazione del proprio passato, conferisce un valore aggiunto al tondelliano bisogno di solitudine: ne sono testimonianza gran parte dei testi contenuti in L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta (concepito come una parte seconda di Un weekend postmoderno e pubblicato postumo nel 1993), dove “materiali di scrittura, stati d’animo, frammenti emotivi” fanno ora parte di un viaggio non più “pubblico”, ma interiore, senz’altro legato a componenti introspettive, se non autobiografiche[19].

In particolare, Quarantacinque giri per dieci anni, il racconto finale del volume (una sorta di diario “in movimento” degli anni Ottanta, tra concerti, stazioni FM e divagazioni notturne), dà l’impressione di una sospensione, non di una chiusura[20]. È come se ci fosse un’altra strada, ancora inesplorata, che forse Tondelli avrebbe voluto percorrere; così egli, infatti, conclude la narrazione: […] le facce, le corporature, i visi, i gruppi gli atteggiamenti, le parlate, i gerghi, le musiche erano tornati. Non sarebbero mai più stati la mia vita, ma la mia vita avrebbe fatto sempre riferimento a loro”[21].

 

 

[1] F. Panzeri, L’unica storia possibile in P.V. Tondelli, Opere, vol. 2: cronache, saggi, conversazioni, cit., p. IX.

[2] I Biglietti agli amici vengono editi da Baskerville, una piccola casa editrice bolognese. Oltre alle sole ventiquattro copie che Tondelli intende regalare ai suoi amici il giorno di Natale, ne saranno in seguito stampate altre cinquecento (autografate dallo stesso autore) da mettere in commercio, per coprire i costi di produzione. Nel 1997 verrà pubblicata da Bompiani una nuova edizione del libro, curata da Fulvio Panzeri (Cfr. R. Carnero, Lo spazio emozionale, cit., p. 70).

[3] F. Panzeri, Nota al testo, in P.V. Tondelli, Biglietti agli amici, a cura di F. Panzeri, Bompiani, Milano, 1997, p. 117.

[4] P.V. Tondelli, Opere, vol. 2: cronache, saggi, conversazioni, cit., pp. 977-978.

[5] Cfr. A. Spadaro, Pier Vittorio Tondelli e la musica, http://www.antoniospadaro.net/musicatondelli.html.

[6] Ha notato Gilberto Severini in Private liturgie (“Panta”, n. 9, 1992, pp. 106-107): “Nel descrivere Leo, Tondelli vuole rendere esplicita l’identificazione del personaggio con l’autore. […] Certo, il romanzo è comunque una rielaborazione di elementi autobiografici; ma appare evidente che Tondelli ha voluto firmare l’adesione totale ai temi e agli interrogativi che il suo testo si pone”.

[7] Cfr. U. Perolino, Fine dei movimenti e nuove identità generazionali nella narrativa italiana degli anni ottanta: Tondelli e Palandri, in “Cahiers d’études italiennes”, n.14, p. 161.

[8] P.V. Tondelli, Quarantacinque giri per dieci anni in L’abbandono, cit., p. 252.

[9] Cfr. P.V. Tondelli, Londra, in Un weekend postmoderno, cit., p. 389.

[10] Cfr. P.V. Tondelli, Tie society, Ivi, pp. 191- 194.

[11] Cfr. P.V. Tondelli, Budapest, Ivi, p. 427.

[12] Cfr. P.V. Tondelli, Quarantacinque giri per dieci anni in L’abbandono, cit., pp. 265-266.

[13] Cfr. P.V. Tondelli, Poesia e rock, in Un weekend postmoderno, cit., p. 309.

[14] Ibidem.

[15] Cfr. P.V. Tondelli, Quarantacinque giri per dieci anni in L’abbandono, cit., pp. 282-283.

[16] Cfr. E. Porciani, Dalla colonna sonora alla colonna insonora. Per uno studio tematico-culturale della popular music, cit., p.152.

[17] Cfr. P.V. Tondelli, The Smiths, in Un weekend postmoderno, cit., pp. 300-301. Gli album a cui Tondelli fa riferimento sono: The Smiths (1984), Meat Is Murder (1985), The Queen Is Dead (1986).

[18] Cfr. P.V. Tondelli, Reggio Emilia, Ivi, pp. 591-593.

[19] Così si legge nella nota a My sweet car, racconto presente ne L’abbandono (p. 308). Cfr. F. Panzeri, Note ai testi, in P.V. Tondelli, Opere, vol. 2: cronache, saggi, conversazioni, cit., p. 1069. In tal senso, appaiono significative le versioni integrali e definitive di Un racconto sul vino e Pier a gennaio e la sezione intitolata Il mestiere dello scrittore, che raccoglie gli scritti inediti elaborati come riflessione sulla propria attività e sul suo rapporto con il lettore.

[20] Cfr. F. Panzeri, Note ai testi, in P.V. Tondelli, L’abbandono, cit., p. 313.

[21] P.V. Tondelli, Quarantacinque giri per dieci anni, Ivi, p. 285.