Giovedì, 09 Marzo 2017 11:14

«Reinventavo / sillabe astruse»: Amelia Rosselli, la poesia al cubo

Scritto da Roberta Caiffa

 

1. «Ho distinto tra la vostra morte e la mia; / la mia non ha spazio»

 

Alla data dell’undici febbraio sono trascorsi ventuno anni da quando la poetessa Amelia Rosselli pose deliberatamente fine ai suoi giorni, gettandosi nel vuoto dalla finestra della sua casa romana in via del Corallo. La circostanza del “folle volo” sovrapponeva con matematica corrispondenza il numero trentatré - tanti, notoriamente, sono gli anni di Cristo, presenza ricorrente nella lirica rosselliana,1 - al numero di anni, proprio trentatré, trascorsi fino ad allora da un altro suicidio, quello della poetessa americana Sylvia Plath, da Rosselli amata e mirabilmente tradotta. Nella tristezza della coincidenza, fin troppo “calcolata” per attuare il funesto proposito da lasciar poco credito alla casualità, si potrebbe paradossalmente ravvisare un ultimo cenno a quella precisione matematica che si riconnette agli studi di composizione musicale condotti dalla poetessa negli anni Cinquanta, che a loro volta e in ben altre condizioni creative”, hanno dato alla materia delle costruzioni liriche la forma del “nuovo geometrismo” metrico, tenacemente perseguito sin dall’adolescenza ma solo dal 1958 concretizzato nel poemetto La Libellula come nuovo criterio compositivo:

 

Che le mie ricerche in campo folk, ossia etnomusicologico, abbiano influito nella ricerca d’un versificare più stretto, più severo, e di formulazioni geometriche, è ovvio; pur scrivendo già dai diciassette anni prose e poesie in lingue diverse, come tentando nuove forme valide in qualsiasi lingua, non riuscii, dopo molti studi di matematica, fisica e analisi logica, a formulare questo nuovo geometrismo, sino ai ventotto anni, e cioè all’aprirsi dei primi versi del poemetto La Libellula (1958)2.

 

La singolare vicenda privata e il suo tragico epilogo, rafforzato dallo sconvolgente parallelismo con quello di Sylvia Plath che si tolse la vita l’undici febbraio 1963, hanno indotto ad un eccesso di enfasi sulla vocazione” al suicidio della secondogenita del martire antifascista Carlo Rosselli, alla luce della considerazione di una vita fortemente condizionata dai drammi familiari. Ma il caso personale, per la figliola col cuore devastato”3, non può che farsi corale, emblema delle ferite insanabili recate dalla Storia, il cui groviglio penetra tragicamente la psiche innestandovi un sentimento di sradicamento permanente, di cui la lingua diviene veicolo: “Irrimediabile era il male del mondo, e con ciò il mio male”4. D’altro canto, la scrittrice rievocava consapevolmente le vicissitudini del passato in varie occasioni; nel passo seguente rivendicava per sé e per i familiari l’appellativo, drammaticamente attuale, di rifugiati”:

 

Non sono apolide. Sono di padre italiano e se sono nata a Parigi è semplicemente perché lui era fuggito con Emilio Lussu e Fausto Nitti dal confino a Lipari a cui era stato condannato per aver fatto scappare Turati. Mia madre lo aiutò a fuggire e quindi lo raggiunse a Parigi, mio padre fu poi ucciso con suo fratello […]. La seconda guerra mondiale scacciò poi la mia famiglia (mia madre con me e i miei due fratelli ancora bambini o appena ragazzi) dalla Francia. Aver imparato l’inglese, quindi, oltre al francese, è dovuto alla guerra, perché allora andammo in Inghilterra e da lì fuggimmo poi via Canada per gli Stati Uniti. […] La definizione di cosmopolita risale a un saggio di Pasolini che accompagnava le mie prime pubblicazioni sul “Menabò” (1963), ma io rifiuto per noi quest’appellativo: siamo figli della seconda guerra mondiale. Quando sono tornata in Italia mi sono molto legata a Roma. Cosmopolita è chi sceglie di esserlo. Noi non eravamo dei cosmopoliti; eravamo dei rifugiati5.

 

Un approccio interpretativo, come dire, di taglio iper-biografico, che valorizza cioè l’aspetto istintivo, irrazionale e arbitrario del tragico epilogo della sua esistenza, non è a ben vedere risolutivo delle numerose questioni aperte intorno all’opera della Rosselli, ma tende a limitarne criticamente la portata artistica6. La distanza temporale dagli eventi incoraggia un più lucido distacco critico e suggerisce che la ricerca vada più proficuamente a focalizzarsi tra le pieghe della scrittura, laddove si celano i sintomi del male “oscuro”, sentori di un suicidio, in qualche modo, “annunciato” dal conclamato disturbo maniaco-depressivo sfociato nella psicosi persecutoria: “[…] Non / era dunque la natura divina delle cose che scuoteva / il mio vigoroso animo ma la malinconia”7. La patologia mentale ha annichilito la poetessa nonostante la tenacia con cui, a lungo e con tutte le sue forze, si tenesse ancorata all’amata e, insieme, vituperata vita: “Io contemplo gli uccelli che cantano ma la mia anima è / triste come il soldato in guerra”8. S’intende, pertanto, accogliere l’invito di Aldo Rosselli a non temere o rimuovere gli aspetti della vita della cugina solitamente ritenuti inquietanti:

 

Della malattia psichica di Amelia bisogna parlare, bisogna poter nominare anche queste cose, nel caso di Sylvia Plath, che Amelia ha tradotto e su cui ha scritto, lo si è fatto. Non bisogna aver paura dell’argomento. […] Non bisogna mettere da parte il fatto che tutta la sua vita è stata segnata dalla malattia, però in modo creativo, non stereotipato. Di questo non si vuol parlare. Era paranoica ma anche profetica”9.

 

È l’adolescenza il momento in cui si consuma il dramma nodale dell’esistenza: la morte della madre Marion, già sofferente e ulteriormente logorata dalle continue fughe, dall’esilio statunitense, dal deludente assetto politico italiano del dopoguerra. La scomparsa della donna apre nel vissuto della figlia un vuoto d’amore mai colmato, uno shock su cui grava il peso della nemesi storica, che si riversa su di lei come punitivo senso di colpa per il conflittuale rapporto materno. La frustrazione sprofonda la giovane in uno stato di “virtuale amnesia emotiva”, un cortocircuito tra memoria e sentimento da cui nasce il bisogno di ritornare ossessivamente sulle tracce di un passato che non perdona e non redime. La maledizione “persefonea”10, che riserva al soggetto femminile un ruolo confinato in una morte in vita, è rivisitata poeticamente dal topos della fanciulla, con cui la lirica invoca (si pensi al tema ossessivo della Libellula: “Trovate Ortensia”) un repertorio di figure “condizionate alla morte”. Si tratta di variazioni del soggetto classico della tragedia (Antigone, Ifigenia, Elettra, Cassandra) e della lirica europea (Ortensia, Esterina, Silvia e la Saffo leopardiana), condannate ad una vita sul margine tra Aldiquà e Aldilà, che “sfilano” lungo il vero e proprio continuum che si palesa con maggior presenza nelle prime due raccolte liriche, Variazioni Belliche e Serie Ospedaliera, che include il poemetto La Libellula.

 

2. «Cercando una risposta ad una voce inconscia / o tramite lei credere di trovarla»

 

Di tanta intensità esistenziale, una scrittura potente e, al tempo stesso, attraversata da profonda e destabilizzante fragilità è quanto resta, come vulnus che incide il solco, rapprendendosi e cicatrizzandosi attorno alla “malattia” dell’anima: segno indelebile, quello della scrittura, che traccia e circoscrive la parabola esistenziale e poetica di una delle voci liriche più tormentate del secondo Novecento. Nell’epigrammatica Cercatemi e fuoriuscite”11 l’accostamento perentorio dei due imperativi racchiude il senso di un’esistenza nevrotica, oscillante tra opposte tensioni, costantemente sospesa tra desiderio di riconoscimento e di presenza umana e compresente bisogno di solitudine; non escludendo la possibilità d’individuare, per spostamento metonimico dall’io alla scrittura, l’invito a scandagliare le vie testuali non ancora praticate dal lettore. I termini del binomio esprimono due azioni impossibili dal punto di vista logico: al voi”, ipotetico interlocutore, è rivolta la richiesta di uscir fuori da sé per superarsi o, piuttosto, di fuoriuscire dal ritrovato io” scrivente, per abbandonarlo ad un destino di solitudine? Questo, a meno che non si voglia ammettere un soggetto narcisisticamente scisso, eppure proteso alla fusione di io” e voi” in un’unica entità poetica. L’ambiguità identitaria, giocata sullo scambio di genere (“Per il parolaio ch’io fui domanda d’esser viva)12 e sulla con-fusione metamorfica “io - tu” (“Fosse stato più facile sparirti”)13, io - Dio” (Io non so / quale vuole Iddio da me”; “Perché iddio (io) mi perdonasse”)14, “io - moltitudine” (“Io ero con loro”15; Ho lasciato in giro la gente”)16,io - scrittura” (Forse morirò, forse ti lascerò queste / piccole carte in ricordo”)17, è uno dei tratti inconfondibili della ricerca poetica della Rosselli, cui sottende una semantica del reale borderline e allucinata, che vanifica ogni ipotesi ermeneutica relegando in una conoscenza parziale, attingibile solo per frammenti condensati in una parola afasica, o improvvise illuminazioni di segno più spesso negativo: “E così fu luce esatta: si convinse di aver trovato la sua dimensione vitale: il / non vedere, il non sapere, il non capire”18. Ancora, nell’uso di un termine poeticamente inaudito come fuoriuscite” s’intravede il profilarsi del complesso rapporto “dentro - fuori” che delinea le coordinate spaziali entro le quali commisurare la profondità di una scrittura che ha forse il solo referente certo nella conflittualità esistenziale, fornendone la dimensione d’interpretazione simbolica. L’isotopia topologica dello spazio chiuso, interno, buio ma brulicante di voci e di misteriose presenze (“gli angioli e le protettrici”19; “Facce appese, bronzi al muro, facce di bronzo, santi appesi / al muro in una camera solitaria in affitto”20, verso che esemplifica inoltre la tecnica, di ascendenza musicale, di ripresa e variazione su un tema), è una straniata dimensione spaziale opposta ad uno spazio aperto, sociale o naturale, enigmatico ed imperscrutabile (“Fa caldo ancora, e il cielo / è macchiato di tombe oscure”)21, in cui l’io assume una posizione liminare. La cella” è una delle metafore più ricorrenti di questo rapporto, elemento centrale di una dinamica che percorre i poli del mondo interiore opposto ad un mondo esterno che impone leggi alle quali l’io è destinato a soccombere (“La somministrazione / di ogni bene avveniva dentro e fuori la cella”22). Luogo di solitudine e di confino elevato a spazio di creazione (in combinazione col verbo rimare” che ha altissima incidenza nella seconda sezione di Variazioni Belliche:Condizionata alla morte essa rimava vocabolari tormentosi”)23, la cella si contrappone ad una realtà esterna vissuta come luogo della perdita di sé e fonte di delusione. Nella direzione del confronto, invece, la scrittura ingaggia con “i santi padri”, le auctoritas letterarie, un corpo a corpo” belligerante (da cui si dipana la trama stessa delle Belliche), in un rapporto dialettico, allusivo e antifrastico che non trova mai conciliazione. Si legga l’incipit della Libellula: La santità dei santi padri era un prodotto sì / cangiante ch’io decisi di allontanare ogni dubbio / dalla mia testa purtroppo troppo chiara e prendere / il salto per un addio più difficile. […]24, dove è evidente l’intento d’intraprendere un percorso artistico, se pur più impegnativo, difforme dall’orizzonte d’attesa canonizzato dalla tradizione letteraria, dal momento che il principio d’autorità che questa incarna, rivelatosi incostante e mutevole, ha perso di sacralità.

 

Il poemetto La Libellula25 intesse una rete dialogica che elegge ad interlocutori privilegiati Campana, Montale, Rimbaud, Scipione, i prestiti dei quali sono sottoposti al principio di ripresa e variazione e per tale via amplificati talvolta fino al parossismo. Essi offrono alla poetessa il riferimento poetico da cui partire per infrangere la norma linguistica, allo scopo di trasformarla in una nuova materia verbale. I frammenti campaniani, in particolare i versi d’apertura della Chimera, intessono il poemetto di risonanze col leitmotiv “Non so se io”, anticipato nella prima lassa dalle varianti in cui l’io e il tu si rincorrono in un gioco di specchi: “lo so tu lo sai lo sanno alcuni”, “E tu lo sai. E io / lo so”, “Io non saprò mai”, “Non so cosa dico, tu non sai cosa cerchi, io / non so cercarti”, “Io non so cosa voglio tu non sai / chi sei”. Queste tessere testuali, disseminate nel corso della scrittura come parti di un mosaico, costruiscono le dinamiche di sviluppo multidirezionale e proliferante dell’edificio lirico che, tuttavia, proprio in quelle tracce ritrova la coesione macrostrutturale. Le presenze del passato che si ostina, mutuando ancora il lessico rosselliano, a “fuoriuscire” ripetutamente nel presente, si riscontrano in una scrittura densa, il cui retroterra è l’onnivora capacità d’assorbimento culturale dell’autrice. Una scrittura che si nutre, a sua volta, di sgrammaticature ricercate (“Esse mi macilentano”)26; di neologismi (“etmisfero”27, pentatonica […] disingaggio”28), di bizzarre associazioni metaforiche (“mangiavi cavolo / di cavallo”29; “Nell’elefantiasi della giornata”30); di controsensi logici (“Ho finito di scrivere, e continuo!”)31; dell’alternarsi di registro aulico (“Diana la cacciatrice soleva […]”)32 e registro basso e ironico (“le / riacchiappo, solendo […]”)33, mimetico del parlato popolare - la grammatica dei poveri”34 - (“Contro del re dell’universo”35; “Per gli grandi dei traditi”; “Dopo della gioia […] Dopo dell’inferno”)36, d’invenzioni lessicali che attingono a fantasiose traslazioni interlinguistiche (congenitale”37, car”38, “Il mio ombrella delle platitudini”39). I versi si rincorrono in sequenze tautologiche (“Tu non eri morto; eri soltanto vivo […] Tu non eri vivo; eri soltanto / morto […]”)40 o paratattiche, spesso correlate per asindeto, sequenze in cui la poesia, in “presa diretta” sul reale, riesce talvolta a catturare delle immagini fotografiche”, che sembrano mimare il passo frenetico di civili in fuga dall’assedio di bombardamenti e toccano il vertice stilistico in esiti dal forte impatto icastico: “Contiamo infiniti morti! la danza è quasi finita! la morte, / lo scoppio, la rondinella che giace ferita al suolo, la malattia, / e il disagio, la povertà e il demonio sono le mie cassette / dinamitarde”41.

 

3. “Un babelare commosso”

 

L’irrequieta tensione conoscitiva che è dietro al fluire sismico, magmatico delle parole non deve indurre all’idea d’indeterminatezza irrazionale: se “la vita è un largo esperimento per alcuni […]”42 e nella Libellula la poetessa conferma: “Io sono una che / sperimenta con la vita43, si comprende come la pratica compositiva, l’etnomusicologia e la frequentazione dell’avanguardia musicale postweberniana durante i corsi estivi di Darmstadt del 1961, incidano sull’orizzonte dello spazio metrico di Amelia Rosselli, offrendole l’esempio extraletterario di criterio sistematico di razionalizzazione strutturale. L’aspetto che più la accomuna al gruppo sperimentale di Darmstadt è la definizione, nell’ambito della composizione, di una struttura oggettiva che porti alle estreme conseguenze i principi della tecnica dodecafonica, assumendo il principio di serialità come regola costruttiva assoluta, espressione di una formula predeterminata e matematica, con cui dar corpo ad un linguaggio incontaminato e rivoluzionario che neghi la centralità dell’io. All’interno di questo progetto di rigore formale si fa spazio la ricerca linguistica che, liberatoria - La lingua scuote nella sua bocca, uno sbatter d’ale / che è linguaggio”44 -, opera in tutt’altra direzione, scartando dalle costrizioni autoimposte col ricorso ai lapsus”, invenzioni45 a sfondo trilingue (francese d’infanzia, italiano paterno ed inglese materno sono le tre lingue parlate dalla poetessa) che assecondano un ideale di linguaggio come riflesso dell’universalità delle strutture del pensiero:

 

La lingua in cui scrivo di volta in volta è una sola, mentre la mia esperienza sonora logica e associativa è certamente quella di molti popoli, e riflettibile in molte lingue. Ed è con questa preoccupazione ch’io mi misi ad un certo punto della mia adolescenza a cercare le forme universali”46.

 

L’ideale si traduce in una creazione del tutto nuova, una lingua radicalmente “altra”: “un babelare commosso”47, che su una base linguistica italiana innesta i due idiomi francese ed inglese per sperimentare a tutti i livelli - fonetico, lessicale, sintattico, morfologico, semantico - come la lingua, in quanto sistema di segni in sé coerente ed autosufficiente, si presti ad essere interlinguisticamente manomessa. La “(de)costruzione sperimentale della voce lirica sotto la pressione di un linguaggio che è sempre pericolosamente diviso contro se stesso”48 è un’operazione che ha lo scopo di far implodere l’idioma dall’interno per stravolgerne la granitica convenzionalità di corpo codificato e normativo, minandone la capacità di rappresentazione univoca della realtà. L’approccio non convenzionale all’esperienza che si traduce in scrittura corrompe la lingua italiana e al contempo le infonde nuova linfa, amplificandone le possibilità sul piano espressivo e simbolico e ampliando l’orizzonte d’attesa del lettore, nel rifiuto della comune logica dominante. In direzione opposta, che risponde alla categoria di ordine”, muove il blocco ritmico” o lirico, compatto perimetro metrico in cui disporre la materia verbale, entro un sistema di coordinate spazio-temporali che non lasci spazio al proliferare della nevrosi e alla minaccia dell’elemento casuale, entrambi sottoposti alla lucida coscienza critica del poeta che regola l’azione dell’io sulla materia artistica. Il principio di razionalità ordinatrice, esprimendo l’esigenza di controllo e rigore che la poetessa impone al suo fare artistico, aspira a conferire all’organizzazione metrica quello statuto di oggettività che nasce dall’esigenza di svincolarsi dal limite soggettivo del verso libero: […] Nello scrivere sino ad allora la mia complessità o completezza riguardo alla realtà era stata soggettivamente limitata: la realtà era mia, non anche degli altri: scrivevo versi liberi”49. La “metrica totale” o assoluta, proposta da Amelia Rosselli, affonda nella rivisitazione del verso come parte di un unico “blocco” poetico, in cui la parola è l’unità metrica minima considerata nella sua essenza di “idea”: […] nello scrivere e nel leggere […] noi contemporaneamente pensiamo. In tal caso non solo ha suono (rumore) la parola; anzi a volte non ne ha affatto, e risuona soltanto come idea nella mente”50; dal postulato si deduce che l’idea in sé costituisca unità metrica. È una rivoluzione nella funzione stessa della metrica che, modellata sul linguaggio “pensato-parlato”, non è un puro elemento esteriore “formale”, ma tenta di esprimere una ritmicità che rifletta la naturale continuità del flusso di pensiero e del discorso, entrambi considerati, sotto l’aspetto dell’enunciazione, come continuum:

 

Il quadro infatti era da ricoprirsi totalmente e la frase era da enunciarsi d’un fiato e senza silenzi e interruzioni; rispecchiando la realtà parlata e pensata, dove nel sonoro noi leghiamo le nostre parole e nel pensare non abbiamo interruzioni salvo quelle esplicative e logiche della punteggiatura”51.

 

Ne discende l’esigenza di teorizzare una formula metrico-organizzativa che conferisca profondità spazio-temporale alla poesia, facendone una miniatura dell’esperienza di realtà reinventata graficamente, in base ai dettami della nuova poesia realistica” ocubica” (e il cubo è figura per antonomasia della realtà), esplicitati nel saggio Spazi Metrici. La poesia, affrancata dall’astrattezza del verso libero, proiettata verso il linguaggio tridimensionale della realtà all’interno del perimetro geometrico della forma-cubo”, diventa il metaforico recinto di sicurezza entro cui liberare e, al tempo stesso, arginare l’irrompere dell’espressione, spazio di libertà perché auto-imposto dal poeta. Uno spazio autogestito ma, al contempo, claustrofobico, che lascia trapelare la proiezione del conflitto dentro - fuori”, le dimensioni simboliche, poc’anzi accennate, del mondo interiore e di quello esterno, per dar voce al tormentato dialogo fra due sfere dell’esistenza che, in Amelia Rosselli, sono state alla costante ricerca di un faticoso compromesso, vissuto con sofferenza e sotto il presagio della precarietà, senza mai poter approdare ad un punto di bilanciamento che si potesse rivelare salvifico.

 

1 Cristo, in quanto figlio di Dio fatto uomo, è figura di compresenza e di liminalità dell’umano e del divino nel suo stesso corpo, quindi emblema di redenzione. Ma l’immagine poetica è anche metafora del processo linguistico: nella sua figura sono risolte le incoerenze del linguaggio, che unisce e sublima il registro basso e umile in quello alto e tragico della tradizione lirica. L’ambivalenza della figura rimanda all’elusività del soggetto lirico, che si pone sempre in termini di identità sdoppiata, mobile e indefinita. Cfr. D. La Penna, «La promessa d’un semplice linguaggio». Lingua e stile nella poesia di Amelia Rosselli, Roma, Carocci editore, 2013, pp. 47-49
2 A. Rosselli, Introduzione a Spazi metrici, in Id., Una scrittura plurale, Saggi e interventi critici, a cura di F. Caputo, Novara, Interlinea, 2004, p. 60.
3 Cit. dalla lirica Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita. Dopo la pazienza, in A. Rosselli, Variazioni belliche, Milano, Garzanti, 1964; nuova edizione, a cura di P. Perilli, prefazione di P. P. Pasolini, Fondazione Piazzolla, Roma 1995; ora in A. Rosselli, L’opera poetica, a cura di S. Giovannuzzi, Milano, Mondadori, 2012, p. 48.
4 A. Rosselli, Diario Ottuso (1954-1968), prefazione di A. Berardinelli, Roma, IBN, 1990; in parte anche in Id., Le poesie, a cura di E. Tandello, prefazione di G. Giudici, Milano, Garzanti, 1997; poi, con una nota di D. Attanasio, Roma, Empirìa, 1996; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 841.
5 P. Zacometti, Ma la logica è il cibo degli artisti, [intervista ad A. Rosselli], «Il Giornale di Napoli», 12 maggio 1990, cit. da F. Caputo, Cercare la parola che esprima gli altri, in A. Rosselli, Una scrittura plurale. cit., p. 9.
6 Si legga a tal proposito l’opinione di Carbognin: “Il misconoscimento, da parte della critica, dell’effettiva entità dello sperimentalismo linguistico praticato da Amelia Rosselli, in grado di intaccare, simultaneamente, il sostrato idiomatico di tre diverse lingue, ci sembra evidenziare i limiti storici di quelle attese che Variazioni Belliche è stato in grado di spiazzare con la sua pubblicazione”. In F. Carbognin, «L’automa» di Variazioni Belliche, in Aa.Vv., Il colpo di coda. Amelia Rosselli e la poetica del lutto, a cura di E. Campi, M. Saya Edizioni, Milano 2016, p. 33
7 A. Rosselli, Variazioni belliche, cit., in Id., L’opera poetica, cit., p. 62.
8 Ivi, p. 47.
9 In S. SGAVICCHIA, Fotobiografia. Conversazione con Aldo Rosselli, in Dossier Amelia Rosselli, a cura di S. Sgavicchia, in «Il Caffè illustrato», a. III, n. 13/14, luglio-ottobre 2003; ora in: A. Cortellessa (a cura di), La furia dei venti contrari. Variazioni Amelia Rosselli, Firenze, Le Lettere, 2007, p. XX
10 Cfr. E. Tandello, Amelia Rosselli. La fanciulla e l’infinito, Roma, Donzelli, 2007
11 A. Rosselli, Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 156
12 Ivi, p. 57.
13 A. Rosselli, Documento (1966-1973), Garzanti, Milano 1976; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 437
14 Id., Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 7 e p. 94
15 Ivi, p. 76
16 Id., Documento (1966-1973), cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 472
17 Id., Serie Ospedaliera (1963-1965), Milano, il Saggiatore, 1969; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 254
18 Id., Diario Ottuso (1954-1968), cit., p. 849
19 Id., Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 41
20 Id., Serie Ospedaliera (1963-1965), cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 225.
21 Ibid.
22 A. Rosselli, Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 154
23 Ivi, p. 149.
24 Ivi, 195.
25 A. Rosselli, La Libellula (1958), in Serie Ospedaliera (1963-1965), cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 302.
26 Ivi, p. 256.
27 A. Rosselli, Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 40. Il neologismo “etmisfero” nasce dalla fusione di “emisfero” e “atmosfera”. Cfr.: A. Rosselli, Glossarietto Esplicativo per Variazioni Belliche, parzialmente pubblicato da S. Ritrovato, Il “Glossarietto esplicativo” di Amelia Rosselli per “Variazioni belliche”, in “Profili letterari”, IV, 5, 1994, pp. 101-7; poi integralmente in Aa.Vv, «Trasparenze», nn. 17-19, a cura di G. Devoto-E. Tandello, supplemento non periodico a «Quaderni di poesia», a cura di G. Devoto, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2003, pp. 15-22; poi in A. Rosselli, Una scrittura plurale, cit., p. 70
28 A. Rosselli, Serie Ospedaliera (1963-1965), cit., in Id., L’opera poetica, cit., p. 232
29 Ivi, p. 302
30 A. Rosselli, Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 154
31 Id., Documento (1966-1973), cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p. 472
32 Id., Serie Ospedaliera (1963-1965), cit., in Id., L’opera poetica, cit., p. 297
33 Ibid.
34 A. Rosselli, Variazioni Belliche, cit.; in Id., L’opera poetica, cit., p. 23. Per uno studio analitico della “grammatica dei poveri” nel linguaggio rosselliano si rinvia a T. Bisanti, L’opera plurilingue di Amelia Rosselli. Un «distorto, inesperto, espertissimo linguaggio», Pisa, ETS, 2007, pp. 121-141.
35 Id., Variazioni Belliche, cit.; in Id., L’opera poetica, cit., pp. 72, 157 e 48.
36 Ivi,
37 A. Rosselli, Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., L’opera poetica , cit., p. 46. In Glossarietto Esplicativo il termine è così commentato: «“congenita” + “congenital” (inglese per congenita) + “genitale”: fusione dei tre in senso grottesco-allusivo». In: A. Rosselli, Glossarietto Esplicativo per Variazioni Belliche, cit., in Id., Una scrittura plurale, Saggi e interventi critici, cit., p. 70
38 A. Rosselli, Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., L’opera poetica, cit., p.69. Nel Glossarietto: «car (francese per “perchè”: si ritrova spesso nella serie Poesie, come parola chiave)». In A. Rosselli, Glossarietto Esplicativo per Variazioni Belliche, cit., in Id., Una scrittura plurale, Saggi e interventi critici, cit., p. 69
39 A. Rosselli, Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., L’opera poetica , cit., p. 115.
40 A. Rosselli, Serie Ospedaliera (1963-1965), cit., in Id., L’opera poetica, cit., p. 302
41 Id., Variazioni Belliche, cit.; in Id., L’opera poetica, cit., p. 46.
42 Id., Serie Ospedaliera (1963-1965), cit., in Id., L’opera poetica, cit., p. 233.
43 Id., La Libellula (1958), cit., in Id., L’opera poetica, cit., p. 201.
44 Id., Serie Ospedaliera (1963-1965), cit., in Id., L’opera poetica, cit., p. 270.
45 E’ la poetessa a definire “invenzioni” (piuttosto che errori involontari” o sovrapposizioni delle diverse lingue”) i lapsus” di cui parla Pasolini: Il primo a parlarne fu Pasolini in un saggio scritto come postfazione alle mie prime poesie, pubblicate da Vittorini sul “Menabò” n.6 del 63. Io gli avevo consegnato un mio personale glossario, spiegandogli il perché di queste fusioni di parole, di questi giochi linguistici. […] Ma, molto più spesso non si tratta che di invenzioni di parole, incroci di lingue, di slang o anche di grafismi, che portano chiaro l’influsso di Cummings e di Hopkins […]”. Intervista rilasciata a F. Borrelli, Partitura in versi, «il manifesto», 14 maggio 1992; poi in A. Rosselli, Una scrittura plurale, cit., p. 307. Per quanto riguarda il saggio di Pasolini cfr.: P.P. Pasolini, Notizia su Amelia Rosselli, «il Menabò», 6, 17 settembre 1963, pp. 42-69; poi in A. Rosselli, Variazioni belliche, cit.; poi in A. Rosselli, La libellula, con uno scritto di P.P.Pasolini, Milano, Studio Editoriale, 1996; infine in P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, Milano, Mondadori, 1999, t. II, pp. 2416-9.
46 A. Rosselli, Spazi metrici, allegato a Variazioni Belliche, cit.; ora in Id., Una scrittura plurale, cit., p. 64.
47 A. Rosselli, Variazioni Belliche, cit.; in Id., L’opera poetica, cit., p. 7. Il neologismo “babelare” rimanda sia al linguaggio infantile sia al balbettio dello straniero che, con la sua pronuncia “barbara”, deforma la lingua. Si riporta il commento di La Penna: “E’ degno di nota che il lapsus che inaugura il debutto poetico della Rosselli in italiano sia proprio quel «babelare» che meglio interpreta il senso del gioco combinatorio linguistico […]. Fusione di «belare» e «Babele» ma conservante la memoria dell’inglese babble (verbo che designa sia il discorso prelocutorio del bambino ma anche il balbettio e il mormorare), il neologismo rosselliano condensa la poetica sottesa alla ricerca linguistica […]”. In D. La Penna, «La promessa d’un semplice linguaggio». Lingua e stile nella poesia di Amelia Rosselli, cit., p. 34.
48 L. Re, Variazioni su Amelia Rosselli, in “Quaderni di Italianistica”, XIV, 1993.
49 A. Rosselli, Spazi metrici, in appendice a Id., Variazioni belliche, cit., ora in Id., Una scrittura plurale, cit., p. 65.
50 Ivi, p. 63.
51 Ivi, p. 66.