Sabato, 29 Aprile 2017 18:36

Trafficare in libri per la vita intera. Roberto Roversi, le riviste autoprodotte e i fogli di poesia (1977-2011) - I parte

Scritto da Mara Miccoli
Roberto Roversi Roberto Roversi

A partire da questo scritto introduciamo una serie di interventi legati alla figura di Roberto Roversi, scrittore bolognese, poeta e narratore, autore di opere teatrali e canzoni d’autore. In particolare, si indagherà un aspetto specifico del suo lavoro editoriale connesso ai periodici nati negli anni ’80 nella città di Bologna. Il nome di Roversi viene spesso ricordato insieme a quello di Pier Paolo Pasolini per il lavoro svolto su “Officina”, rivista sperimentale degli anni ’50, e per la ricerca condotta tra il ’61 e il ’77 dalle pagine di “Rendiconti”: i periodici cui è dedicato questo intervento, ben lontani da quelle prime esperienze redazionali, si configurano come fogli di poesia militante, autoprodotti e distribuiti in clandestinità, in linea cioè con le esperienze eso-editoriali inaugurate da Roversi con la sua raccolta Descrizioni in atto (1969). L’idea alla base di questo lavoro è maturata da un tentativo di ricostruire la storia della Palmaverde, libreria antiquaria gestita da Roberto Roversi e sua moglie Elena dal 1948 al 2007 nel cuore della cittadina emiliana. Questo luogo, ritrovo di poeti, scrittori e musicisti di diverse generazioni, è stato un centro di produzione editoriale e distribuzione culturale grazie all’editrice omonima e alle riviste concepite al suo interno. Oltre a quelle già menzionate, si possono citare “La Tartana degli influssi”, nata in seno a un’altra esperienza redazionale bolognese, “Il cerchio di gesso”, “Il foglio dei quattro giorni”, pubblicato nel 1981 in occasione delle giornate commemorative dell’attentato alla stazione, “Dispacci”, “Lo Spartivento” e “Numerozero”, riviste legate alla Cooperativa Culturale Dispacci, fondata a Bologna nel 1982. Roversi partecipa a questi fogli “volanti” in qualità di redattore insieme ai giovani scrittori esordienti che all’epoca popolano la sua libreria. E nonostante queste esperienze si spingeranno con il tempo altrove, la Palmaverde resterà uno dei cardini attorno al quale graviterà questo lavoro di aggregazione semi-clandestino ma efficace e di lunga durata.

  

In uno scritto del 1964 Pasolini dipinge Roberto Roversi, amico ed ex compagno di scuola al Liceo Galvani di Bologna, nelle vesti di «un monaco pazzo, che cerca una clausura nella/clausura, per rifare di nuovo il cammino già fatto»[I]. È un’immagine o uno stereotipo diffuso nell’ambiente intellettuale bolognese del tempo, come diffusi accanto al nome dello scrittore erano appellativi quali ‘eremita’ e ‘poeta comunale’, a sottolineare la sua riluttanza nei confronti di riflettori e ospitate mediatiche. In verità Roversi, che fu poeta e libraio, non per semplice professione ma per vera e propria vocazione, preferiva trascorrere la maggior parte del suo tempo “trafficando” con antichi volumi e riviste storiche, riparato nell’ombra della sua libreria antiquaria[II]. Volendo a tutti i costi cercare un appellativo per definirne la personalità, si potrebbe sostituire l’epiteto di eremita con quello più appropriato di bibliofilo. Tanto più che Roversi eremita non lo è mai stato, anzi, per tutta la sua vita ha scelto di circondarsi di intellettuali e artisti di ogni sorta. E proprio con i compagni di questo finto eremitaggio ha dato vita a un’attività divulgativa copiosa ma ai più sconosciuta. Parliamo di un’attività sotterranea e carsica che in Roversi procede di pari passo con l’attività di libraio e scrittore, parliamo della produzione di fogli di poesia militante autogestita e autoprodotta.

L’apporto da lui offerto a questi “fogli volanti”, più o meno contemporanei a “La Tartana degli influssi”, rivista sulla quale si soffermerà questo intervento, consiste nel aver dato una struttura solida alle istanze pressanti e disordinate che animavano il sottosuolo giovanile bolognese. Quella che appariva chiara, indispensabile, era la necessità di ricercare un modello editoriale appropriato che permettesse di essere ovunque nel minor tempo possibile e che coinvolgesse il maggior numero di poeti esordienti.

È questa una necessità, un’urgenza artistica, venutasi a creare in anni difficili, confusi dal punto di vista politico e disordinati sul versante sociale: sono gli anni della contestazione operaia e studentesca sorta dagli strascichi sessantottini e nota a livello nazionale come “il Movimento del ’77”. Questa nuova spinta rivoluzionaria viene guidata in Italia da gruppi che si oppongono al sistema dei partiti e dei sindacati, causando proteste spesso violente e estreme. In questo clima di tensione la città di Bologna è segnata nel profondo dalla morte di un manifestante: Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua, ucciso dall’intervento armato delle forze dell’ordine durante gli scontri nelle strade del capoluogo. L’accaduto provoca una forte reazione nell’opinione pubblica che sancisce la condanna della violenza e dell’uso strumentalizzato del potere, portando presto la situazione a degenerare: in tutte le città d’Italia vengono organizzate manifestazioni di piazza e Bologna diviene un campo di battaglia costantemente pattugliato dalle forze armate. Nel settembre dello stesso anno, in seguito a un appello contro la repressione apparso sul quotidiano “Lotta Continua” e firmato da intellettuali europei del calibro di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, viene organizzato nella cittadina emiliana “Il Convegno sulla repressione”. Per l’occasione giovani da tutta Italia invadono Bologna, palcoscenico prescelto per dibattiti, rappresentazioni musicali e teatrali, per gridare il loro ‘no’ alla violenza. L’amministrazione bolognese in queste giornate reagisce con esemplare tolleranza, offrendo alloggi, cibo e spazi di incontro per lo svolgimento del convegno.

Roberto Roversi, in quel ’77, assiste con sconcerto ai fatti che sconvolgono la sua stessa città[III]. Lo preoccupa la violenza degli scontri tra poliziotti e manifestanti, lo disarma la distanza del partito dai giovani, condanna la reazione del Comune ai fatti di sangue:

 

Cosa mi sarei aspettato io, cittadino bolognese? Prima di tutto che la manifestazione unitaria, svoltasi a fatti compiuti, si organizzasse il giorno stesso dell’eccidio per coinvolgere (come si chiedeva) il movimento degli studenti in un’azione che desse un pronto significato politico alla rabbia giusta e all’autentico dolore di questi giovani troppo spesso insultati dalla retorica ufficiale. Tale incontro, oltre a ricucire i contenuti politici, avrebbe servito a isolare i pochi esagitati irrazionali e i molti provocatori di professione che si stavano infiltrando nelle strade in quelle ore di orgasmo.[IV]

 

È questo un momento di forte presa di coscienza a cui segue un distacco dal PCI e dalle istituzioni politiche bolognesi. Al 1976, anno della pubblicazione del romanzo I diecimila cavalli (Editori Riuniti) risaliva il periodo della massima vicinanza di Roversi al partito, come testimonia il gran numero di interventi su “L’Unità”, l’organo ufficiale della stampa di sinistra. Adesso, un anno dopo, uno strappo recide il legame dell’intellettuale con la politica e la cultura organizzata. Questo cambiamento si traduce sul versante poetico nel Libro Paradiso (Lacaita, 1993) raccolta che incorpora gli scritti composti «nei primi giorni del marzo ‘77», in reazione all’improvvisa ondata di violenze. La rabbia e il furore politico, già caratteristici della scrittura precedente di Roversi, da Dopo Campoformio alle Descrizioni in atto, appaiono qui in tutta la loro potenza visionaria e frontale:

 

  1. A che punto è la città?

La città si ferisce

camminando

sopra i cristalli di cento vetrine.

 

  1. A che punto è la città?

La città piange e fa pena.

Poi elicotteri in aria

perché le vetrine sono rotte

Le vecchiette allibite

perché le vetrine sono rotte

Commendatori adirati

perché le vetrine sono rotte

I tramvieri incazzati

perché le vetrine sono rotte

Tutte le strade deserte

perché le vetrine sono rotte

Carabinieri schierati

perché le vetrine sono rotte

Sessantamila studenti

perché le vetrine sono rotte

Massacrati di botte

perché le vetrine sono rotte.[V]

 

Questi testi, espressione corale di un sentimento di terrore e sconforto, vengono ospitati sul primo numero de “Il cerchio di gesso”, nel giugno ’77. Le pagine di questa rivista, attraverso il lavoro dei suoi fondatori, Roberto Roversi, Gianni Scalia, Pietro Bonfiglioli e Federico Stame, provano ad affiancare al movimento contestatario di quegli anni un discorso ragionato sulla gestione e la distribuzione diretta della comunicazione. Nel primo numero della rivista, inoltre, compare un “Documento per radio Alice”, radio libera sorta negli anni Settanta e soppressa proprio durante i fatti del ‘77, sottoscritto da molti intellettuali[VI].

La rivista si occupa di tematiche politiche e letterarie secondo un orientamento socio-culturale ben preciso, che segue le mode e le tendenze della pop art e della beat generation di fine anni Sessanta. Molto spazio è dedicato al tema della dissidenza giovanile[VII], all’analisi dei cambiamenti della società, al dibattito filosofico post marxista e all’involuzione dei partiti di massa. Sulle pagine de “Il Cerchio di gesso” Roversi pubblica riflessioni sull’attualità e contributi poetici, come le Cento poesie, apparse sul terzo numero e in seguito incluse anch’esse nella raccolta Il Libro Paradiso. Tra i vari interventi ospitati in rivista, un esordiente Stefano Benni fa la sua apparizione con le poesie Black-out.

All’interno di alcuni fascicoli compaiono inoltre contributi artistici come i bozzetti del fumettista Andrea Pazienza[VIII] e una litografia di Mario Schifano[IX], realizzata per sostenere il finanziamento della rivista.

Varie problematiche di gestione porteranno la rivista a chiudere i battenti nel 1979, con all’attivo sette uscite. L’esperienza de “Il cerchio di gesso” è ancora lontana dal lavoro clandestino e autoprodotto che caratterizzerà i fogli poetici degli anni ’80, ma è proprio durante questi anni che Roversi fa la conoscenza di Maurizio Maldini, l’allora amministratore e responsabile di redazione, con il quale stringe un sodalizio artistico che poco dopo porterà alla creazione di un’altra rivista: “La Tartana degli influssi”. Quest’ultima viene pubblicata come supplemento a “Il cerchio di gesso”, ma solo a fini legali:  in realtà il nuovo foglio usa metodi di espressione differenti rispetto al precedente, sia per le modalità di distribuzione che per i contenuti. Lontani dai formati classici delle riviste degli anni ’50 e ’60, ci troviamo in presenza di veri e propri “fogli volanti”, essendo “La Tartana degli influssi” in effetti costituita da un unico foglio ripiegato più volte. La prima pagina contiene l’avvertenza: «Cerchiamo di iniziare un lavoro meno approssimativo, anzi magari rigoroso, sulla poesia scritta e parlata che i giovani, in questi anni, continuano a distribuire»[X]. La copertina è uguale per tutti i numeri: sullo sfondo di un tramonto spicca un serpente avvinghiato a un ramo. Il disegno è firmato da Renzo Zanetti, artista già noto ai lettori de “Il cerchio di gesso”. 

“La Tartana degli influssi” è un raccoglitore di poesia: «c’è molto materiale sotterraneo e confuso, c’è molto materiale sconosciuto. Facciamo che si possa far conoscere e girare con continuità e disinteresse»[XI]. La poesia è a Bologna una presenza costante, molti giovani scrivono e pochissimi pubblicano. I curatori cercano di creare un centro di raccolta per tutti gli scrittori in ombra, «chiunque sia giovane e scriva poesie (buone poesie) e sia senza editore spedisca se vuole i propri dattiloscritti in due copie, con un indirizzo chiaro ed esatto alla “CASELLA POSTALE 388 – 40100 BOLOGNA”». Col passare dei mesi all’indirizzo di posta giungono centinaia di lettere: poeti di tutte le età e da ogni città d’Italia spediscono al gruppo redazionale il proprio materiale («riceviamo una media di oltre venti plichi con lettera allegata al giorno») e la casella è spesso intasata. Si pongono le basi per la costruzione di un archivio ingente che raccolga tutti questi scritti.

Le pagine del periodico ospitano gli interventi di scrittori semisconosciuti, in versi o in prosa, mentre i curatori non partecipano mai direttamente con i loro brani. Sull’ottavo numero appare Una nota dopo un anno di Tartana, in cui i redattori, ora divenuti tre con l’aggiunta di Giulio Forconi, stilano un bilancio del lavoro della rivista, ammettendone i limiti materiali e esortando i lettori alla collaborazione. I problemi di ordine finanziario cui “La Tartana” va incontro sono dovuti ai metodi di distribuzione: la rivista non è venduta, ma consegnata gratuitamente o spedita a chiunque ne faccia richiesta scritta allegando un francobollo postale. Ancora dalla nota, traspare il cruccio dei redattori di non poter rispondere a tutti i messaggi giunti per posta, a causa del loro altissimo numero, anche se spesso ci si trova in presenza di «autentici messaggi umani inviati da situazione di grande solitudine».

Il numero 12 de “La Tartana degli influssi”, il penultimo della rivista, ospita al suo interno un messaggio dal forte impatto emotivo.

 

Caro Roversi,

in un periodo in cui la comunicazione è interrotta, i linguaggi sono affogati nel non senso, le parole sono malate: pensiamo che uno dei pochi modi per vivere come esseri sociali intelligenti e liberi sia fare poesia. Dalla galera non escono solo messaggi di guerra e di morte (questi sono gli unici messaggi che lo Stato permette che escano); c’è tutta una vita e una generazione che paga le proprie illusioni e le proprie speranze e, soprattutto, persone vive che, pur nello schifo e nella violenza dello Stato, vogliono parlare e comunicare, distruggendo la barriera che il carcere ha il compito di costruire per mettere a tacere ogni forma di vita irrecuperabilmente unica. Con la poesia non vogliamo far altro che parlare e dare un senso alle nostre voci.

Ti alleghiamo alcune nostre poesie.

 

La missiva è firmata da tre uomini (G. Borioni, G. Maccari, G. Miagostovich), autori cui è dedicata tutta la parte centrale della rivista; della lettera sono riportati il manoscritto calligrafico, la sigla della casa circondariale di Trani e alcuni disegni schizzati a penna dai detenuti. Tra i centinaia di messaggi poetici indirizzati a Roversi, i redattori scelgono di divulgarne uno partorito da condizioni di vita estreme, lanciando così un grido di speranza sul versante dell’impegno sociale. 

Negli ultimi fascicoli della rivista, datati al 1982, si riscontrano alcuni indizi di cambiamento: sull’ottavo numero appare un nuovo segno distintivo, l’effige stilizzata di un animale dalle lunghe zampe, che diverrà il logo con cui la Cooperativa Culturale Dispacci, cooperativa fondata di lì a poco per tentare di creare un organo gestionale delle risorse poetiche messe in gioco dalle nuove iniziative, firmerà i propri lavori. Ed effettivamente gli ultimi esemplari della rivista recano una didascalia in copertina: “Edito a cura della Coop. Culturale ‘DISPACCI’ Bologna”. Siamo a cavallo di una nuova esperienza culturale.

 Il gruppo redazionale de “La Tartana degli influssi” si rende testimone di un altro avvenimento storico che sconvolge la cittadina emiliana, la strage alla stazione di Bologna: è il 2 agosto 1980, la bomba esplode alle 10 e 25 nella sala d’attesa della seconda classe, in una stazione stracolma di turisti e cittadini bolognesi. I morti sono 85, i feriti più di 200. Si tratta dell’attentato terroristico più grave che abbia colpito l’Italia durante gli anni di piombo. La grande ondata di terrore innescata dalle “politiche della tensione” degli anni Settanta giunge all’apice. Roversi e i suoi fogli e amici “clandestini” non resteranno in silenzio.

 

 

[I] PIER PAOLO PASOLINI, Nuova poesia a forma di rosa, Garzanti, 1964.

[II] «Dicono ahi povero/ amico/ hai trafficato in libri per la vita intera /senza scriverne uno/come un vecchio che vede figli di altri per i prati correndo/ nelle domeniche d’estate». ROBERTO ROVERSI, L’Italia sepolta sotto la neve, AER Edizioni, Pieve di Cento, 2010, testo 235.

[III] Cfr. l’intervento di Roberto Roversi Il conflitto è nel(la) comunicazione in F. BERARDI e V. BRIDI, a cura di, 1977: l'anno in cui il futuro incominciò, Fandango Libri-Istituto Gramsci Emilia Romagna, 2002.

[IV] R. ROVERSI, Nell’ergastolo delle istituzioni, “Inchiesta 37”, gennaio-febbraio 1979, pp. 5-9.

[V] R. ROVERSI, Il libro Paradiso. Undici poesie degli anni ’70 e ’80, a cura di A. Motta, con un’acquaforte di Piero Guccione, Laicata ed., Manduria (TA), 1993 ora in ID., Tre poesie e alcune prose, cit., pp.285-286.

[VI] La radio venne fondata nel 1975 da un gruppo di studenti del DAMS di Bologna e ebbe la sua sede in via del Pratello, nel cuore della cittadina emiliana. Il suo nome fu ispirato dal racconto di Lewis Carrol Le avventure di Alice nel Paese delle meraviglie. La radio rappresentò nello scenario culturale dell’epoca un originale esperimento comunicativo in cui istanze artistiche e tematiche politiche si mescolavano in continui intrecci, mediante il diffuso ricorso all’improvvisazione e alla diretta telefonica all’interno dei programmi. Radio Alice venne chiusa nel marzo del 1977 a seguito di un’irruzione armata dei carabinieri: si accusava l’emittente di aver diretto gli scontri di piazza di quell’anno.

[VII] «Il male che gli anziani denunciano è la dissidenza, vale a dire la colpa della parzialità, della separazione volontaria dal corpo sociale, della vocazione viziosa e minoritaria, masochista e perniciosa, all’estraneità e all’autoesclusione. Gli anziani fingono di ignorare che gli appestati e i seminatori di contagio sono dovunque, che la malattia è per sortilegio la faccia stessa della salute, che l’intera comunità è coinvolta». VITTORIO BOARINI, PIETRO BONFIGLIOLI, Ontologia del dissenso, in “Il Cerchio di gesso”, anno II, n.3, maggio 1978, p.13.

[VIII] Si veda il n.3 del maggio 1978, pp.39-42, all’interno dell’articolo di Maurizio Maldini Lo squisito delirio.

[IX] Pubblicata sulla quarta di copertina del numero sei-sette del 1979.

[X] “La Tartana degli influssi”, foglio secondo. Il titolo della rivista è un omaggio all’omonima opera teatrale di Carlo Gozzi (La tartana degli influssi invisibili per l’anno bisestile 1756), commediografo e scrittore veneziano del Settecento.

[XI] Ivi, quarta di copertina.