Giovedì, 26 Dicembre 2024 11:48

La storiografia espressionista di Roberto Roversi

Scritto da Fabio Moliterni

La storiografia espressionista di Roberto Roversi

scritto da Fabio Moliterni

[È uscito il nuovo numero della rivista "L'ospite ingrato", con un dossier monografico su Roberto Roversi, a cura di Gabriele Fichera, Fabio Moliterni, Tiziano Toracca. Per l'occasione si ripropone un intervento dedicato a Roversi, pubblicato su "l'immaginazione", n. 271, settembre-ottobre 2012].

 

Dopo una prova giovanile mai più ripresa, Roversi pubblica con Caccia all’uomo (1959) il suo primo romanzo. Il titolo è suggerito da Vittorini, il quale ospitò il libro nella collana Medusa che dirigeva per Mondadori. Il romanzo recupera i racconti di Ai tempi di re Gioacchino (1952) che videro la luce in una collana di “opere nuove e diverse”, Il circolo, stampata da quella libreria Palmaverde che sarà la sede editoriale di “Officina”. “Prose borboniche”, come le definisce Sciascia, frammenti narrativi sull’occupazione napoleonica lungo il primo decennio dell’Ottocento in Italia, tra le violenze del brigantaggio e l’oppressione popolare, ovvero Lettres d’Italie alla maniera di Stendhal e Courier, secondo il commento di Cajumi: i racconti costituiscono la genesi diretta del romanzo e gettano una luce originale sul tempo degli esordi roversiani, esordi che cadono nei “dieci inverni” segnati da Fortini per indicare il decennio 1947-1957.

Nel campo letterario, accanto alla spinta e all’esaurirsi della vulgata neorealista, cominciavano ad agire esperienze isolate ma distanti dagli schemi stilistici di un realismo che “sembrava tutto fagocitare”, ricorda oggi Roversi, “annebbiando in un lucore un po’ polveroso il panorama delle cose appena patite”. Le eredità o le tradizioni che sono alla base degli esordi di qualsiasi autore costituiscono gli elementi decisivi per individuarne la posizione nel contesto culturale. Si pensi alle derivazioni che nutrono il tempo della formazione letteraria di Calvino e Fenoglio, per citare due autori coetanei di Roversi e come lui artefici di una linea alternativa ai (neo)realismi codificati. Come per gli esempi citati, ma in una marcata originalità che ne contrassegna il destino e la ricezione nel campo letterario del secondo Novecento, anche Roversi sceglie di ripercorrere la violenza della Storia che aveva appena squassato l’Italia – tra fascismi e guerre civili – da una posizione eterodossa ed eccentrica che nulla concedeva alle retoriche o alle tentazioni elegiache della narrativa più diffusa, retrocedendo alle origini della modernità (italiana ed europea), tra Sette e Ottocento, per trovare strumenti espressivi congeniali al bisogno di testimonianza e racconto.

Il nucleo della narrazione è rappresentato dagli incroci tra il lato tragico della Storia e il polveroso o puntiforme universo della microstoria, una galleria di vinti e un vittoriniano “popolo offeso” dal quale emergono i ritratti di donne e giovani, briganti, colonnelli e soldati semplici (con l’attenzione filologica offerta alle topografie e ai nomi propri: “Segno i nomi dell’avversario, venduti al francese; nomi da ricordare. Lebruni capo squadrone della gendarmeria e Averna tenente”, p. 140). Ma la precisione e la documentazione storica, insieme con gli squarci espressionistici di una fenomenologia di degrado e violenza (anche dei sensi), convivono con un originalissimo impasto linguistico e stilistico, tra densità figurale e compostezza formale, ai limiti del manierismo e dell’iperletterarietà, con il ricorrere di similitudini e metafore, una prosa sorvegliata che recupera il ritmo dell’endecasillabo, cultismi e citazioni, simboli o allegorie (i sassi, il mare).

In linea con le poesie degli anni Cinquanta che confluiranno in Dopo Campoformio (1962), e soprattutto con la militanza officinesca, anche in Caccia all’uomo il materiale autobiografico-esistenziale, insieme all’urgenza civile che connota da sempre l’espressione letteraria di Roversi, sono sottoposti a una rigorosa verifica filologica e formale prima ancora che ideologica. Il tessuto stilistico del romanzo è il risultato di un lavoro non pacificato di escussione delle fonti e di revisione della tradizione letteraria. A partire da questo abbrivio si possono valutare l’andamento narrativo che alterna i modi del memoriale apocrifo alla rielaborazione letteraria di documenti autentici; la narrazione di carattere diaristico in combinazione con l’oralità del racconto popolare; gli squarci lirici di una natura vivida ma torturata che convivono con il ritmo serrato di cronache o descrizioni di battaglie e agguati, vendette e stragi; la natura frammentaria di una prosa che dialoga con i modelli dell’espressionismo otto-novecentesco, di ambito vociano e pre-vociano – con le marche stilistiche di quella tradizione che vengono scolpite nell’impasto lessicale, nella struttura sintattica e nella punteggiatura (con l’uso parossistico del punto e virgola). Le escursioni linguistiche sono da inquadrare nell’ottica di questa “storiografia espressionista” che accompagna Roversi nel ripercorrere il passato prossimo della nazione con il filtro della distanza storica: si registrano occorrenze auliche ma soprattutto arcaismi (“verzicare”, “imporporare”, “lontanare”), insieme all’immersione in un campo lessicale che mima e restituisce senza indugi la materialità del reale, con un ritmo sillabato che ne riporta la tragicità immanente e fatale: “Abbiamo fame; […]. Mangiamo i cavalli e abbandoniamo i cadaveri lungo la strada”, p. 149. Anche i tempi verbali sono impiegati per narrare di quella guerra “forsennata” nei primi anni dell’Ottocento in Italia, ma soprattutto della guerra intesa come condizione di “[…] orrore / spietatezza infame” che sfonda l’asse temporale di ogni ingenuo storicismo e allude, con l’utilizzo fitto del presente storico e assoluto, a una minaccia ciclica, irreparabile e imminente che va ben oltre la cronaca e chiama in causa il lettore contemporaneo.