Domenica, 14 Maggio 2023 19:48

Cùntura, tiatru, flatus vocis: la poesia di Nino De Vita

Scritto da Fabio Moliterni

Come accade nelle migliori esperienze letterarie, anche la poesia di Nino De Vita si fonda su una dialettica paradossale e irrisolta che è capace di far convivere gli opposti e i contrari, una tensione senza scioglimento che coinvolge la forma del contenuto, le strutture testuali e il repertorio dei temi da sempre al centro della sua opera in versi. Alcuni suoi testi sono ora leggibili in un’antologia d’autore che inaugura la collana novecento/duemila diretta per Le Lettere da Diego Bertelli e Raoul Bruni (Il bianco della luna. Antologia personale 1984-2019, 2020, pp. 240): abbiamo la possibilità di ripercorrere un itinerario che parte dagli esordi in lingua di Fosse chiti (1984) e approda alle raccolte scritte in dialetto pubblicate negli anni Duemila (da Cutusìu, del 2001, a Nnòmura, del 2005) fino al recente Tiatru (2019), con l’aggiunta di versi inediti che provengono dal libro al quale sta lavorando il poeta di Marsala, Tuttu ‘u munnu si rruri. Disponiamo, allora, di un diagramma che riassume i tratti ricorrenti, le proprietà invarianti dell’opera di De Vita e che insieme ne rivela, dall’interno, le variazioni e gli sviluppi, il carattere fecondo e polifonico della sua scrittura, nel presentarci forme nucleari stabili e quasi cristallizzate ma innestate in nuovi conglomerati che nel corso del tempo vanno a comporre una stratigrafia molto più ricca, dinamica e complessa di quanto possa risultare a una prima lettura la sua poesia.

A guardare bene, la stessa struttura costitutivamente bifronte della sua opera – da leggere, a partire dai versi di Cutusiu (2001), “con testo a fronte” tra il “micro-dialetto” della sua contrada marsalese e le auto-traduzioni in lingua italiana – rappresenta l’abbrivio, nient’affatto scontato, per attraversare l’esperienza poetica di De Vita nell’ottica di quella tensione (senza sintesi) tra poli solo apparentemente inconciliabili e distanti di cui parlavo all’inizio di queste mie brevi note. Perché, ad esempio, la scelta dell’idioletto di Cutusio, una varietà dialettale a estensione minima che andrebbe meglio definita come vernacolo, se convive da un lato con le forme testuali della scrittura letteraria contemporanea, dall’altro è lo strumento di un carotaggio (di carattere puramente sonoro e musicale, ma anche con sotterranee risonanze o ricadute antropologiche) per sprofondare nella memoria privata e collettiva, per restituire voce o parvenze all’esperienza vissuta di persone e personaggi comuni sottratti all’oblio, così come ai “fantasmi” interiori dell’autore. Un’operazione di scavo etnografico e di “archeologia della lingua” che tiene insieme l’infanzia e la storia, l’io e il mondo, le lingue ufficiali e quelle mute o “inaudite”, violando di continuo le frontiere e i confini tra l’animato e l’inanimato, gli uomini e le bestie, i vivi e i morti (si leggano qui i componimenti Rrusulia, da Sulità, e ‘A festa ri morti, da Tiatru).

Consideriamo anche le trame volutamente elementari dei suoi racconti in versi, dei suoi Cùntura: fissate nei modi parattatici e nel lessico scabro tipici del parlato e dell’oralità, non si risolvono mai nell’orizzontalità lineare dell’apologo né ricorrono in explicit alla lettura a chiave, ma al contrario prevedono, con i loro finali aperti e stranianti, l’attivazione in verticale della dimensione onirica e visionaria, e restano sospesi quasi sempre tra sogno e leggenda, fiaba e realtà. È il ritmo del respiro che emerge dalla sua scrittura, un flatus vocis primordiale e insieme concretissimo e terragno, a dare consistenza al repertorio apparentemente statico ma invece mutevole e poli-prospettico delle poesie di De Vita. Che si intrecciano di continuo con le gittate di un’epica dal basso abitata dagli oppressi e dai subalterni, le “persone vive” delle quali parlava Ernesto de Martino nella Terra del rimorso; si ibridano con i modelli retorici della cultura orale (le “historiolae” e i dialoghi teatrali, i botta e risposta), ma anche con i frammenti di un romanzo di formazione (o di iniziazione) che vede protagonista il soggetto lirico, Ninu, tra presagi, incontri e agnizioni, passato prossimo e remoto.

I tempi verbali con i quali sono rappresentate le azioni di questo Lebenswelt intimo e popolare, privato e comunitario sono a loro volta il segnacolo formale di una narrazione corale che fuoriesce da ogni ripiegamento esclusivamente soggettivo; si dividono per questo tra il passato remoto dell’azione puntuale e compiuta, il tempo del mito, e il tempo durativo dell’imperfetto – una “lentezza di durata” ribattuta dalla tecnica ricorrente della ripetizione: “E taliava, taliava, / mi taliava, azziccusu” (p. 104); “Taliava, sempri chi / taliava” (p. 186); “E ‘u ciàvuru ri rrosi / pi ddintra ‘a casa, u’ ciàvuru / rru ggelsuminu […]. / ‘Unn’agghicava ‘u ciàvuru ru mari” (p. 220). Forse il segreto che rende così rara e preziosa la poesia di de Vita sta proprio in questo sovrapporsi o andirivieni tra mito e storia: nella compenetrazione tra un’origine arcaica e rituale da cui sembra derivare la sua parola poetica, e uno sguardo vitale e puro che restituisce, con una pietas radicale e senza riparo, la percezione del quotidiano procedere dei cicli e degli eventi della natura non meno che delle vicende degli uomini.

 

 

[Questa recensione è uscita in “l’immaginazione”, n. 322, 2021, p. 60-61]