“Tre mogli, un’enorme capacità di lavoro, un’enorme quantità di lavoro, e di viaggi e di passioni”[1]: così Patrizia Valduga riassumeva la vita di Giovanni Raboni. Oggi abbiamo la possibilità di ripercorrere anche la sua attività di critico letterario, grazie al volume curato da Luca Daino, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro (Mondadori, 2019), che contiene centosettanta delle “innumerevoli stroncature firmate da Raboni nel corso della sua carriera”[2] (dal 1964 al 2004, anno della sua scomparsa). Daino espone nell’Introduzione i due motivi principali che contrassegnano questo versante della sua attività letteraria: il primo è l’“onestà”; il secondo rimanda alla vastità degli ambiti di cui Raboni s’interessava.
Scriveva sul «Corriere della Sera» il 4 settembre 1998: “Una stroncatura, pur che abbia un minimo di fondamento, serve alla buona salute della letteratura cento volte di più, non solo del silenzio, ma anche di un elogio infondato”[3]. Da ciò si può ben intendere quanto per Raboni l’elemento fondamentale di una corretta recensione fosse l’attenersi alla realtà oggettiva, l’impiego coerente dell’occhio lucido del critico. A questo si aggiunge un altro basilare quanto raro principio, vale a dire l’indifferenza che il critico deve mantenere nei riguardi dell’identità dell’autore da “stroncare” (quando ce n’è oggettivamente bisogno) e rispetto ad altri fattori esterni, come ad esempio il parere della maggioranza degli altri critici o l’andamento del mercato editoriale. Raboni stesso si è trovato a stroncare, quando lo ha ritenuto necessario, opere di figure di rilievo nel panorama letterario o teatrale novecentesco come Italo Calvino, Carmelo Bene, Gaber, Sciascia.
In un articolo del 20 novembre 1999 pubblicato sul «Corriere della Sera», Raboni descrive Sciascia come un narratore arido, secco, privo di qualsivoglia “profondità verbale, di pluralità di senso”[4]. Quest’ultima è da intendere come una impossibilità di leggere i romanzi sciasciani in una chiave diversa da quella ideologica, “a tesi”, quindi di parte. Raboni stronca senza remore ciò che secondo la sua visione non rispecchia la definizione di scrittore (“Se questo è – come molti hanno l’aria […] di credere o voler credere – un grande scrittore, stiamo freschi davvero”), o più ampiamente, di letteratura, mettendo in discussione un autore con fama e curriculum considerevoli, per perseguire il principio etico di oggettività, dell’“informare (e così formare)”[5].
Articolo dopo articolo, si nota la maturazione intellettuale del critico, che con i toni sempre più sarcastici affronta questioni che esulano dalla critica tout court, spostandosi su ambiti extra o paraletterari. Ricordiamo a tal proposito l’articolo del 1991 per il «Corriere della Sera», dove è presente una trattazione linguistica sull’“odiosa mania italiana di parlar male”[6] e nel quale è preso in esame il linguaggio utilizzato dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga; si legga anche la recensione del libro Best seller all’italiana di Gian Carlo Ferretti[7] pubblicata su «Rinascita» il 29 aprile 1983[8], dove, prendendo spunto dal contenuto di questo saggio, Raboni analizza la condizione di ristagno in cui versa l’industria editoriale del romanzo.
Raboni accusa gli editori di cercare ostinatamente un “compromesso medio”, vale a dire quella medietà che contraddistingue il romanzo di consumo, un romanzo privo sia di accenti innovativi che di brutture clamorose e che si situa quindi in una posizione intermedia del mercato editoriale, che non sa né conquistare nuovo pubblico, né tenersi stretto quello di sempre. Da quest’accusa neanche la scrittura in versi riesce a mettersi in salvo, perché precedentemente, in un articolo del 19 ottobre 1979 pubblicato su «Rinascita»[9], Raboni si interroga sui moventi dello stesso ristagno nell’ambito della produzione editoriale poetica. Anche qui l’origine della mediocrità è individuata negli errori degli editori che “non ci credono” e quindi non attuano una adatta e coerente selezione poetica. Perché ciò avviene? Secondo Raboni, per due motivi: per la scarsità di lettori, e per la vasta, vastissima produzione poetica. Conseguenza di ciò è che le pubblicazioni poetiche finiscono con l’essere “sterminate e inafferrabili” e, come anticipato, non selezionate. Questo circolo vizioso finisce poi col chiudersi con l’inerzia dei critici che tendono a non occuparsi più di poesia, dedicando il “novantanove per cento della loro attenzione alla narrativa bella o brutta che sia”, riducendo ancora di più la stesura e la pubblicazione di antologie poetiche, gettando il sistema nel ristagno editoriale e culturale, lasciando nel dimenticatoio tutta la poesia italiana contemporanea.
Alla luce di ciò che si è detto finora (soprattutto ripensando all’articolo su Sciascia), si potrebbe dire che Raboni si scagli aspramente contro il concetto di auctoritas, e vada controcorrente appellandosi al principio di verità, di onestà intellettuale. D’altra parte, merita un approfondimento particolare l’atteggiamento che emerge da questi Scritti militanti nei confronti della scrittura poetica, e che riconduce inevitabilmente alla duplice identità del Raboni critico e poeta.
Proprio riguardo alla scrittura poetica e al mancato scouting da parte di critici ed editori, lo stesso Raboni dedica qualche riga sul numero del 28 aprile 1989 de «L’Europeo»[10], portando all’attenzione del lettore una gaffe clamorosa firmata Garzanti. La casa editrice, infatti, per opera delle curatrici Cenni e Dino, aveva riproposto Antonia Pozzi, una poetessa della prima metà del Novecento, morta suicida a ventisei anni, e le aveva dedicato questo “librone” “rimpinzato” di “inediti, varianti e apparati bibliografici”, non tenendo conto però dell’effettivo valore letterario degli scritti in sé. Il risultato fu infatti ridicolo oltre ogni misura, poiché invece di offrire un ritratto lucido ed equilibrato dell’opera della poetessa, ne amplificò “l’ingenua trasparenza, l’irrimediabile sentimentalismo, la totale insussistenza metrica e figurale dei testi”.
Il Raboni poeta e il Raboni critico letterario condividono la medesima guerra all’auctoritas (come si è visto anche nei confronti di Garzanti), arrivando a mettere in discussione i grandi maestri del passato, visti non come artificiali e irraggiungibili statue di marmo chiuse in un museo, ma come esseri viventi, “sapendo che un giorno potrà anche succederci di non trovarli, di non capirli, di non amarli più”[11]. Proprio questa conclusione genera però per antitesi un radicato legame con i suoi modelli (Manzoni, Rebora, Gadda), che lo spingeranno a indirizzare la sua poesia e il suo pensiero sul fil rouge della “lombardità”[12], ovvero di una connessione ancestrale con autori a lui precedenti inscritti nella regione lombarda, che si risolve poi nel concetto ultimo della “comunione dei vivi e dei morti”, che eleva Raboni a medium tra il mondo dei viventi e l’oltretomba. Raboni, nell’Autoritratto 1977, dice di essersi “reso conto in un modo concreto, fisico […] che la mia città [Milano] non era solo quello che vedevo […] ma era anche piena di storia […] di gente che non era più viva, di gente morta.”[13]
Questa guerra ambivalente in difesa dell’auctoritas da parte di Raboni critico e poeta ci consegna l’immagine di un depositario della buona letteratura, che rispetta e fa rispettare le sue tradizioni, i suoi antenati. È forse proprio il richiamo costante a questa eredità a rendere apparentemente in conflitto, ma coerenti, i due aspetti della personalità raboniana: da una parte, la difesa della tradizione o dell’humanitas, dall’altra gli affilati e precisi affondi ai danni dell’ambiente culturale del suo periodo.
Attraverso l’appassionata e precisa ricostruzione del profilo così agguerrito del Raboni critico militante, il volume curato da Daino lancia un appello per il recupero di un modo di fare critica indifferente alle mode dell’editoria, orientato al ragionamento e alla lucidità della scrittura, al di là delle montature e di infondati elementi sensazionalistici: in breve, un’esortazione rivolta i critici a un ritorno all’onestà.
[1] P. Valduga, Belluno andantino e grande fuga, Einaudi, Torino 2019 (post scriptum Per Giovanni Raboni, pp.111-117: p. 115).
[2] L. Daino, Introduzione a G. Raboni, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro, a cura di L. Daino, Mondadori, Milano 2019, p. V.
[3] G. Raboni, Sulla libertà dei critici di “stroncare”, in «Corriere della Sera», 4 settembre 1998 p. 33.
[4] G. Raboni, Sulla produzione narrativa di Leonardo Sciascia, in «Corriere della Sera», 20 novembre 1999, p. 35.
[5] G. Raboni, La botte piena e il lettore ubriaco, in «L’Europeo», 8 agosto 1987, pp. 106-7.
[6] G. Raboni, Sul linguaggio dei politici e degli intellettuali italiani, in «Corriere della Sera», 20 ottobre 1991, p. 1
[7] G. C. Ferretti, Il best seller all'italiana. Fortune e formule del romanzo di “qualità”, Roma-Bari, Laterza, 1983.
[8] G. Raboni, Recensione a Gian Carlo Ferretti, Il best seller all’italiana, Laterza, Roma-Bari 1983, in «Rinascita», 17, 29 aprile 1983, pp. 27-8.
[9] G. Raboni, Sullo stato di salute della critica letteraria, del romanzo e della poesia in Italia, in «Rinascita», 40, 19 ottobre 1979 pp. 13-4.
[10] G. Raboni, Recensione a Antonia Pozzi, Parole, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, Garzanti, 1989, in «L’Europeo», 28 aprile 1989, pp. 92-3.
[11] G. Raboni, Risposta a Giorgio Barberi Squarotti sui classici della letteratura italiana, in «Il Messaggero», 19 luglio 1987, p. 15.
[12] G. Raboni, Di questo presente, in Testimoni del tempo. Atti degli incontri di Piacenza, vol. II, a cura di E. Gazzola, Vicolo del Pavone, Piacenza 2003, pp. 17-42: p.31.
[13] G. Raboni, Tutte le poesie 1949-2004, vol. I, a cura di R. Zucco, Einaudi, Torino 2014 (Autoritratto 1977, pp. VII-VIII).