Mercoledì, 06 Dicembre 2017 21:25

Come rosa nell'abisso. "L'ultima sillaba del verso" di Romano Luperini

Scritto da Giuseppe Bonifacino

Modalità felicemente innovativa e autonoma dell'impegno intellettuale di Romano Luperini, i romanzi costituiscono, innanzitutto, una forma delle emozioni – un tessuto di emozioni che cercano, in un pensiero che le ricordi e le interpreti, il discorso che le componga in una storia. Lo attesta esemplarmente il suo quinto romanzo, L’ultima sillaba del verso (Mondadori, 2017), dove l’intensità espressiva, già felicemente costante nei quattro precedenti, raggiunge l’incandescenza di una parola tersa e straziata, dolente ed impietosa. Sin dal Prologo L’ ultima sillaba segna una svolta e insieme attesta una continuità con i romanzi precedenti: una continuità perché anche in questo, attraverso la vicissitudine radicalmente individuale e privata del protagonista dell’autofiction – un professore famoso, anziano, imprigionato nella morsa di una devastante malattia – viene rappresentata, ma qui come per metonimia, la realtà di questi anni opachi e senza forma, deprivati di ogni orizzonte storico e ideale. E una svolta: perché già nelle pagine iniziali – in una scrittura intima e disperatamente oggettiva, in cui ogni breve e rada pausa elegiaca va a incrementare la tonalità tragica di fondo – lo scrittore assume il corpo (nella sua inerme esposizione alle violenze del tempo e della malattia, e nella sua irriducibile apertura alla vita) quale campo di analisi e focus prospettico, contro un presente che sembra sottrarsi a ogni ricerca di significato: lo si può solo capire – rappresentare –, non lo si può comprendere, dichiara l’autore.

Per questo, il nesso tra il tempo e il corpo – il conflitto tra le loro figure estreme, la morte e l’amore – è l’asse tematico del romanzo, il campo della moderna scissione tra l’universale e il particolare che lo stringe. Valerio, il protagonista, è all’improvviso raggiunto da una mail di Claudia, sua giovane allieva da lui amata molti anni prima, che ha saputo della sua grave malattia: e di qui la narrazione si addipana lungo una curva analettica attraversata da voci e presenze, in una polifonia scomposta e franta.

La profonda, tormentata, luminosa storia d’amore con Claudia – che egli si ostina a rinominare Claudine, come la protagonista di un racconto di Musil, risemantizzandone l’identità in un gesto di appropriazione inteso a rimuoverne la facies più tradizionale a vantaggio di quella trasgressiva – , è al centro dell’esperienza del protagonista, del suo bisogno di restituire significato a un’esistenza che, smarrito ogni orizzonte di impegno politico ed etico, gli sembra potersi ancora rinnovare in quell’incontro, nell’affiorare improvviso di quella purezza vitale, occasione epifanica sopravvenuta contro la consunzione di altre, estenuate o pregresse, relazioni d’amore, con la canadese Betty, segretamente in sé ferita e protesa a difendersi, e, prima, la perturbante e visionaria Margareth.

Attorno, e sullo sfondo, i testimoni, ciascuno nella sua declinazione, della crisi sociale e ideale dell’Italia berlusconiana: gli amici, segnati da una passione politica grande quanto delusa, e i famigliari, dal cinismo morale del fratello all’operoso rigore della sorella e della figlia. Ed è nei personaggi femminili, creature di un mondo ancora vitale e comunicativo, che durano i valori da opporre all’opaco disincanto postmoderno: ne è paradigma il ricordo della madre morta, capace di intrecciare gli eventi in racconto, depositaria di una parola epica garante di ordine e di significato, e del sapere gestuale antico della ripetizione: ovvero di una continuità nel tempo che forse la kossovara Eriola, unica ad assistere Valerio nella sua disaiutata solitudine di malato, ancora custodisce dentro di sé, come la forza di una umanità generosa e gentile, che può resistere oltre la caduta di ogni utopia.

Ne testimonia soprattutto Claudia, fin nel dialogo epistolare che nell’ultima parte del romanzo riporta il tempo al presente dell’età estrema del protagonista, e ne riscrive la parabola amorosa da un’altra, contrastante prospettiva. Ma chi era Claudia: la cauta, esitante Dina o la lieve, imprendibile Claudine? È stata l’una e l’altra: la sua verità di donna – la sua realtà incatturabile – è bivoca, ermeneutica, il suo tempo sospeso tra attimo e durata. E al corpo, al ricordo di Valerio, che ne ha ricevuto l’incanto, ne ha inseguito lo splendore, non rimane che la felicità virata in perdita di un racconto non condiviso.

L’ ultima sillaba del verso – la cifra metaforica del titolo – non ne compone il significato: ma ne espone la incolmata richiesta e la ricerca. E se il corpo, nel suo intreccio di amore e dolore, è il luogo ultimo e primario dell’esperienza, lo spazio che è in sé tempo senza storia, per opporsi al silenzio deserto della morte non resta forse altro che l’amore, il suo frammentario e inconcluso romanzo, il suo tempo diviso e conflittuale, l’illusione di una vita che si rinnova mentre si consuma, e ammanta di rose – di emozioni, che ne interrogano e ne mostrano il senso – l’abisso di dolore che la abita.

 

 Questo articolo è stato pubblicato su «La gazzetta del Mezzogiorno», il 23 maggio 2017.