Autore: Fabio Moliterni
Il «dolore multiforme del percepire». Su "Criterio dei vetri" di Marco Giovenale
Ormai da tempo, la scrittura di Giovenale è testimonianza in atto di una ricerca progettuale, laboriosissima, che investe il fare poetico nella convergenza di plurimi riferimenti culturali e apporti teoretici. Sono i necessari approfondimenti per testare la tenuta e le possibilità sociali del linguaggio lirico all’altezza del presente. Laddove la pratica di nuove strade di comunicazione (la rete come archivio aperto, deposito di tracce ragionative, vetrina di scambi intellettuali) non è disgiunta da un (invisibile e) tenace lavoro di ricerca, anche interdisciplinare – tra saggistica e fotografia, arti figurative e traduzioni, poesia prosa e arte contemporanea: prevalentemente in dialogo con esperienze o tradizioni estranee alle codificazioni di esclusivo ambito nazionale. Il percorso di scrittura, a sua volta, viene restituito provvisoriamente per schegge o frammenti, mentre prova e riprova la propria affidabilità di fronte agli incerti della verifica in versi, i possibili innesti culturali, l’urto con gli eventi del vissuto.
Sul materialismo di Volponi
Eretico e “fuori-canone” sin dagli esordi lirici e poi nelle colate espressive dei romanzi e delle ultime raccolte in versi – nell’edificazione febbrile di una prassi di scrittura ispirata alla più anarchica osmosi dei generi e delle forme letterarie, tra poesia e prosa, epica e saggismo –, testimone e interprete controcorrente delle diverse mutazioni che hanno intaccato il midollo della società italiana dagli anni Cinquanta-Sessanta fino alle soglie del nostro millennio, Volponi resta all’altezza di questo presente (insieme con vecchi e nuovi compagni di strada) una delle voci più potenti e necessarie per decifrare in senso antagonista il nostro contemporaneo.
Il «Volgar’eloquio»: l’ultimo Pasolini
Mi concentrerò sulla conferenza tenuta il 21 ottobre del 1975 al Liceo Palmieri di Lecce, che Pasolini decise di intitolare Volgar’eloquio recuperando un brano da Bestia da stile (1974), con l’obiettivo di collocare con esattezza all’interno della sua opera quell’intervento che rappresenta l’ultima occasione nella quale lo scrittore partecipò a un dibattito in pubblico prima dell’assassinio. Per farlo, dobbiamo immaginarci il suo tavolo di lavoro a quell’altezza cronologica: si trattava di un laboratorio o di un’officina febbrile, un coacervo ricco di travasi e osmosi intertestuali e intermediali, ripensamenti, ricerche in corso attraversate da un filo rosso che ricongiunge gli esordi alle ultime opere, il primo all’ultimo tempo del suo percorso intellettuale e biografico.
Pensando al suo ultimo anno di vita, Pasolini incrocia come sempre vari generi letterari e codici artistici: pubblica gli Scritti corsari e lavora al film Salò e alla Divina Mimesis, un progetto di riscrittura della Commedia di Dante ideato molti anni prima; sta completando la stesura del suo romanzo, uscito postumo nel 1992, Petrolio, e dà alle stampe una riedizione, o meglio, una riscrittura profonda delle poesie friulane giovanili, La nuova gioventù. Qual è il filo conduttore, l’elemento di continuità che tiene insieme la conferenza di Lecce al Palmieri, il pomeriggio a Calimera (dove si recò nello stesso 21 ottobre per ascoltare uno spettacolo improvvisato di musica grika), e le sue ultime aree di interesse e di intervento? Si potrebbe sostenere che ciò che emerge da questo palinsesto di testi, scritture e incontri pubblici è l’assillo che nutre la sua opera sin dagli esordi: la partecipazione civile e l’analisi spregiudicata della società italiana, da un lato; e dall’altro lato le osservazioni sulla lingua, l’interesse per i dialetti e l’interrogazione sulla sopravvivenza o la scomparsa della cultura popolare.
Cùntura, tiatru, flatus vocis: la poesia di Nino De Vita
Come accade nelle migliori esperienze letterarie, anche la poesia di Nino De Vita si fonda su una dialettica paradossale e irrisolta che è capace di far convivere gli opposti e i contrari, una tensione senza scioglimento che coinvolge la forma del contenuto, le strutture testuali e il repertorio dei temi da sempre al centro della sua opera in versi. Alcuni suoi testi sono ora leggibili in un’antologia d’autore che inaugura la collana novecento/duemila diretta per Le Lettere da Diego Bertelli e Raoul Bruni (Il bianco della luna. Antologia personale 1984-2019, 2020, pp. 240): abbiamo la possibilità di ripercorrere un itinerario che parte dagli esordi in lingua di Fosse chiti (1984) e approda alle raccolte scritte in dialetto pubblicate negli anni Duemila (da Cutusìu, del 2001, a Nnòmura, del 2005) fino al recente Tiatru (2019), con l’aggiunta di versi inediti che provengono dal libro al quale sta lavorando il poeta di Marsala, Tuttu ‘u munnu si rruri.
Su "La vita adulta" di Andrea Inglese
A cinque anni di distanza dall’uscita di Parigi è un desiderio, Inglese torna con il suo nuovo romanzo a sperimentare attraverso le forme narrative l’ipotesi di un congegno testuale che un tempo si sarebbe potuto definire “opera mondo”. La struttura della Vita adulta appare a prima vista più salda e convenzionale rispetto a quella volutamente sconnessa e funambolica del romanzo precedente, in quanto qui Inglese sceglie di impiegare la terza persona insieme alla tecnica del montaggio alternato nel dipanare dall’esterno il racconto delle vicende dei due protagonisti del romanzo, Tommaso e Nina. Ma è invece simmetrico e speculare il progetto di scombinare, mescolare e sovrapporre registri e direzioni delle trame, ben al di là di ogni concessione al “romanzo ben fatto” premiato o premiabile in termini di mercato: Inglese oggi è uno dei migliori scrittori in Italia capace di intrecciare il racconto del vissuto individuale con l’astrazione del pensiero critico, e dà vita, come in Parigi è un desiderio, a una forma di narrazione aperta, digressiva e centrifuga che ha l’ambizione di restituire, attraverso le forme letterarie, la totalità della nostra esperienza del mondo, la cifra del nostro contemporaneo. Le due parti nelle quali è diviso il romanzo, ad esempio, sono consacrate agli estremi temporali che cadenzano lo sviluppo dei percorsi esistenziali di Nina e Tommaso, e partono dalla primavera del 2013 per arrivare all’autunno del 2015, fino all’epilogo occupato dallo scambio epistolare tra i due protagonisti; ma questo continuum lineare è solo apparente, perché viene smentito non solo dagli andirivieni, dalle frequenti analessi e retroversioni della trama, ma anche dai titoli (riuscitissimi) dei paragrafi, sovraccarichi di massime o motti (pseudo)filosofici, stranianti ed ellittici, ambigui e allusivi, che ricordano il romanzo-saggio, umoristico e allegorico-morale del modernismo europeo o il filone picaresco con i suoi spericolati epigoni novecenteschi come il Gombrowicz di Ferdydurke (citato in epigrafe).
Una radiolina fuori frequenza. Su «Parigi è un desiderio» di Andrea Inglese
«Al posto del racconto abbiamo una sterminata (…) conversazione, o forse il frammentato e diseguale giustapporsi di (…) monologhi»: la frase è di Manganelli, stupito o stupefatto di fronte alla forma centrifuga e sconnessa di certi romanzi anglosassoni di fine Settecento (è facile pensare alla Vita e opinioni di Tristram Shandy di Laurence Sterne). E potrebbe servire come epigrafe a un discorso sulla natura antifrastica e paradossale della scrittura narrativa di Inglese, il quale oggi si cimenta con la forma-romanzo (Parigi è un desiderio, Ponte alle Grazie, Milano 2016), con tanto di tag in copertina, abbandonando (apparentemente) l’orizzonte delle scritture di ricerca, tra prosimetri e prose in prosa, che nel corso del tempo avevano affiancato la sua scrittura in versi (dopo La distrazione, uscito per Sossella nel 2008, si devono ricordare le prose raccolte nel volume collettivo del 2009 Prosa in prosa, con Giovenale Zaffarano Broggi e altri, a cui sono seguite altre esperienze che in parte sono riassorbite in questa specie di romanzo, come Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, La grande anitra del 2013 e soprattutto Commiato da Andromeda, 2011). Ma appunto di quelle prose atipiche perché non liriche né narrative, Inglese mantiene e trasferisce nelle strutture codificate del romanzo (memoir, autofiction o autobiografia) la stessa attitudine sperimentale e anti-normativa, trasgredendo e torcendo il collo agli imperativi (di mercato) oggi più che mai efficienti nel campo letterario e del consumo culturale, come la necessità rassicurante della trama leggibile a tutti i costi, il racconto lineare di fatti accaduti, il feticcio dello storytelling.
Ultimo tempo di Roversi
«Dentro i ferocissimi mali del mondo». Sulla poesia di Andrea Inglese – Parte II
La poesia di Inglese dialoga produttivamente, nel suo stesso farsi, con gli orizzonti fondanti della tradizione lirica moderna, collocando al centro delle ragioni dell’espressione poetica l’interrogazione sui nessi (o le lacerazioni) che tengono insieme la memoria e gli oggetti dell’esperienza, la narrabilità e la costruzione biografica dell’io, la consistenza del soggetto e la dimensione collettiva del reale.
«Dentro i ferocissimi mali del mondo». Sulla poesia di Andrea Inglese – Parte I
La dialettica irrisolta tra percezione e rappresentazione, parole e cose, codice letterario e realtà fenomenologica (ordinaria e «infra-ordinaria»), è al centro della riflessione estetica della modernità e sfondo teoretico della poesia di Inglese. Lo snodarsi trattenuto di una sintassi mobile e nervosa, che mima i movimenti dello sguardo nel continuum alternativo di un andamento paratattico o asindetico, e soprattutto gli elenchi asettici, le enumerazioni caotiche dei realia (con l’uso intenso degli enjambements): sono i tratti cospicui di una ricerca gnoseologica e formale che, sin dalla prima raccolta (Inventari, 2001), s’incentra sulla questione del vedere.
Sul materialismo di Volponi
Eretico e “fuori-canone” sin dagli esordi lirici e poi nelle colate espressive dei romanzi e delle ultime raccolte in versi – nell’edificazione febbrile di una prassi di scrittura ispirata alla più anarchica osmosi dei generi e delle forme letterarie, tra poesia e prosa, epica e saggismo –, testimone e interprete controcorrente delle diverse mutazioni che hanno intaccato il midollo della società italiana dagli anni Cinquanta-Sessanta fino alle soglie del nostro millennio, Volponi resta all’altezza di questo presente (insieme con vecchi e nuovi compagni di strada) una delle voci più potenti e necessarie per decifrare in senso antagonista il nostro contemporaneo.
Il vero che è passato. Poesia e tempo in Franco Fortini
In una sincronia verticale di voci e fonti che interseca esperienze care a Fortini come quelle di Benjamin, Bloch, Adorno, Brecht, si tratta in prima istanza della polemica contro la nozione di progresso, per la quale il presente si istituisce come tempo eterno, «omogeneo e vuoto», delusivo spazio dell’attesa; il processo storico si fonderebbe sulla sintesi armonica di rinnovamento e conservazione, lo svolgimento del divenire sulla cancellazione delle discontinuità.