Mercoledì, 30 Novembre 2016 00:17

La lingua e la colpa. "Il tempo materiale" di Giorgio Vasta

Scritto da Simone Giorgio
Giorgio Vasta Giorgio Vasta

Il tempo materiale è stato pubblicato da Giorgio Vasta nel 2008, per i tipi di Minimum Fax1. Benché il nome di Vasta circolasse già nell’ambiente culturale, si è trattato del suo esordio, avvenuto dunque piuttosto tardivamente per gli standard attuali dell’industria editoriale (si ricorda che lo scrittore è nato a Palermo nel 1970). A questo romanzo sono poi seguiti Spaesamento (2010) e Presente (2012), quest’ultimo in collaborazione con altri scrittori.

Sin dalla sua pubblicazione, Il tempo materiale è stato salutato come una delle opere più importanti nel panorama della letteratura italiana degli ultimi anni. Nel recensirlo si sono spesi, sulle varie riviste, alcuni tra i maggiori critici letterari del nostro tempo, tra cui Marco Belpoliti, Raffaele Donnarumma e Romano Luperini.

Non è mai impresa facile capire le ragioni del successo (quantomeno critico) di un determinato romanzo; nel caso del libro di Vasta possono essere rintracciati essenzialmente due motivi, che ci aiutano a contestualizzare questo romanzo e capire perché rappresenta un’opera molto originale nella letteratura contemporanea.

La prima causa è dovuta al dibattito sull’emersione, negli ultimi quindici anni circa, di una corrente che da alcuni è detta ipermodernismo. Effettivamente, come nota Donnarumma, nel corso degli anni ’90 la fisionomia della letteratura internazionale ha cominciato a mutare, ma tali cambiamenti non sembrano essere epocali: «l’ipermoderno è la risposta e in parte la conseguenza disforica al postmoderno, poiché, esaltandone i colori, finisce per virarli al nero»2. La caratteristica più evidente che distinguerebbe l’ipermoderno dal postmoderno sembrerebbe essere il ritorno alla trattazione di tematiche civili, ma si tratta di una concezione che va analizzata con cautela. Infatti, è doveroso constatare la disillusione dei postmoderni nei confronti delle grandi narrazioni; al tempo stesso va riconosciuta agli scrittori ipermoderni una maggiore volontà di incidere sulla cultura e la società in cui operano, ma in modo profondamente diverso dai moderni, non potendo contare sulle grandi strutture ideologico-culturali in piedi quantomeno fino agli anni ’70.

L’autore ipermoderno, per quanto possa interessarsi ai problemi del presente, è costretto a farlo da un punto di vista strettamente personale, senza un vero pubblico a cui rivolgersi, e senza alcuna legittimazione politica o sociale3. Tali trasformazioni sono partite dagli anni ’80, e Il tempo materiale coglierebbe proprio il passaggio dall’epoca precedente a quella in cui viviamo, utilizzando come simbolo della trasformazione la vicenda Moro e ciò che a essa è legato; per questo, parrebbe esatto dire che il libro di Vasta rientra un dibattito più ampio, che comprende riflessioni non solo sulla natura delle cose presenti, ma anche sul percorso che ha portato la società culturale ad assumere l’attuale conformazione.

La vicenda è ambientata a Palermo nel 1978: tre bambini, affascinati dalle gesta delle Brigate Rosse, decidono di ripeterne in piccolo le gesta; dopo essersi allenati per un’intera estate, al ritorno a scuola, in autunno, compiono vari atti di vandalismo e finiscono con l’imitare anche la più famosa delle azioni brigatiste, ossia il sequestro Moro, rapendo un loro inerme compagno di classe e progettando di rapire un’altra bambina, oggetto dell’amore del protagonista-narratore, Nimbo. La felicità di questa invenzione narrativa sta nella sua capacità di farsi carico di varie tematiche amalgamandole spontaneamente nel suo intreccio: Vasta riesce a toccare, parafrasando Montale, l’essenziale e il transitorio, senza separarli, ma tenendoli uno addosso all’altro, uno nell’altro, conferendo al romanzo una grande coesione strutturale e tematica.

Dalla trama si deduce il secondo dei motivi cui si faceva riferimento: Il tempo materiale è un romanzo che parla, anche se in modo non esclusivo, di terrorismo, e così si inserisce nel solco di una linea narrativa ben nutrita. Come detto, i tre protagonisti subiscono l’attrazione delle BR; i ragazzini si identificano nei brigatisti perché credono di trovarsi dalla loro stessa parte. Ovviamente, il trio è completamente digiuno di ideologia: l’identificazione scatta facendo leva sull’insoddisfazione che i piccoli provano nei confronti di tutto ciò che li circonda. I loro compagni, i loro professori, i loro stessi genitori e l’anonima folla che circonda le loro passeggiate vengono descritti di volta in volta come stupidi e volgari, vengono presto a coincidere con il nemico contro cui combattere. Questo contrasto, avvertito come inevitabile e durissimo dai protagonisti, si realizza nel linguaggio. La narrazione è svolta in prima persona e al presente da uno dei tre bambini, eppure il romanzo è scritto in una lingua precisa e crudele, che non appartiene a quella di un ragazzino che frequenta la scuola media. La sensazione che ne viene fuori è, dunque, quella di un’allucinazione, come se un adulto stesse ripercorrendo sotto ipnosi regressiva un trauma rimosso: appunto, il terrorismo. All’interno della storia, invece, i bambini marcano, sottolineano, forzano le loro stesse capacità linguistiche al fine di opporle a quelle altrui. Il protagonista, Nimbo, è orgoglioso di essere stato definito «mitopoietico» dalla sua maestra4; il suo compagno, Scarmiglia (nome di battaglia: Volo), dice che «Le Brigate Rosse […] parlano – o meglio, scrivono – come noi»5. Più volte manifestano disprezzo per chi parla in dialetto. Arrivano addirittura a inventare un nuovo linguaggio – «l’alfamuto» - fatto di sole ventuno parole, da esprimersi attraverso posture e gesti rubati ai cantanti e ai personaggi televisivi. È un’appropriazione, o meglio, un’estorsione nei confronti della cultura popolare: così decidono di comunicare tra di loro, estraniandosi dal resto della gente che non è in grado di capire questo codice segreto. Ancora, il tema del linguaggio ritorna nella scoperta (alla metà del romanzo) che la «bambina creola» che Nimbo ama è muta. Questa caratteristica innalza una barriera linguistica fra i due, che pure Nimbo tenta di abbattere, ma senza riuscirci, arrendendosi al silenzio nello straziante finale del romanzo.

L’ideologia, si diceva, non c’è: ne rimangono residui, aleggia rarefatta su ciò che i protagonisti compiono ma rimane sempre sullo sfondo. Volo è il leader del gruppo; sua è l’idea di costituire un piccolo nucleo. Col passare dei mesi, assurge a capo indiscusso. Nimbo, invece, dopo l’entusiasmo iniziale, si ritrae, diventa semplice braccio della lotta. Il terzo ragazzino, Bocca, che si dà il nome di Raggio, è attento e fedele, segue ciecamente le iniziative di Volo. Dell’ideologia brigatista non è rimasto molto: il linguaggio (è Nimbo a scrivere i primi comunicati, prendendo spunto da quelli delle Br, tentando di impossessarsi del loro stile); il rifiuto dell’ironia, che serpeggia in ogni colloquio dei tre ragazzini e segna un’ulteriore distinzione fra loro e il resto della società; il pragmatismo e la razionalità delle loro azioni, che prima è espressa nella riproduzione dei gol visti nel mondiale di calcio di quell’anno, e poi diventa spietata efficienza organizzativa nei delitti messi a segno6.

Quando i tre rapiranno il loro compagno di classe, di nome Morana, non sapranno che farsene. Morana è un personaggio vuoto, piatto; sulla sua inutilità il protagonista insiste più volte. Le indagini sulla sua sparizione addirittura procedono a rilento proprio perché nessuno si è mai interessato a lui. Morana è un animale in gabbia, loro si limitano ad osservarlo e percuoterlo. La violenza che rovesciano sul compagno non è brutale: si limitano a fargli pressione addosso. È una violenza “silenziosa”. E silenziosa è la sua morte. Da quel momento, Volo e Raggio credono di essere onnipotenti. Nimbo, invece, no: si è già messo in disparte dopo un episodio precedente al rapimento, in cui avevano dato fuoco all’auto del preside e avevano quasi ucciso un passante. Partecipa al rapimento perché sente di voler prendere in custodia qualcuno, per un bisogno di paternità: ed il prescelto è Morana. Nel dialogo immaginario tra Nimbo e il «piccione preistorico» (uno degli animali ricorrenti del romanzo) il ragazzino esprime, fra le altre cose, il desiderio di diventare padre. Il piccione gli risponde che non può, poiché non è in grado di «percepire ciò che è fertile»7. La loro battaglia, si sottintende, è sterile; finché Nimbo sarà attratto da essa, non potrà mai entrare davvero nel mondo degli adulti. Eppure i tre intraprendono la lotta proprio per la necessità di essere legittimati: a loro non interessano tanto le questioni politiche implicite nella vicenda brigatista, quanto la volontà di sovversione e legittimazione che le Br mostrano, nella quale i tre ragazzini si identificano. In questo senso, Il tempo materiale viene a delinearsi come una sorta di romanzo di formazione perverso, in cui i giovani personaggi scelgono sì un modo di essere e vi adattano la loro personalità, ma questo modo di essere (e quindi di intendere e stare al mondo) è totalmente sbagliato e – soprattutto – anacronistico.

Nimbo, Volo e Raggio decidono di schierarsi dalla parte delle Br nel 1978, l’anno in cui le Br raggiungono il loro massimo successo e contemporaneamente imboccano il viale del loro inesorabile declino. I ragazzini avvertono questo cambiamento nella mentalità comune, percepiscono l’esaurimento di una stagione, lo vedono in ogni segno. Tuttavia, sono gli unici a sentire il cambiamento. Negli altri personaggi si nota un’indifferenza generale verso questo meccanismo ed anche questo contribuisce ad aumentare il senso di solitudine nei tre bambini. Da qui scaturisce il rifiuto dell’ironia, rifiuto dell’impossibilità per gli italiani di vivere appieno la tragedia: «…l’l’Italia è tiepida, del tutto incapace di assumersi la responsabilità del tragico. Il tragico è in grado soltanto di generarlo ma poi lo volge in farsa»8. Contro questa deriva, Nimbo invoca una sorta di pestilenza, un castigo divino (la stessa Bibbia, che gli viene letta ogni sera dal padre, è richiamata più volte): «Ben venga allora il contagio, penso, l’epidemia, un altro dio delle infezioni che imponga forma alle cose, anzi no, che le deformi, le cose…»9.

Cosa rappresenta il passaggio dalla mitopoiesi all’«alfamuto»? Il codice segreto non rappresenta solo un saccheggio della cultura pop degli anni ’70, ma è anche metafora della lenta discesa dei tre ragazzini nell’inferno della logica terrorista: Scarmiglia ammira le Br perché «agiscono», e l’alfamuto, costituito da gesti, pone anche i protagonisti nell’azione. Ma soprattutto l’alfamuto rappresenta il primo passo verso la semantizzazione di tutto ciò che li circonda, tensione che il piccolo narratore sente e di cui è fiero, e che si incarna nella scrittura di Vasta, minuziosa ed esatta. Questo è anche il motivo per cui sono affascinati dal terrorismo: i terroristi attribuiscono significato ad ogni cosa, non solo alle parole, ma anche alle azioni che organizzano.

Tuttavia, questo processo di semantizzazione perpetua è destinato ad arenarsi di fronte all’impossibilità di esprimere la totalità del reale, impersonata dalla «bambina creola». Così, se da un lato l’immaginario terrorista è eroso dalla cultura popolare italiana che lo massacra con l’ironia, dall’altro Nimbo comprende l’impossibilità di ridurre tutto a linguaggio, capisce che questa strada non porta alla semplificazione che auspicava10: nel finale, come si vedrà, si ravvede, denuncia i suoi compagni e salva la bambina creola, ma quando i due bambini sono a casa di lui e provano a intendersi, non ci riescono. Nimbo si abbandona dunque al pianto: è la traumatizzazione e la definitiva sconfitta dell’ideale terrorista e insieme della cultura in cui il terrorismo era cresciuto11.

Il romanzo è ricchissimo di riferimenti alla cultura bassa, ma dialoga anche con opere della cultura alta. La presenza sottile e costante della televisione pervade molte scene domestiche: spesso è rappresentata la visione dei varietà e dei vari programmi televisivi dell’epoca e ne vengono citati conduttori e personaggi. Anche la musica, ascoltata tramite il giradischi o canticchiata dai passanti, fornisce un campionario di cultura pop che restituisce la leggerezza e la spensieratezza di una parte della società di quel tempo. Discorso a parte per il cinema, citato non solo nella sua accezione più popolare, ma anche in quella più impegnata, nelle scene ambientate nel cineforum comunista dell’amico della cugina di Nimbo. Lì il cinema diventa il mezzo con il quale il protagonista si estrania totalmente della realtà, in un cortocircuito mentale che comporta la perdita dell’io pur nello scatto del ricordo causato dalla visione (esemplare, in questo senso, l’episodio del film di Cassavetes).

Questi continui riferimenti alla cultura popolare, alla musica leggera, all’intrattenimento televisivo costituiscono la traccia della relazione che intercorre tra Il tempo materiale e uno dei libri-chiave sul caso Moro, ossia In questo Stato di Alberto Arbasino. Li accomuna l’analisi sociologica dell’Italia colpita dal terrorismo, analisi che sfocia nell’amara constatazione che in realtà per la maggioranza dei cittadini italiani non è cambiato poi molto.

Il secondo grande riferimento è L’affaire Moro di Sciascia, anche questo un libro-inchiesta uscito a caldo nel 1978. Dall’opera del suo corregionale, Vasta recupera il gusto per lo studio linguistico dei protagonisti delle vicende: nell’opera del maestro di Racalmuto i brigatisti “veri”, in quella del palermitano i loro piccoli emulatori. Come si è già accennato, l’attenzione al tema del linguaggio è elemento dello zeitgeist degli anni ’70, ancora in parte dominato dalla filosofia strutturalista: i brigatisti, come tutti coloro che in quegli anni così caldi erano legati a un’ideologia, a una delle «grandi narrazioni» di Lyotard, credevano ancora di poter incidere sul mondo e sul reale. Il loro tentativo, come si sa, è destinato a naufragare non solo storicamente, ma anche culturalmente, se è vero (com’è vero) che di lì a poco sarebbe esploso il postmoderno e sarebbe crollato ogni idealismo. I piccoli protagonisti di Vasta percepiscono questo mutamento e tentano di evitarlo, ma sanno benissimo che la loro lotta è persa in partenza12.

Il tempo materiale fotografa dunque il passaggio dall’età dell’impegno all’età del riflusso. Tommaso Pincio nota, a tal proposito, che Vasta ha avuto «la capacità di riconoscere nello sguardo febbrile di un ragazzino in procinto di perdere la propria innocenza lo specchio migliore del dramma di una nazione»13. Eppure, nel romanzo, il caso Moro occupa pochissime pagine; lo stesso statista democristiano appare poche volte in scena, e mai direttamente, così come mai direttamente sono raffigurate le BR, ma sempre attraverso i mezzi di comunicazione, siano essi i comunicati dell’organizzazione o la tv. Sembra dunque avere ragione Donnarumma a sostenere che «il vero tema del Tempo materiale è la colpa. Tutta la storia dei tre ragazzi è uno spostamento del terrorismo dal campo della cronaca a quello dei fantasmi»14: il romanzo non si interroga sulla natura delle cose che sono accadute in Italia in quei mesi, né pretende di fornire risposte a tali quesiti; piuttosto, indaga sul modo in cui quelle vicende sono state recepite (o possono essere state recepite) e, di conseguenza, interiorizzate. È lo stesso Scarmiglia ad ammetterlo: «La violenza è coraggiosa perché riconosce e ammette l’esistenza del dolore e della colpa. La violenza ha il coraggio della colpa. Le Brigate Rosse hanno il coraggio della colpa e la coscienza del dolore»15. I terroristi sottolineano queste loro caratteristiche attraverso la lingua. La lingua è così non solo il motivo che affascina i tre ragazzini, ma anche il segno distintivo che li separa da chi quella lingua non è in grado di parlarla: in più punti del romanzo, i protagonisti guardano con diffidenza e disgusto chi parla in dialetto, fino a definirlo uno «scandalo»:

 

Esclamano. Il palermitano è una lingua esclamativa. Accade qualcosa, un fenomeno qualsiasi, e il palermitano comincia subito il suo assedio. Spesso è una sola frase ripetuta modificando l’intonazione, in litania dinamica, rilanciando, rincarando, così che il fenomeno si riduce alla sua più originaria e autentica natura di scandalo.16

 

D’altronde, lo stesso romanzo, essendo narrato in prima persona, è una continua dimostrazione delle competenze linguistiche di Nimbo, sempre da inquadrare nel cortocircuito di cui si parlava poco fa, per cui è difficile credere che un preadolescente possa esprimersi in tal modo. In particolare, lo stile e la lingua del romanzo risultano precisi perché sottendono una profonda riflessione su tutto ciò che riportano. La sintassi del romanzo è, per larghi tratti, piuttosto semplice; eppure, ogni frase contiene una ricchezza di significati e dettagli tale da conferire all’intera storia una lentezza metodica, quasi che si reggesse più sulle riflessioni che sulle vicende narrate. Nimbo, infatti, è definito «mitopoietico» dalla sua maestra, il che vuol dire che racconta ciò che gli succede adoperando di volta in volta le parole più adatte a ingigantirne il significato. La narrazione sembra assumere una natura sensoriale: Nimbo ci comunica minuziosamente ogni sensazione, tattile, olfattiva, visiva, uditiva; al tempo stesso, il bambino sembra costantemente tormentato da una riflessione metalinguistica sul mezzo che è costretto ad usare, sempre speranzoso che possa funzionare al meglio, ma – man mano che ci si inoltra nel romanzo – sempre meno convinto che così possa essere. Quando Nimbo sta analizzando i comunicati delle BR, scopre che la loro lingua è «un animale mitologico inservibile, un unicorno degradato […]. È una lingua in cui convivono impulsi opposti, come dentro di me convivono sempre – per quella lingua e per tutto – entusiasmo e delusione»17.

Nella seconda parte del romanzo, però, se la lingua si mantiene sempre precisa e puntuale, lo stile tende a diventare più immaginifico, anche con l’introduzione dei dialoghi di fantasia fra Nimbo e i vari animali che popolano il romanzo. Matteo Martelli considera giustamente che «il cambiamento di registro corrisponde a un passaggio all’azione, preceduto da un’acquisizione delle competenze, […] fino alla valutazione finale, negativa, dell’intero processo narrativo»18. Tale operazione trova una sua giustificazione sul piano tematico nella rappresentazione del caso Moro, che diventa dunque il simbolo della trasformazione della società italiana: Il tempo materiale, dunque, ci pare essere un romanzo che coglie molte delle dinamiche sottese agli anni di piombo, senza tuttavia cedere a stereotipi di alcun genere. Molti dei romanzi scritti in Italia sugli anni di piombo hanno per protagonisti dei terroristi, personaggi che si avvicinano alle ideologie estremiste, le abbracciano e compiono il male in nome di esse. Se anche ne Il tempo materiale i protagonisti esercitano la violenza, essa è senza dubbio ben diversa da quella ritratta in altre narrazioni: non è legata all’ideologia, ma è praticata quasi per curiosità. Al tempo stesso, Vasta non si propone di indagare le cause remote del terrorismo, ma si limita a constatare quelli che possono essere stati gli effetti di esso su una fascia sociale particolarmente fragile e manipolabile, ossia quella dei bambini. La vera, grande differenza tra Il tempo materiale e gli altri romanzi sta in questo: Vasta ha scelto di far compiere il male a dei bambini, togliendo di fatto la possibilità di una qualsiasi spiegazione sociale o politica alla sua vicenda, mostrandola nella sua assurdità.

C’è un altro aspetto in cui Il tempo materiale si distingue, ovvero la collocazione geografica della vicenda: la maggioranza dei romanzi sul terrorismo italiano è ambientata nelle grandi città. Si parla soprattutto di Roma e Milano, in misura minore (a seconda delle sfumature sociali o temporali che si vogliono dare alla storia) Torino e Bologna. Ciò avviene perché, solitamente, nei romanzi sul terrorismo ci si concentra sugli eventi particolari del periodo (nel tentativo di far coincidere eventi privati ed eventi storici; processo, questo, molto utile nel dare l’idea di aver scritto un romanzo civile), oppure si tenta di ricreare l’atmosfera di quegli anni (ponendosi dunque sulla pista del realismo più classico che tenta di riprodurre la realtà così com’è o com’è stata). Ciò conduce alla necessità di porre le vicende che si narrano nelle grandi metropoli italiane, che rappresentavano in quegli anni il cuore delle lotte sociali e politiche. Vasta capovolge anche questo dato: il suo romanzo è ambientato a Palermo, nella periferia del Paese; lo stesso capoluogo siciliano è di fatto contrapposto alla Capitale, in cui Nimbo si reca. Roma è la «città dei morti», Palermo è la città viva, tremenda, oscura; lì l’assurda violenza dei ragazzini può avere luogo.

Questi due dati insieme (la scelta di protagonisti infantili e la collocazione in una città periferica) concorrono a determinare l’idea che Vasta abbia cercato di fare luce non tanto sugli avvenimenti in sé, quanto sulle trasformazioni sociali che tali avvenimenti hanno causato o durante le quali questi eventi sono avvenuti. Infatti, in più di un’intervista, lo scrittore ha dichiarato che Il tempo materiale non è un romanzo sul terrorismo, bensì un romanzo sulla storia d’amore tra Nimbo e la bambina creola. Tenuto conto di ciò, ci pare lecito affermare che Vasta abbia scritto un vero e proprio romanzo storico con vista sul presente, in cui il contesto temporale e sociale delle vicende non si limita a far loro da sfondo, ma interagisce e incide sulle scelte e sulle personalità dei protagonisti, mostrando chiaramente l’evoluzione del Paese in quel drammatico 1978: Vasta scrive sugli anni del terrorismo, ma con una lettura più profonda, si scopre che scrive anche degli anni in cui viviamo.

 

1 Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax, Roma 2008.
2 Donnarumma, Ipermoderno, cit., p. 104.
3 Ivi, passim.
4 Vasta, Il tempo materiale, cit., p. 14.
5 Ivi, p. 61.
6 Significativo, ad esempio, che Scarmiglia dica che «l’Italia […] gioca come se fosse ammalata» (ivi, p. 102), mentre «L’Olanda è la dimostrazione concreta dell’idea che considera centrale nella nostra militanza: l’alterabilità dei ruoli determina l’inalterabilità della forma.» (ivi, p. 104).
7 Ivi, p. 173.
8 Ivi, p. 81.
9 Ivi, p. 82.
10 «Tu avevi il linguaggio, dice. Adesso hai l’alfamuto. […] Ne valeva la pena?Era necessario.Perché necessario?Perché il linguaggio, quello di prima, quello in cui c’era tutto, era troppo» (ivi, p. 193).
11 «Ed è solo adesso, quando nella fabbricazione della nostra notte le stelle esplodono nel nero, che alla fine delle parole comincia il pianto» (ivi, p. 311).
12 «Un nemico imperfetto dovrebbe essere un vantaggio, la garanzia di poter vincere. […] E chi ha detto che vogliamo vincere? [..]» (ivi, p. 197).
13 Tommaso Pincio, Il tempo materiale, in «Satsfaction», novembre 2008.
14 Raffaele Donnarumma, GIORGIO VASTA, Il tempo materiale, in «Allegoria», 60, dicembre 2009.
15 Vasta, Il tempo materiale, cit., p. 91.
16 Ivi, p. 57.
17 Ivi, p. 78-79.
18 Matteo Martelli, Memorie sensibili di fronte alla storia: i bambini ideologici di Giorgio Vasta, in Le nuove forme dell’impegno letterario in Italia, a cura di Federica Lorenzi e Lia Perrone, Giorgio Pozzi Editore, Ravenna 2015, p. 102.