Sabato, 15 Aprile 2017 11:52

"La meschinità irresistibile". Recensione a "La femmina nuda" di Elena Stancanelli

Scritto da Camilla Mauro
E. Schiele, "Ragazza nuda accovacciata", 1917. E. Schiele, "Ragazza nuda accovacciata", 1917.

La femmina nuda di Elena Stancanelli è un romanzo che rientra nella tradizione epistolare della letteratura di tutti i tempi, pur misurandosi, come vedremo, con alcuni nuclei tematici della più stringente (e oscura) contemporaneità. È una lunga lettera in cui Anna, protagonista delle vicende narrate, racconta l’ultimo anno della sua vita rivolgendosi all’amica Valentina. Il romanzo abbandona ogni ricerca di comodo sull’anima, ogni mito sulla nobiltà propria dell’essere umano, e si configura come una riuscita e sprezzante indagine sulla meschinità:

 

La meschinità è irresistibile. Proviamo ad essere decenti, ma appena ci lasciamo andare torniamo ad essere disgustosi, a comportarci in maniera ignobile[1].

 

La rottura con Davide, che la tradisce con molte donne ed è innamorato di una di loro, azzera in Anna ogni razionalità spingendola verso un processo di punizione e autodistruzione che passa, principalmente, attraverso una forma di anoressia. Difficile non pensare all’Alice di Carroll, quando la protagonista si descrive come sprofondata in un regno che, però, non ha nulla di meraviglioso:

 

[…] ho iniziato a scivolare e poi a precipitare definitivamente nel regno dell’idiozia attraverso un buco nero, precipitavo aggrappandomi a quello che capitava. Fino a quando anche l’intelligenza non ha smesso di fare attrito e sono precipitata con più agio e velocità fino in fondo. Sono impazzita[2].

 

Alla pazzia non segue alcuna guarigione – i semi dell’idiozia sono connaturati alla natura umana e sempre sul punto di germogliare – ed è negato il valore etico dell’esperienza o della cognizione del male, a cui viene preferita la dimenticanza: «beati gli smemorati, perché avranno la meglio anche sui loro errori»[3]. La visione dell’esistente che anima Stancanelli sembra riecheggiare il disincanto o l’antistoricismo nietzschiano, che si introducono nel romanzo attraverso una battuta recitata dalla Dunst in Eternal Sunshine of the Spotless Mind[4]  uno dei film preferiti da Anna, la quale concepisce l’amore come fatto assolutamente ordinario, come incanto reciproco.

La volontà di non rinunciare a quest’amore, per sua stessa ammissione diventato un umiliante «apparato psicotico»[5], rende la protagonista fautrice di due metamorfosi necessarie e complementari: se da una parte Anna trasforma se stessa in un relitto, in una «vigliacca e bugiarda, un sorcio»[6], appiattendosi completamente sull’immagine della donna tradita e abbandonata, dall’altra sublima Cane, la nuova fiamma di Davide, rendendola una sorta di divinità incarnata.

Non a caso Stancanelli si rifà esplicitamente alla creazione del mostro nel celeberrimo romanzo di Mary Shelley: Anna, non meno arrogante e sprovveduta del dottor Frankenstein, perde ogni tipo di controllo sulla sua creatura, restando prigioniera di un’allucinazione paranoide che la spinge ora a pianificare la morte della rivale, ora a scriverle lettere piene di buoni sentimenti e voglia di conciliazione. Cane viene considerata in possesso delle verità assolute sulla vita e sull’amore; le foto – indebitamente sottratte[7]  – della sua vagina diventano oggetto di contemplazione quasi misterica perché in grado di svelare un mondo segreto, quasi una baudelairiana foresta di simboli:

 

 […] dopo aver visto tra le sue cosce tutto il possibile, dalla mia morte al parto di me stessa […][8].

 

Il feticismo per i genitali – non solo quelli di Cane, ma anche i propri – è specchio della centralità del corpo, che diventa manifestazione esteriore della sofferenza psichica di Anna: la narrazione è costellata da interessanti descrizioni dei comportamenti della protagonista, che sembrano riflettere una forma di anoressia nervosa. Si prenda, a titolo d’esempio, il seguente brano:

 

Ad un certo punto ho smesso di mangiare.

[…] L’ultima volta che ho provato a cucinare è stato dopo che Davide se n’è andato di casa definitivamente.  […] ho provato a prepararmi la cosa più semplice possibile, una pasta col pomodoro. […] Come se tutto fosse normale e qualcuno stesse apparecchiando la tavola, come se gli spaghetti stessero cuocendo […] e a un certo punto dovessi sedermi da qualche parte a cenare. Ma non sarebbe successo, non ci sarebbe stata nessuna cena, era evidente[9].

 

Anna si dichiara incapace di svolgere la semplice sequenza di operazioni necessarie alla preparazione della pasta con il pomodoro, chiaramente non per la difficoltà delle azioni stesse ma per l’incapacità di gestire il valore emotivo del cibo, non meno importante di quello nutrizionale: il piacere legato al consumo di un pasto, sia da sola che in compagnia,  diventa insopportabile dopo l’abbandono. Affamarsi è, poi, un buon modo per punire la propria inadeguatezza, i propri difetti, la propria manchevolezza. Da questo punto di vista, ridurre in pezzetti piccolissimi il cibo nel piatto e rimandarlo quasi intonso in cucina[10] non è diverso dall’umiliarsi attraverso il confronto ossessivo con il mostro-Cane:

 

Cosa faceva Cane che io non sapevo e non avrei mai saputo fare? Ecco. Quando arrivavo lì ero al centro perfetto del dolore. Lì faceva male come nessun’altra cosa[11].

 

Insomma, come per il cibo, anche la vita affettiva e forse tutta l’esistenza di Anna sprofonda e assume gradualmente i caratteri dello spreco.

Sprecata di Marya Hornbacher, opera d’importanza capitale per la comprensione dei DCA, mette in luce il rapporto strettissimo che intercorre appunto fra i disturbi del comportamento alimentare, l’ambiente relazionale del soggetto che ne è affetto e la sua ricerca d’identità:

 

[i DCA] Sono una reazione, sia pure contorta, alla cultura, alla famiglia, a se stessi[12].

[…] un tentativo di trovare un’identità, che alla fine ti lascia priva di ogni senso di te stessa tranne che della penosa identità di «malata»[13].

 

E infatti Anna, questa femmina nuda anatomizzata senza pietà da Stancanelli anche grazie all’espediente della scrittura epistolare, si aggrappa ad un’identità stantia e patologica, ormai compromessa dopo la fine della relazione con Davide; e invece di abbandonarla, come fanno le cicale con l’involucro ninfale, finirà con l’uscirne devastata, quasi come una larva o un fantasma.

Il suo corpo rimane invischiato nelle logiche tipicamente anoressiche, per le quali la magrezza è un sinonimo di forza, superiorità e controllo[14]. Ancora una volta, l’analisi di Marya Hornbacher è lucidissima:

 

Ecco una delle verità banali e terribili […]: nella nostra cultura se una donna è magra dà prova di ciò che vale in un modo che nient’altro, nessuna impresa, nessuna carriera fulminea, può eguagliare. Crediamo sia riuscita in quello che secondo l’inconscio collettivo di secoli nessuna donna può fare: controllare sé stessa. Una donna che riesce a controllare se stessa vale quasi quanto un uomo[15].

 

Vi è un legame assai stretto fra la negazione e la mortificazione del corpo portate avanti da Anna e la totale assenza di fisicità nell’interazione digitale oggi dominante: la protagonista viola la privacy del suo ex accedendo alla sua mail e al suo account Facebook, e attraverso l’app Trova il mio iPhone, ne conosce in ogni momento la posizione, rappresentata su una mappa da una pallina blu.

Stancanelli riflette sull’immagine di sé – sempre artefatta, mediata – che ciascuno ha modo di creare attraverso i social ma, soprattutto, su quale sia il codice morale a cui si debba rispondere nel web, dove tutto è possibile, dove il corpo non è coinvolto direttamente e l’individuo si sente deresponsabilizzato (si pensi al nostro quotidiano ma anche a fenomeni molto diffusi in rete, a cominciare da cyberbullismo e dal body-shaming):

 

Secondo te, Vale, se non ci fosse stato Internet mi sarei comportata nello stesso modo? Mi sarei messa un naso finto e un impermeabile, avrei fatto i buchi nel giornale per spiare Davide sotto casa di Cane[16]?

 

La guarigione della protagonista coincide, a guardare bene, con il ritorno al reale: e si dipana proprio a partire dal confronto reale con Cane, vis-à-vis, senza i filtri e le mediazioni del virtuale e della videosfera, perché ciò che la rivale realmente è consente alla protagonista di smantellare il mostro da lei creato. Da detentrice di verità e femme fatale l’antagonista diventa «Teletubbie»[17], «fenicottero sotto choc»[18], «insetto secco»[19] (vista «da vicino non era una grande generatrice di ossessioni»[20]):

 

Il corpo è l’unico principio di responsabilità che abbiamo. […] Se invece ci spostiamo per intero dentro la virtualità spariscono tutti i freni, perché sparisce la nostra identità. Chi siamo senza le braccia, il volto, la voce[21]?

 

Il romanzo si chiude, appunto, all’insegna della celebrazione del vicino, dei corpi, del reale, «cose vere. Oggetti, luoghi, scarpe, colori»[22].

 

 

 

 

[1] E. Stancanelli, La femmina nuda, Milano, La nave di Teseo, 2016, pp. 17-18

[2] Idem, p. 24.

[3] Idem, p. 14.

[4] Eternal Sunshine of the Spotless Mind, film del 2004 diretto da Michel Gondry. La battuta in questione è, appunto, «Beati gli smemorati, perché avranno la meglio anche sui loro errori».

[5] Idem, p.  30.

[6] Idem, p. 25.

[7] Anna viola l’account Facebook di Davide, trova le foto di Cane e le scarica: p.58.

[8]Idem, p. 65.

[9] Idem, pp. 47-48.

[10] Si pensi alla numerose cene con Valentina a cui Anna allude: «Quasi ogni sera la passavo con te, Vale. Andavamo al ristorante. Tu parlavi e io stavo in silenzio. Piangevo […]. Io cominciavo a spostare la pasta da una parte all’altre, a tagliare il pollo in pezzi sempre più piccoli», p. 51.

[11] Idem, p. 63.

[12] M. Hornbacher, Sprecata, trad. a cura di E. Campominosi, Milano, Il corbaccio, 2014.

[13] Idem.

[14] È entrando in un minuscolo paio di pantaloni che Anna vuole dimostrarsi superiore a Cane, p. 114.

[15] Idem.

[16]  E. Stancanelli, La femmina nuda, Milano, La nave di Teseo, 2016, p. 94.

[17] Idem, p. 112.

[18] Idem, p. 128.

[19] Idem, p. 138.

[20] Idem, p. 119.

[21] Idem, p. 138.

[22] Idem, p. 44.