L’arte di disobbedire: sulla poesia di Antonella Anedda
Scritto da Marta Marra
[Pubblichiamo una selezione dei testi che le studentesse e gli studenti del corso "Poesia italiana del Novecento e contemporanea", Cds in Lettere - Curriculum contemporaneo dell'Università del Salento, hanno utilizzato per i loro seminari autogestiti]
Romana d’origine ma sarda nel cuore, Antonella Anedda rientra a pieno titolo tra le voci più importanti della poesia italiana contemporanea. La dimensione dell’isola sarda, nella sua fisionomia talvolta fantasmatica, costituisce l’alveo creativo dell’autrice, nonché spazio tematico ricorsivo del suo poetare. La Sardegna, come l’Itaca di Kavafis, le offre i doni più importanti: la possibilità di partire per poi ritornare ed un linguaggio del tutto nuovo, la limba, un’ibridazione di dialetti attraversata da memoria diverse, scaturita in un momento di indicibile dolore.
Citando Testa, il gesto di Anedda che si fa poesia è il «guardare con pazienza agli spazi e ai momenti del vivere […]; è l’esercizio percettivo che più di ogni altro caratterizza la sua scrittura». Una poesia, intesa celaniamente come una stretta di mano, in cui il soggetto si rivolge all’accadere, rinnovando esigenze antropologiche ed affanni civili, una scrittura politicamente ed eticamente impegnata, che non rinuncia, memore della formazione di storica dell’arte dell’autrice, all’attenzione per il dettaglio.
Riccardo Donati, nella sua monografia sulla poetessa intitolata Apri gli occhi e resisti (edita da Carocci nel 2020), riflette su come si articoli la disobbedienza alla distanza nei versi aneddiani, notando come ci sia una fuga dalla lingua inautentica e resa autoritaria dalla Storia. La scrittura diventa gesto etico, chiamato a relazionarsi con una comunità, a recuperare i nomi inghiottiti dalla Storia e per questo distanti. Una poesia che porta in scena una coralità di destini, una pluralità di voci, dove l’io è relativizzato e deindividualizzato, disobbedendo all’antropocentrismo, liquidando ogni forma di presunzione e onnipotenza, poiché «in nessun luogo si chiede di noi».
La prima fase della poetica aneddiana, comprendente Residenze invernali (1992), Notti di pace occidentale (1999) e Il catalogo della gioia (2003) fa leva sulla presenza di oggetti relazionali, eredi del correlativo oggettivo montaliano, terminali di un dialogo affettivo e di ricettacoli di memorie, inascoltati ma esplorati nel proprio intimo e domestico spazio. Nella breve poesia che qui si trascrive, Ora tutto si quieta, tutto raggiunge il buio, tratta dalla raccolta d’esordio di Anedda, a partire da semplici indizi di un vissuto biografico, gli oggetti non assumono una dimensione passiva ma al contrario sono essi stessi gli agenti dell’ascolto (dell’attenzione): con l’immagine del cappotto disteso e dell’unica mela che rimane nel cestino, inascoltati nella loro dimensione fenomenologica, si sottintende un’assenza, una cornice di abbandono e di inermità. La poetessa si pone così, nel buio della notte, in un «gesto etico di ospitalità all’ascolto»:
Non parlavo che al cappotto disteso
al cestino con ancora una mela
ai miti oggetti legati
a un abbandono fuori di noi
eppure con noi, dentro la notte
inascoltati.
È con la seconda raccolta del 1999, Notti di pace occidentale, che la poesia di Anedda si fa civile: con un titolo amaramente ironico, la poetessa denuncia l’ipocrita idea di pax, tanto propugnata dai media durante le guerre del Golfo e del Kosovo, durante le quali, allargando il proprio sguardo oltre l’orizzonte eurocentrico, il sapore delle notti era quello di una tregua atterrita, di false notti di pace («Sono queste le notti di pace occidentale, quello che chiamiamo pace ha solo il breve sollievo della tregua»). In Traducendo Brecht, Fortini, uno dei modelli della poetessa, scriveva: La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi. La riflessione metapoetica è ampiamente sviluppata anche in questa raccolta di Anedda, in cui la scrittura è assurta a difesa del mondo e della parola, nella consapevolezza che nonostante «non esiste innocenza in questa lingua», nonostante si scriva «con riluttanza / con pochi sterpi di frase / stretti ad una lingua usuale», la poesia resiste, citando Donati, «per proteggere ciò che con fatica e pena esiste, si tratti di esseri e creature o dell’ancor più labile, povero linguaggio.» Segue un estratto di In una stessa terra:
Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
[…]
scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli.
Con la raccolta Dal balcone del corpo (2007) si inaugura la seconda fase della poetica aneddiana, sancita in primo luogo dalla comparsa dei testi in limba (Attitos, Contra Scaurum, Limba) a cui la poetessa dedica l’omonima poesia: una riflessione sull’identità e sul ruolo di questo linguaggio alternativo, una koinè delle diverse parlate sarde. Si tratta di un linguaggio che in una dimensione transtemporale attraversa il passato, il presente e il futuro, essendo allo stesso tempo Limba-matre e Fiza-limba, con la volontà di preservare e proteggere quanto di più intimo e arcaico, privato e comunitario alberghi nella sua sonorità:
Non tenes baùle ’e istrisinare in supr’e nie
ma unu cane a trémula in s’iscuriù
Limba-matre ses triste
s’azu s’inniéddigat in sa sartàine
sa mùghit’anziat
sos ventos si coffundent.
Eolo survat et Babele s’isparghet.
Fiza-limba tràchitas a ghineperu.
Una tremita tua naschinde
est ch’astula de livrina in mes’a isteddos
et sas mues, sas nues a sa thurpas fughint
iscanzellande dae chelu onzi zenìas.
Il legame con la tradizione sarda continua in Salva con nome (2012), il cui titolo, per citare Cecilia Bello, «allude a rinominare i file, ma allude anche a un’incerta, inseguita, forse impossibile salvezza terrena con nome». All’impossibilità di dare un nome al reale, nella consapevolezza che il nome è nulla, la poetessa contrappone la tradizione e la potenza delle sue radici, a cui si mescolano, ancora una volta, influssi artistici e visivi. Rievocando la sua infanzia e la visione delle donne anziane intente a tessere su grandissimi telai nei vicoli sardi, e ricordando il modello di Louise Bourgeois, scultrice e figlia di un restauratore di arazzi («Mi hanno sempre affascinato gli aghi, hanno un potere magico. L’ago serve a ricucire gli strappi. È una richiesta di perdono»), Anedda dedica una sezione all’arte del cucire, dall’omonimo titolo, da cui si propongono due estratti: «Cuci una foglia vicino alle parole, cuci le parole tra loro, guarda una foglia come viene soffiata lontano. / […] / Da sempre mi mancano le parole e io ne ho nostalgia. / Per questo cucio, cucio, cucio». E ancora: «Cuci una federa per ogni ricordo, mettili a dormire, /dai loro il sonno di un lenzuolo di lino. / […] / Una mela cade sull’erba ma tu imbastisci e cuci. Servono aghi e forbici. Serve precisione».
Infine, il tentativo dell’ultima raccolta, Historiae (2018) è quello di costruire una nuova lingua, impostandola al passato: il riferimento sono i grandi classici, in particolare l’omonima raccolta di Tacito. Per Carmelo Princiotta siamo di fronte alla «voce tragica per eccellenza della poesia italiana contemporanea». In uno dei componimenti centrali della raccolta, Annales, gli aspetti esaltati della lingua latina quali l’assenza o quasi di aggettivi, il gerundio che evita inutili giri di parole e la forma lapidaria diventano una chiara dichiarazione di poetica. Guardare al passato non in modo statuario, ma dinamico, avere in Tacito il punto di partenza e nel presente il punto di arrivo, sentirsi parte di un processo di metamorfismo evolutivo e di mutatio animi, è il messaggio essenziale dell’ultima Anedda perché, come scrive in Macchina:
Eppure non ha senso
rimpiangere il passato,
provare nostalgia per quello che
crediamo di essere stati.
Ogni sette anni di rinnovano le cellule:
adesso siamo chi non eravamo.
Anche vivendo - lo dimentichiamo -
restiamo in carica per poco.