Giovedì, 28 Novembre 2024 10:30

Giovanni Giudici: «nel sotto e nel soprammondo»

Scritto da Stefano Caiuli

Giovanni Giudici «nel sotto e nel soprammondo»

Scritto da Stefano Caiuli

[Pubblichiamo una selezione dei testi che le studentesse e gli studenti del corso "Poesia italiana del Novecento e contemporanea", Cds in Lettere - Curriculum contemporaneo dell'Università del Salento, hanno utilizzato per i loro seminari autogestiti]

Come è noto, Giovanni Giudici riceve in età giovanile una claustrofobica educazione cattolica che lo condurrà ad un «vicolo cieco». I debiti dichiarati nei confronti di Eugenio Montale, di cui ricorrono puntuali citazioni e nelle cui «miniere abbandonate» sembrava condannato (Fortini), complice quella oscurità espressiva difficile da rimuovere, sono evidenti nelle prime poesie databili alla fine degli anni Cinquanta della Vita in versi, la raccolta pubblicata nel 1965. Forte è anche, nella poetica di Giudici, l’influsso del suo «poeta preferito»: Umberto Saba, modello di un «tenero abbandono comunicativo», allo stesso tempo autore di un’«esplicita e indifesa manifestazione di sé».

Anche l’influsso di Gozzano è presente nella struttura del verso: l’ironia non attraversa solo il piano lessicale ma intacca anche il piano metrico-prosodico, apparentemente ancorato alle forme poetiche tradizionali, come Giudici chiarisce nel saggio La gestione ironica (1964). Nella poesia intitolata (ironicamente) Mimesi, si rivela il fine conoscitivo (etico) di questa strategia retorica: «[...] per smuovere un sorriso, / ho specchiato i pensieri della gente: / certo non senza ironia - ma troppo / celata non serve [...]». Tuttavia, l’accostamento del poeta all’etichetta sbrigativa di neocrepuscolare è stato scongiurato da Pier Vincenzo Mengaldo, che scrive: «[...] il contagio tra aulico e prosaico in Giudici [è] meno evidente che in Gozzano, perché l’aulico (poco) è semplicemente immerso nello stesso terreno di cultura del prosaico».

Questo dialogo costante con la tradizione del nuovo arriva alla riscoperta di Dante: presenza costante nei suoi versi (più marcatamente dalla raccolta O beatrice, del 1972), il magistero dantesco è rintracciabile nel peculiare multilinguismo di Giudici, solido fondamento della Vita in Versi. Giudici scrive nella poesia eponima del suo intento di «trovare il sublime, l’infame, l’illustre», attraverso una narrazione in versi di questo «sotto e […] soprammondo», attingendo da una variegata umanità spettatrice: «gli astanti», affacciati al limbo delle «intermedie balaustre», queste ultime liricamente emblema della condizione di un individuo sospeso tra due mondi (si ricordi Ungaretti, da Stasera: «L’allegria: balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia» - simbolo in quel caso della vita del soldato, sospesa sull’abisso della morte).

Complessivamente, in questa fase, il fine ultimo della poesia di Giudici è il disegno o il ritratto mobile e dinamico - serio, tragico ma anche caricaturale - di figure umane che rispondano al progetto di «mettere in versi la vita», lontano dal monolinguismo lirico. All’interno di questo mondo descritto, agisce come una forza gravitazionale un ineludibile benché occulto determinismo, come emerge ne L’incursione sulla caserma: «Ero immobile sotto un calmo cielo, / marzo pieno d’azzurro, ma quel cielo / non potevo vedere contro il nero / asfalto in cui premevo la mia faccia». La novità della sua poesia sta nella sospensione tra sincerità e finzione: se gli effetti di abbassamento parodico saranno portati all’estremo dal vecchio Montale da Satura in avanti, è tutto di Giudici il gioco prospettico tra io autoriale e io finzionale, autobiografia e poesia.

 

L’impiego presso la Olivetti è fondamentale per approdare nella realtà culturale più importante del suo tempo. Il profondo senso religioso e, più specificatamente, cattolico, si intreccia non pacificamente con l’aura laicizzante dell’ambiente olivettiano, per fronteggiare il consumismo neoborghese - biasimato e stigmatizzato - che si respira nella vorace Milano del boom economico negli anni Sessanta («l’aria è gialla»).

Ne La resurrezione della carne, componimento inserito nella quinta sezione della Vita in versi intitolata L’educazione cattolica, le tracce di questo disagio o insofferenza interiore raggiungono l’apoteosi. Qui Giudici narra di un incontro-visione, probabilmente tratto da un episodio infantile, che coinvolge una figura che proviene «dai morti». È un personaggio che appare seminudo, con una «muta ristrettezza immane [...] negli occhi»; il dubbio del poeta riguardo al senso di quella allucinata epifania si manifesta tramite una catena di interrogative: «per ammonirmi, interrogarmi, discutere / la mia presenza: tu / qui cosa fai? cosa vuoi?».

Segue poi una dettagliata ekphrasis che rimanda a un’atmosfera lugubre, inquietante, spettrale: un orizzonte che sembra dovere molto alla poesia sepolcrale tipica del romanticismo inglese (Elegy written in a country churchyard di Thomas Gray, a sua volta ispiratrice dei Sepolcri foscoliani): «a mezz’aria al confine con il massimo / lume di quella penombra, schiene curve, / movimenti, rilievi di vertebre, / ulne, fratture, òmeri, ossa in cerca / di giusta sede in carni estranee, senza / ancora forma». Il riferimento biblico è al Libro di Ezechiele, capitolo 37: «Visione delle ossa secche». Proseguono le tracce di quella affannosa necessità di dialogo o resa dei conti: «Io non ho colpa. Ho aura di tanto strazio, / […] / perché tu / mi guardi, minacci un castigo?». Nel finale, come sottolinea Mario Boselli, si rivela che non di resurrezione si tratta, ma del desiderio di una seconda morte: «si accostò al muro con i denti... Allora io capii che voleva / mordere quei veleni». La tensione di un incubo viene amplificata dall’incombere di un presente immobile, che tuttavia si moltiplica sul piano dell’azione grazie allo sdoppiamento dell’entità enunciativa, alla focalizzazione interna del poeta-autore-personaggio.

Articoli correlati (da tag)