Lunedì, 25 Novembre 2024 18:48

Didascalie, clecsografie, tiptologie: la poesia di Valerio Magrelli

Scritto da Elena Abate

[Si pubblica una selezione dei testi che le studentesse del corso "Poesia italiana del Novecento e contemporanea", Cds in Lettere - Curriculum contemporaneo dell'Università del Salento, hanno utilizzato per i loro seminari autogestiti]

 

Didascalie, clecsografie, tiptologie: la poesia di Valerio Magrelli

Scritto da Elena Abate

 

Nell’analisi dell’opera poetica di Magrelli si possono rintracciare alcuni elementi comuni, soprattutto in termini di stile, che oscilla tra materialismo e “anti-materia” e una tendenza discontinua ma tenace verso la sliricizzazione della poesia.

Dopo la laurea in filosofia, uno dei suoi primi lavori fu una ricerca sul Dada: lo studio delle avanguardie storiche è forse il punto cruciale per comprendere la sua scrittura, intrinsecamente sarcastica e irriverente, che nasce dal basso per comunicare elementi alti. Magrelli si inserisce in quel filone di scrittori che criticano la società neocapitalistica degli anni Ottanta e Novanta del Novecento. Per Magrelli tutto può essere poesia, anche gli oggetti e le azioni più insignificanti del quotidiano. La “violazione originaria” intrinseca alle avanguardie lo spinge verso la resa oggettuale della soggettività, l’io che si coglie nelle sue relazioni con l’esterno, perché cosa fra le cose. È una visione fenomenologica, in cui l’io è in stretta relazione con il corpo, materia vivente e scrivente. Lo spazio della poesia coincide con quello del soggetto naturale e insieme artificiale: è esattamente questo il campo della sua scrittura, in cui si percepisce che la relazione tra poeta, foglio e scrittura è materica e spaziale. 

 

  1. «Foglio bianco / come la cornea d’un occhio» 

Lo spazio deve però assumere una forma, tramite il tracciamento di mappe, secondo la spiccata vocazione cartografica di Magrelli. Entrambi, libri e corpi, posseggono un’ossatura, possono essere divisibili o danneggiabili. Qui si riporta un esempio, dalla sezione Aequator Lentis di Ora serrata retinae

 

Bisognerebbe fare alla fine d'ogni libro

una piantina. Non un indice, piuttosto

una planimetria delle sue parti,

descrivendo le fondamenta,

i suoi diversi accessi, le stanze,

i servizi e i disimpegni.

Bisognerebbe precisarne anche

la capienza ed i costi, spiegando

l'ammontare della manutenzione nel tempo.

Svelare così l'ossatura del cantiere,

le sue membra nascoste

dal paramento della pagina.

Soprattutto sapere: quale

e quanto il materiale

(legname, pietre, tubature, cemento)?

 

Enrico Testa introduce la prima fase dell’opera di Magrelli con l’espressione “passione geometrica”. Essa guiderebbe al “pellegrinaggio del pensiero” tramite un lirismo argomentativo, dal quale si percepisca il limite della scrittura. Essa non può descrivere totalmente il pensiero dell’uomo. A questo punto, insorge la questione metaletteraria: Magrelli si interroga sulla poesia e sulla sua costruzione. L’intento è evidente in Ora serrata retinae (si cita sempre da Aequator lentis):

 

 Questo è il difetto tutto artigiano

di parlare dello strumento

mentre lo si usa.

Si considera ciò che si fa

e si finisce per fare

soltanto ciò che si considera.

L'oggetto che ne esce

è un figlio che parla del padre,

o viceversa.

 

È presente un nesso tra forma e mutazione in un nuovo stato, la permanenza del tragitto percettivo unito al sentimento animistico della materia. Quando si scrive, si dà sepoltura alle proprie parole, dandone forma definitiva.

 

Di sera quando è poca la luce,

nascosto dentro il letto

colgo i profili dei ragionamenti

che scorrono sul silenzio delle membra.

E qui che devo tessere

l'arazzo del pensiero

e disponendo i fili di me stesso

disegnare con me la mia figura.

Questo non è un lavoro

ma una lavorazione.

Della carta prima, poi del corpo.

Suscitare la forma del pensiero,

sagomarla secondo una misura.

Penso ad un sarto

che sia la sua stessa stoffa.

 

Ora serrata retinae uscì nel 1980 all’interno della collana “gialla” di Feltrinelli. Fu ristampata nel 1989, due anni dopo l’uscita della seconda raccolta, Nature e venature. La raccolta contiene novanta poesie scritte a parte dal 1974, quando Magrelli aveva diciassette anni. Parola chiave di Ora serrata retinae è “miopia”. Tramite il linguaggio settoriale del campo oculistico, l’autore indaga la visione sfocata degli oggetti. “Ora serrata retinae” è un’espressione che in medicina significa “margine frastagliato della retina”. La “prodigiosa difficoltà della visione” impone un ininterrotto aggiustamento dell’occhio e della mente: “il mondo senza occhiali sembra un televisore rimasto acceso dopo la fine dei programmi”.

 

Molto sottrae il sonno alla vita.

L’opera sospinta al margine del giorno

scivola lenta nel silenzio.

La mente sottratta a sé stessa

si ricopre di palpebre.

E il sonno si allarga nel sonno

come un secondo corpo intollerabile.

 

 È una poesia di sette versi liberi, per lo più novenari. Ci sono delle allitterazioni come r-n al verso 2, la liquida l al verso 3, pr/br al verso 5. Ogni parola a fine verso è piana, tranne al verso 5 (pàlpebre) e 7 (intolleràbile), due parole sdrucciole che creano un certo ritmo, pur non facendo rima. Tra i versi 1 e 5 l’io lirico ha una presa di coscienza: l’uomo è l’opera, è la vita stessa che, arrivata a fine giornata, lo fa addormentare per la stanchezza. La seconda parte comincia con una tautologia: il sonno si allarga nel sonno, l’uomo diventa altro uomo, assume una seconda forma. L’essere umano è abbandonato a sé stesso, è diventato cosa inanimata. Ecco un altro esempio dell’anti-lirismo di Magrelli, con l’uso dell’antimateria poetica (tra fogli bianchi e quadernetti gialli): 

 

Foglio bianco

come la cornea d’un occhio.

Io m’appresto a ricamarvi

 un’iride e nell’iride incidere

il profondo gorgo della retina.

Lo sguardo allora

germinerà dalla pagina

e s’aprirà una vertigine

in questo quadernetto giallo.

 

È un componimento di nove versi liberi, per lo più novenari. Si ritrovano allitterazioni (r-d al verso 4, g-t al verso 9), una rima tra retina-pagina (e vertigine). Da notare i campi semantici della vista (cornea, occhio, iride, retina, sguardo) e della scrittura (foglio, pagina, quadernetto); il cambiamento cromatico da foglio bianco (v.1) al quadernetto giallo (v.9). Vi è un chiasmo tra i versi 3 e 4. Tra i versi 1 e 5 si assiste alla messa in forma della questione metaletteraria: il poeta parla di poesia mentre la scrive su un foglio bianco. È una superficie, come la cornea dell’occhio, su cui va a ricavare il disegno dell’iride, da cui vuole incidere la retina. Dalla superficie si va in profondità, dalla scrittura si giunge al pensiero scritto. Il semplice foglio bianco si riassume nell’insieme di poesie scritte nell’intero quaderno giallo.

 

 2. Qualcosa da dire 

Le cavie è il volume edito da Einaudi che presenta tutte e sei le raccolte poetiche scritte fino al 2014. Qui Magrelli parla di un’ortopedia civica, strumento col quale intende scrivere poesie dall’intonazione civile, sociale e politica. Il paesaggio è ora decisamente tecnologico e patologico: l’uomo trasforma la natura e la rende malattia. La pratica della prosa, già presente in Esercizi di tiptologia, ha spinto alcuni critici come Federico Francucci a parlare di “proesia”, perché prosa e poesia sono due codici che nella nuova scrittura di Magrelli si intersecano, senza più appartenere precisamente né all’una né all’altra.

In Nature e venature permane lo stile di Ora serrata Retinae. Sotto forma di un dettato caratterizzato da compostezza ed esattezza, fingendosi elementare, il poeta punta ai temi dell’assurdo, tra cui una straniante e vischiosa aderenza alla fisicità oggettuale e biologica del reale. La natura diventa in questo modo “panoplia” della mente, un’armatura formata dai paesaggi geografici, i quali diventano corpo, funzioni anatomiche che mostrano i segni esterni di un’umana funzionalità architettonica. Magrelli utilizza un’ironia sottile, paradossale, e ogni suo componimento poetico risulta ancora una volta sottoposto a un singolare processo di sliricizzazione. Non parla mai sul serio di morte, ma di una lenta usura delle cose che porta a nuove forme geometriche. Ogni oggetto possiede un peso, un certo residuo di pensiero, e le immagini si incuneano in una sorta di archeologia biologica, intima ma al contempo esterna.

Bonito afferma che «la disseminazione del segno (oggettuale, grafico) risulta maggiormente frammentata, disgregata, perché depotenziata dell’allusività allegorica di Ora serrata retinae». Ma permane l’ossessione per le «crepe», i margini degli oggetti: si tratta secondo Enrico Testa di «crepe d’ossa e di tazze con portato semantico biologico ed esistenziale, crepe del vivere, […] scissure sottili che percorrono la sezione Clecsografie inquietandone il tessuto poetico intitolato a un gioco di disegno sospeso tra casualità e volontà» (le clecsografie sono immagini create piegando un foglio macchiato d’inchiostro): 

 

La pioggia

che scende sull’ultimo giorno

dell'anno, lo fa diventare

un bacile,

dove tutti i suoi giorni si raccolgono

confusi in quest’unica acqua

della condanna, io

pronto già a consegnare

l'innocente al supplizio.

 

 Come si nota, il significato della poesia ora diventa più oscuro, seppure lo stile sintattico e la scelta del lessico appaiano sempre molto semplici. È un componimento di nove versi liberi; si notano degli enjambements in quasi tutti i versi, regalando questo ritmo spezzato. Vi è la ripetizione di giorno-giorni e una rima (diventare-consegnare). I primi sette versi raccontano una storia: l’ultimo giorno dell’anno è ridotto a un bacile contenente l’acqua della pioggia, e quel liquido corrisponde all’insieme di tutti i giorni precedenti. L’acqua del bacile è però stagnante, raccoglie in sé tutto il vissuto dell’uomo. La pioggia, elemento naturale, diventa l’armatura del pensiero umano, che così potrà ricordare l’anno appena passato. Dal verso sette, con una forte e netta cesura, cambia il soggetto. Il poeta è pronto a lasciarsi tutto alle spalle. 

 

Amo i gesti imprecisi,

uno che inciampa, l'altro

che fa urtare il bicchiere,

quello che non ricorda,

chi è distratto, la sentinella

che non sa arrestare il battito

breve delle palpebre,

mi stanno a cuore

perché vedo in loro il tremore,

il tintinnio familiare

del meccanismo rotto.

L'oggetto intatto tace, non ha voce

ma solo movimento. Qui invece

ha ceduto il congegno,

il gioco delle parti,

un pezzo si separa,

si annuncia.

Dentro qualcosa balla.

 

La poesia è tratta dalla sezione I mestieri: 18 versi liberi solcati dalle rime cuore-tremore, la rima imperfetta sentinella-balla, l’assonanza tace-voce-invece. Ricorda-cuore sono legate etimologicamente. Il poeta afferma di amare i gesti imprecisi, le sfasature, le imperfezioni e le disarmonie degli esseri umani. Spiega che l’oggetto intatto tace, non ha voce. La perfezione è morte, non ha nulla da dire, si muove in linea retta. Al contrario, qui, dove il congegno è caduto, il cuore batte, c’è qualcosa da dire.

 

 3. Il telaio del male 

Esercizi di tiptologia è l’ultima raccolta qui presentata. Appare come un oggetto testuale di tipo ibrido, contaminato e spurio, a causa dell’utilizzo nelle varie sezioni di prosa e poesia. La tiptologia fa riferimento allo studio del battito, dal greco typtein. Qui però si intende per la precisione un dettato tiptografico, un linguaggio cifrato da “diteggia[re]”, col quale Magrelli rivela il significato della sua “proesia” rivolta verso il basso.  

 

È la spola dei versi

il telaio del male

il zig-zag sorridente

dei punti di sutura.

Se il mondo è un panno zuppo

imbevuto di morte

cucilo dolcemente

non lo stringere

non fare fuoriuscire la sostanza

che lo tiene allacciato

trattieni il fiato

fai passare il filo

lega se puoi quell'acqua

al rammendo visibile

che mi sciupa la giacca.

 

 È una poesia di 15 versi liberi. Emerge il linguaggio settoriale dell’artigianato tessile. Vi si trova un’anafora ai versi 8 e 9; rime (sorridente-dolcemente, allacciato-fiato), rime interne (cucilo-filo, tiene-trattieni). Anche qui si può scorgere il tema meta-letterario: la “spola dei versi”, cioè la poesia stessa, da intendere come il “telaio del male”. Tra l’altro, guardandola attentamente, la forma del componimento è a zig-zag. Il poeta si mette a cucire il mondo, che subisce un’ulteriore reificazione nella giacca, un panno zuppo imbevuto di morte.

La sliricizzazione dei contenuti, ciò che Magrelli definisce “materia anti-poetica”, si congiunge a una perizia formale mai venuta meno dai tempi della sua prima raccolta, e fa tutt’uno con una tensione metaletteraria che paradossalmente diviene strumento di intervento civile, come avviene in Il sangue amaro (2014). Si legga la poesia Santo tratta da Didascalie per la lettura di un giornale (1999):

 

Quel nome che accompagna

il giorno del giornale porta

il ricordo di un corpo straziato.

C'è sempre un vescovo, un martire o una vergine

a tingere di sangue sacro il frutto delle

rotative - non olive

ma inchiostro sotto il torchio.

 

Tra poemetto eroicomico e invettiva, satira politica e testimonianza civile, la poesia di Magrelli si misura ancora una volta con la realtà attraverso la messa in scena dell’(anti-)materia della pagina scritta, tra inchiostro, torchio e rotative.