Lunedì, 25 Novembre 2024 16:08

Una «Wanderung della scrittura»: su Edoardo Sanguineti

Scritto da Isabella Monte

 

 

[Si pubblica una selezione dei testi che le studentesse del corso "Poesia italiana del Novecento e contemporanea", Cds in Lettere - Curriculum contemporaneo dell'Università del Salento, hanno utilizzato per i loro seminari autogestiti]

 

 

Una «Wanderung della scrittura»: su Edoardo Sanguineti

di Isabella Monte

 

«Uno sguardo vergine sulla realtà»: così, nel 1967, Edoardo Sanguineti parlava della sua poesia. Genovese di nascita e torinese d’adozione, scriveva poesia già nel 1951 e lo faceva in un modo talmente dissonante ed insolito (non per Pasolini che, nel giovane poeta neoavanguardista riconobbe i redivivi «entusiasmi pre-ermetici» ) che, quando nel 1956, Luciano Anceschi decise di pubblicare Laborintus, prima fatica sanguinetiana, nella collana Oggetto e Simbolo di Magenta, le reazioni dei contemporanei non tardarono a palesarsi.

Andrea Zanzotto, senza mezzi termini, parlò della raccolta come di una «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso» e Sanguineti, in un dissing ante litteram al vetriolo, volle ribattere con un’illuminante puntualizzazione da mic drop, spiegando che: «il cosiddetto esaurimento nervoso che [lui tentava] di trascrivere sinceramente era poi un oggettivo esaurimento storico».

Una scrittura disarmante, quella di Laborintus, che lascia interdetti e stupefatti, intontiti, forse, dal violento affastellamento di vocaboli, verbi e locuzioni, dal febbrile plurilinguismo dei costrutti, dalla totale liquefazione della sintassi che, come un tornado del tutto inaspettato, percuote e stravolge la mente del lettore e lo lascia completamente inerme.

«Un delirio schizofrenico»,  per citare Enrico Testa che, come un virus psichiatrico mai isolato, contagia le sinapsi di chi vi entra in contatto, facendolo smarrire nel vano tentativo di rintracciare un filo logico, seppur consunto e slabbrato, che tenga insieme quelle che hanno tutta l’aria di essere indecifrabili e deliranti farneticazioni.

I componimenti di Laborintus si facevano specchio, sporco e frantumato, di un momento storico e artistico preciso, ma è anche un raffinato prodotto intellettuale, elitario e voluttuosamente cerebrale, che inaugura una fase poetica destinata, tuttavia, ad autoconsumarsi e reinventarsi proprio per porre rimedio ad un’irreversibile incomunicabilità che si sarebbe rivelata fatale.

  1. «Ritorna mia luna»

In questo bizzarro e criptico esordio poetico, l’io autoriale si presenta come un’entità sfuggente e polimorfa, capace di traumatizzare il lettore ma anche di rassicurarlo (ingannevolmente e, a tratti, subdolamente) regalandogli, per esempio, una versione, talvolta magistralmente camuffata, talvolta sfacciatamente palese, di uno dei più sdoganati e tradizionali stilemi leopardiani: la luna.

La Palus Putredinis con cui si apre il poemetto non è solo, letteralmente, la palude putrescente di una realtà ormai in fase di disfacimento, ma è anche una zona (realmente esistente, individuata e così denominata nel 1935) della superficie lunare.

E ancora, nell’ottavo componimento di Laborintus, «Ritorna mia luna in alternative di pienezza e di esiguità / mia luna al bivio e lingua di luna» riappare la stessa tendenza stavolta in uno spudorato uso quasi vocativo del tópos che fu di Leopardi.

Una metamorfosi concettuale del più "poetato” tra i satelliti, da offrire, come capro espiatorio, agli spaesati pastori erranti di fine millennio.

Un’analisi accurata dei componimenti di Laborintus è stata condotta, negli ultimi anni, da uno dei massimi studiosi sanguinetiani, nonché curatore di molte prefazioni alle nuove edizioni dei compendi poetici dell’autore, Erminio Risso che, in Laborintus di Edoardo Sanguineti, edito da Manni nel 2020 nella collana Antifone, realizza un minuzioso lavoro esegetico sul modello della Commedia dantesca. Risso ripercorre le 27 poesie della raccolta, introducendole, commentandole ed arricchendole di annotazioni in grado di restituire al lettore una visione chiarificatrice della complessa struttura formale e contenutistica del poemetto.

Una volta superate le convulsioni di Laborintus, Sanguineti si aprirà a materiali progressivamente più accessibili, in cui occuperanno uno spazio sempre più ampio gli innumerevoli scorci diaristici che raccontano di viaggi, di famiglia e d’amore.

Ma l’evolversi delle tematiche non contemplerà mai il rischio della banalità.

Come sostenuto dallo stesso Risso in un’intervista del 2022 per il numero 45 della rivista Oblio, nel caso di Sanguineti è giusto parlare di «continuo tentativo di produrre una scrittura che sia complessità e ricerca senza adeguarsi alle richieste più banali del mercato, perché non è mai presente un ripiegarsi sul già visto. Anzi la forza di Sanguineti è una scrittura senza centro, una Wanderung della scrittura, un pensiero critico ‘nomade’, perché c'è il rifiuto di cristallizzarsi in una posizione definitiva, in quanto c’è un costante confronto con la realtà effettuale in continua trasformazione e mutamento».

  1. Un’idea di amore

«In te dormiva come un fibroma asciutto», poesia tratta dalla seconda raccolta, Erotopaegnia del 1960, è una delle più lampanti evidenze della persistenza di quel taglio innovativo non solo della forma ma anche degli intenti dell’autore.

Sanguineti si rivolge alla moglie e la mette a conoscenza del proprio punto di vista sulla nascita del figlio, dalla gestazione al parto, in una “scabrosa” versione dei fatti.

La gravidanza e la nascita di un bambino, evenienze che siamo abituati a maneggiare con i guanti della tenerezza e delle effusioni, vengono qui dissezionate con approccio apparentemente chirurgico, asettico e freddo, proprio come un tavolo operatorio.

Il feto viene paragonato ad un «fibroma asciutto», ad «una magra tenia», come fosse un parassita opportunista dalla natura neoplastica che, intaccando il corpo materno, si insedia nel suo utero e lo tiene in ostaggio.

Eppure, Sanguineti non mostra disaffezione in questa sua modalità (forse sconvolgente e inaspettata, ma comunque non meno vera di quella a cui siamo più inclini) nel riferirsi alla nascita del primo figlio.

L’affetto paterno più sincero e primigenio è accomodato proprio nella preoccupazione, nell’assillo di un genitore che si domanda se il mondo saprà soddisfare le aspettative del nuovo nato, se «queste forbici veramente sperava», «questa pera, quando tremava» nel «sacco di membrane opache» della madre.

Demistificare ciò che non avremmo mai osato, dunque, per riprendere in mano, con consapevolezza, le redini della realtà, senza stucchevoli e paralizzanti preconcetti.

Sanguineti, anche questa volta, ci insegna che ogni connotazione dell'esistenza e dell'animo umano può essere considerata da una posizione intellettuale non convenzionale, senza comunque snaturarla o renderla meno reale, lasciandoci intravedere un'idea sistemica di "amore" per la quale, forse, non siamo ancora del tutto preparati.