Lunedì, 29 Luglio 2024 12:02

“Smontare le retoriche”. Responsabilità e scrittura in Luca Rastello

Scritto da Ambra Maria Trové

 

 

 

Nel panorama della produzione letteraria degli ultimi decenni ha cominciato a delinearsi sempre di più un profilo di intellettuale ‘impegnato’ che, chiamato a intervenire su diversi argomenti di attualità, pone la propria scrittura sullo stesso piano della comunicazione televisiva e dei social network, rendendola un altoparlante per veicolare luoghi comuni e rappresentazioni rassicuranti della società in cui viviamo. Ne risulta una letteratura parassitaria dell’attualità, dei problemi e dei conflitti che l’attraversano. A questa sostanziale umiliazione della letteratura, Luca Rastello oppone una scrittura disposta a ribaltare continuamente i punti di vista. Convinto di avere il compito di decostruire i luoghi comuni che dominano la democrazia e il dibattito dei nostri giorni, Rastello si dimostra capace di volgere un’analisi critica sulle «troppo facili e troppo scontate certezze» che hanno dato corpo al prodotto letterario contemporaneo:

 

“Se l’intellettuale oggi ha un ruolo, è ancora e sempre quello del vivisettore. Non bisogna enunciare valori, costruire speranza, ma smontare le retoriche, far fuori le immagini e le pratiche rassicuranti e concilianti […] come narratore il mio compito è soltanto (altrimenti sarebbe delirio di onnipotenza) vivisezionare le retoriche dominanti che paralizzano l’agire democratico. Chi di mestiere fa il parolaio ha il compito di usare le parole come arieti contro le rappresentazioni rassicuranti”.

Con La vivisezione (Mimesis, 2024), Elia Faso assimila la lezione di Rastello e, raccogliendone l’invito, affonda il coltello nella sua opera e la incide, osservando così da vicino i meccanismi della macchina narrativa dei tre romanzi pubblicati in vita e della raccolta di racconti Undici buone ragioni per una pausa (Bollati Boringhieri, 2009). La ‘tensione vivisettrice’ ereditata da Rastello, diretta al soggetto e all’oggetto delle sue rappresentazioni, conduce Faso a proporre una brillante analisi interpretativa delle strategie stilistiche e narrative usate dall’autore per resistere alla riproduzione conciliante - funzionale al mercato e all’ordine sociale - di quei processi storici che negli ultimi decenni hanno influito sulla vita pubblica e privata di molti di noi.

La prima opera sulla quale Faso si sofferma è da considerarsi in stretto rapporto con la biografia dell’autore. Nel 19992, infatti, in risposta all’appello di accoglienza nei confronti dei profughi della ex Jugoslavia che rischiano di non sopravvivere all’inverno, Rastello decide di mettersi in viaggio verso la Bosnia, per aprire un varco e riuscire a mettere in salvo un totale di cinquecento profughi. Dall’inchiesta sul campo nasce La guerra in casa (Einaudi, 1998). Procedendo per nuclei stilistici e tematici, l’indagine di Elia Faso dimostra al lettore come Luca Rastello sia riuscito a decostruire dall’interno la macchina del romanzo ‘impegnato’ - che solitamente punta sulla sovraesposizione autobiografica e critica dell’io autore/narratore - creando invece un’opera anomala che corregge i limiti della soggettività attraverso il confronto con l’altro e la verifica documentaria di ciò che si racconta. È così che ciascun capitolo viene diviso in una prima parte che usa la voce dell’autore per raccontare la storia di un personaggio e una seconda che ne ricostruisce il contesto geo-storico a partire dal confronto documentario.

Quell’io standardizzato contro cui si muove Rastello viene dunque ridimensionato attraverso molteplici tecniche di rarefazione, che permettono all’autore di uscire dalla sua soggettività per sostituirla con un’intersoggettività che ‘moltiplica gli sguardi’. Il confronto tra più punti di vista prende forma attraverso l’alternanza strategica dei pronomi io-tu e della coppia qui-lì, che attraversa tutto il romanzo e che, secondo Faso, costituirebbe un espediente linguistico sfruttato da Rastello per suggerire una riflessione circa il fatto che non dovrebbe esistere una differenza tra lì (=luogo in cui la guerra c’è e in cui un ‘tu’ è coinvolto) e un qui (=luogo in cui la guerra è assente e da cui l’‘io’ osserva).

Portate all’estremo, le tecniche di rarefazione della soggettività autoriale arrivano a scardinare l’ipotesi secondo cui coloro che sono coinvolti in una guerra debbano per forza suddividersi tra vittime e carnefici. A tal proposito, Faso soppesa l’influenza della lezione di Daniele Giglioli circa il ruolo centrale che ricopre la decostruzione della mitologia vittimaria ne La Guerra in casa. Mito (luogo comune) di una cultura che ha fatto dello storytelling il proprio patrimonio, la vittima garantisce una storia da spettacolarizzare, con chiarezza, linearità e univocità; la decostruzione di questa mitologia tecnicizzata, stimolata in Rastello dalla lettura delle opere di Furio Jesi, passa attraverso la complessità, le contraddizioni e le ambiguità della scrittura, che rovescia il punto di vista del carnefice per dimostrare che anche questi può risultare una vittima nel meccanismo ingiusto della guerra. Attraverso questo processo, spiega Faso, l’autore può restituire alle vittime la loro agency, ovvero la responsabilità degli atti commessi, permettendo al lettore di guardare a queste ultime non solo in funzione di ciò che hanno subito, ma anche in relazione a quello che hanno fatto.

Nel secondo capitolo della monografia, Elia Faso s’immerge ancora più a fondo nella produzione romanzesca rastelliana, per toccarne, con una viva analisi, il cuore pulsante: Piove all’insù (Bollati Boringhieri, 2006). La genesi del romanzo, ricorda Faso, è da ricercarsi nella volontà di scrivere un’inchiesta sul Golpe Borghese: convinto che la responsabilità del Golpe non debba ricadere necessariamente soltanto su “un pugno di fanatici e sradicati che facevano capo al cosiddetto ‘principe nero’”, Rastello scava sempre più a fondo e con precisione nella Storia. Ritornano così alla sua mente i ricordi dell’infanzia e della giovinezza vissuta nella Torino di quegli anni, che racconta attraverso la voce di Pietro Miasco, protagonista dell’opera.

L’analisi di Faso comincia dal debito che questo romanzo intrattiene con La guerra in casa sul piano delle strategie narrative. Ritorna infatti lo scambio fra ‘io’ e ‘tu’ rilevato anche nel primo romanzo, non senza qualche variazione: questa volta, l’io è la voce narrante del protagonista adolescente che trova un efficace contrappeso nella soggettività del narratore ormai adulto e portatore di una verità che il giovane Pietro ancora non conosce. Una scelta, prosegue Faso, coerente con la struttura spiraliforme del tempo del racconto, che dà al lettore la possibilità di ricostruire a posteriori ciò che resta in precedenza sospeso. Accelerazioni narrative, rallentamenti riflessivi, enumerazioni caotiche, costruzioni frammentarie della narrazione, mettono in scena l’inafferrabilità del mondo evocato e al tempo stesso difendono le storie di quegli anni dalla pretesa egocentrica del soggetto: per dare vita a una narrazione sincera e durissima, lontana dagli stereotipi fin troppo abusati sugli Anni di Piombo.

Pagina dopo pagina s’innesca un meccanismo detonatore che porta all’esplosione del tempo del racconto, vera forza del libro: ispirato dalla Praga Magica di Ripellino, spiega Faso, Rastello è stato capace di sfruttarne gli espedienti narrativi per salvare quanti più “cimeli di una cultura svanita” nell’irreparabile scontro con la Storia. Prima di passare all’ultima prova romanzesca di Luca Rastello, Faso si sofferma sulle Undici buone ragioni per una pausa. Per quanto questa possa sembrare un’opera minore a confronto con l’intero corpus rastelliano, Elia Faso riesce a esaminarla, invece, come un rilevante esempio dell’abilità e dell’ingegno che Rastello è riuscito a infondere ai temi e ai tratti tipici della sua scrittura per adattarli, senza perdite, alla forma breve del racconto. L’analisi dei brani e delle sezioni saggistiche che compongono la raccolta ritorna sulle enumerazioni caotiche e le frasi nominali che accelerano la descrizione e la narrazione - così come accade in Piove all’insù -, e ancora sugli enunciati tronchi che mimano la colloquialità del parlato. Si ripete anche la reiterazione del pronome ‘io’, che dà voce ai pensieri dell’autore, ma che in questa raccolta ricorre per sottolineare i momenti di maggiore difficoltà conoscitiva. Un ‘tu’ gli si oppone per oggettivare e mettere in prospettiva queste riflessioni, quasi come in una voce fuoricampo. Ma la vera innovazione dell’opera, spiega Faso, è da individuarsi in quello che già Trinanzi de Medici aveva definito come ‘effetto bokeh’, un meccanismo che complica la narrazione, rendendo quasi irriconoscibile il contesto extratestuale per mettere invece a fuoco il soggetto principale del racconto.

Al romanzo si ritorna nel capitolo dedicato a I Buoni (Chiarelettere, 2014), ultima opera pubblicata in vita da Luca Rastello, la cui gestazione, come ricorda Elia Faso, risale ad un articolo redatto il 30 giugno 2000 per il quotidiano «La Repubblica». Il clown del sottosuolo racconta la storia di Corina, una ragazza di vent’anni che vive nelle fogne di Bucarest - un mondo empio, fatto di botte e umiliazioni - da cui i bambini come lei cercano una via di fuga sognando gli alloggi umanitari e aggrappandosi agli effetti allucinogeni della colla. Quattordici anni dopo, dai lineamenti di Corina, prendono forma i contorni della protagonista del terzo romanzo rastelliano: Aza, una ragazzina dei cunicoli che rincorre il miraggio di una nuova vita, fatta di spazi nuovi da riempire, promessa dal "dio della legalità", don Silvano, fondatore e direttore dell’impero caritatevole “In punta di piedi”. Con la stessa sete di verità con cui Rastello scava nei modi in cui operano le grandi associazioni di volontariato, Faso indaga le tecniche narrative attraverso cui questo testo riesce a demistificare le mitologie rassicuranti su cui si fonda il mondo degli aiuti umanitari.

Rastello si misura con un linguaggio denso di morale e marketing, una ‘lingua maledetta’ strutturata e mistificante che evita di confrontarsi con un’efficacia pratica. Attraverso questo espediente, spiega Faso, Rastello svela al lettore la realtà degli aiuti volontari: chi dovrebbe impegnarsi a far sì che le proprie promesse si concretizzino, si accontenta invece della sola enunciazione di quelle, convincendo sé stesso e chi ha bisogno di aiuto di aver già compiuto del bene. 

Se è vero che la realtà è plasmata dalla lingua che utilizziamo, ricorda poi Faso, manipolare retoricamente i linguaggi significa manipolare la realtà: è questo quello che fanno don Silvano e gli altri assistenti umanitari per modificare la percezione altrui della verità e assicurarsi di non avere alcuna responsabilità sui fatti che accadono. Un meccanismo che tradisce nuovamente, come coglie prontamente Elia Faso, il debito contratto da Rastello con la lezione di Furio Jesi: le ‘idee senza parole’ dei volontari accatastano stereotipi, frasi fatte e locuzioni che rimangono ‘oscure’, generando la percezione di una de-responsabilizzazione delle ONLUS e delle “aziende” umanitarie. Viene poi approfondito l’aspetto dell’istituzionalizzazione delle associazioni umanitarie, un meccanismo che ha molto in comune con quelli su cui si fondano le criminalità organizzate, in cui i superiori impongono l’omertà e il silenzio ai fuoriusciti. La legalità diventa dunque un feticcio che l’associazione stessa non riesce a rispettare, e si dimostra un mezzo per difendere strenuamente le gerarchie di gruppo. Il cuore del romanzo, conclude Elia Faso, si trova quindi nella demistificazione del culto della legalità, che passa, ancora una volta, da un uso demistificatorio dei linguaggi egemoni.

Si conclude su quest’opera l’analisi di Elia Faso. Sebbene la monografia lasci da parte l’approfondimento delle altre opere dello stesso autore (inchieste, articoli di giornale, discorsi) in favore dell’analisi della scrittura romanzesca, La Vivisezione risulta comunque un lavoro completo, capace di mettere in luce tutti gli sguardi, le contraddizioni e le vite che animano l’intero corpus rastelliano. Partendo dalla lezione di chi a Rastello si era già avvicinato (Chiurchiù, Brondino, Trinanzi de Medici), con esiti luminosi Elia Faso riesce a imporsi come un punto di riferimento importante per chi, a quasi un decennio dalla sua morte, continua a voler interrogare e ascoltare la voce di Luca Rastello.