Sabato, 02 Settembre 2023 17:08

La fine di un mondo: una collettiva fotografica per raccontare il terremoto in Siria e Turchia

Scritto da Fanny Bortone

 

Il terremoto che alle prime luci dell’alba dello scorso 6 febbraio ha devastato il sud est della Turchia e il nord ovest della Siria ha mietuto più di 50 mila vittime in oltre 11 province dei Paesi. La collettiva fotografica “La fine di un mondo”, esposta presso il convento degli Agostiniani a Lecce dal 9 al 22 settembre, si propone di raccontare il dramma attraverso lo sguardo di sei fotografi e giornalisti che lo hanno seguito sul campo in momenti differenti; la scelta di una mostra 'partecipata' nasce dall'esigenza di rendere l'idea della dimensione, anche e soprattutto geografica, del disastro.

 

Chi si assume l’ardua responsabilità di narrare una catastrofe si confronta, prima di ogni cosa, con la necessità di trasmettere forma e misura del dramma, individuarne le radici e le cause. Esistono regole stabilite, protocolli consolidati, consuetudini con le quali ogni giornalista, fotografo e operatore umanitario è tenuto a orientare il proprio lavoro. Ciononostante, non tutte le catastrofi sono uguali. Seppur nella loro drammaticità, presentano tratti divergenti, variabili, che ne accentuano la complessità al punto da decostruire i rigidi canoni di azione e renderli volubili, il più delle volte inutilmente artefatti. Queste si innestano su terreni spesso deboli – su territori morfologicamente e politicamente liminali – e stratificano paura su rabbia, stravolgimenti su cambiamenti già in corso, consegnando lo spazio alla dimensione centrifuga del tempo. Ed è proprio quando un luogo che, già teatro di una tragedia, ne sperimenta una nuova di più ampia, immediata e distruttiva portata, l’opera di chi si appresta a raccontarla diviene particolarmente gravosa.

 

 

Santa Sofia nel mese del Ramadan (Istanbul, foto di Fanny Bortone)

 

Nelle pagine più dense del romanzo La pelle di Curzio Malaparte, Napoli è dipinta come un inferno dantesco cariato dal morbo immateriale, insieme concreto e metafisico, della peste. Da alcune delle descrizioni del paesaggio apocalittico, emerge come la distruzione provocata dall’eruzione del Vesuvio abbia accelerato il cambiamento di una città già profondamente trasformata dalla guerra e in cui alla lotta per salvare la pelle, si aggiunge il tentativo vano di permettere che la vita prosegua tra le macerie della catastrofe. È l’Ottobre del ’43 e gli eserciti alleati sono entrati da liberatori nella rocca partenopea:

“Il cielo, a oriente, squarciato da un'immensa ferita, sanguinava, e il sangue tingeva di rosso il mare, l'orizzonte si sgretolava, ruinando in un abisso di fuoco. Scossa da profondi sussulti, la terra tremava, le case oscillavano sulle fondamenta, e già si udivano i tonfi sordi dei tegoli e dei calcinacci che, staccandosi dai tetti e dai cornicioni delle terrazze, precipitavano sul lastrico delle strade, segni forieri di una universale rovina.”

Nella Napoli liberata si osserva come, davanti all’intreccio delle calamità, la narrazione dei luoghi ceda irrimediabilmente il posto a quella degli spazi: spazi contesi e tormentati, paesaggi perduti a cui destinare, come un dovere immediato, lo sforzo della ricostruzione. Tuttavia, esiste una grande difficoltà che intercorre tra la volontà di ridare forma a ciò che era e il desiderio, la promessa o la semplice speranza di far nascere il nuovo. Così, restituire la misura di uno spazio dopo la catastrofe può risultare un’operazione complicata, soprattutto se questo spazio è divenuto nel frattempo il contenitore di geografie tutte nuove, interne, geografie d’emergenza che si sommano a quelle preesistenti, ormai in rovina. 

Quando Giuseppe Didonna, ex corrispondente Rai per la Turchia e attuale giornalista Agi, mi ha raccontato per la prima volta della sua esperienza all’alba del sisma che lo scorso 6 febbraio ha colpito il Sud-Est della Turchia e il Nord-Ovest della Siria, mi ha parlato del suo essersi ritrovato in uno spazio sottratto, un complesso magmatico di rovine che andava mutando di ora in ora la sua conformazione. Ha delineato un quadro in cui si fa fatica a separare la dimensione urbana da quella sociale ed economica e che restituisce l’immagine della Turchia degli ultimi dieci anni come quella di un paese deciso a votarsi al progresso. Un paese che cresce e si trasforma, città che si evolvono, con edifici che si alzano al di sopra dei minareti e strade che si complicano nelle insegne dei locali notturni e nel commercio dei nuovi bazar dalle luci a neon. Un paesaggio liquido che riversa, all’interno dell’assetto urbanistico delle vecchie piante bizantine, geografie nuove e prive di confini, fatte di quartieri che sembrano un'unica grande piazza dove non si comprende più dove inizino gli interni e finiscano gli esterni.

 

 

Manifestazione dell’8 Marzo a Cihangir (Istanbul, foto di Fanny Bortone)

 

È questa la Turchia di oggi. Uno Stato che ha con fatica intrapreso il lungo sentiero della modernizzazione, che ha dapprima cercato di fare del laicismo e dello statalismo dal volto militaresco il motore dell’innovazione e che oggi sperimenta il cambiamento nel riscoprire le sue ataviche radici religiose, la sua identità nazionalista e l’aspirazione, eretta a bandiera del riscatto, di rilanciare il paese in un nuovo secolo turco, mosso dalla volontà di proiettarsi e riportare sé stesso al proprio passato glorioso. Alcuni degli aspetti appena menzionati sono essenziali per comprendere lo sviluppo e le conseguenze della catastrofe che il 6 febbraio scorso si è abbattuta come una tempesta su un territorio già devastato da anni di crisi e instabilità; è perciò possibile, mettendo a fuoco alcuni di essi, riscontrare una dinamica per certi versi riconducibile a quella appena descritta. La spinta verso il cambiamento, che continua ad accompagnare la Turchia contemporanea sin dalla sua fondazione, si perpetua ed è tangibile nelle macerie delle molte città distrutte. 

Emerge il discutibile protagonismo della classe dirigente, con i roboanti proclami elettorali di immediata ricostruzione, e quello dei blocchi sociali più in vista, le alleanze con i ceti più abbienti della società turca, come ad esempio il comparto dei grandi costruttori edilizi bramosi di profitti. Si pensi che una delle prime iniziative presidenziali volte a proporre un rimedio anche solo di facciata ai grandi danni del sisma è stata l’arresto di più di cento imprenditori del settore. Si tratta di una speculazione edilizia senza regole che, prima del terremoto, ha spesso plasmato il volto di molte realtà urbane, moltiplicando le potenziali vittime in aree già ad alto rischio sismico.

 

La preparazione del börek (Ankara, foto di Fanny Bortone)

 

Il cambiamento si è così manifestato nelle sue tragiche conseguenze distruttive all’alba del sisma del 6 febbraio scorso. Il terremoto si è esteso in un’area estremamente vasta, abitata complessivamente da oltre 26 milioni di persone e dove, secondo le stime prodotte dalle autorità turche e siriane, il numero totale di decessi supererebbe le 50.000 persone. Solo in Turchia sono oltre 2 milioni a essere stati costretti in tende e container, mentre si calcola che circa 3 milioni di abitanti siano stati spinti ad abbandonare le proprie case a causa della distruzione di più di mezzo milione di appartamenti, trasformati in pochi istanti in tonnellate di macerie. La catastrofe ha provocato una crisi umanitaria senza eguali che necessita di aiuti immediati, in grado di agire coscienti della complessità attuale dei territori in questione. Così, guardare a ciò che resta dello spazio di una tragedia, osservarne il perenne cambiamento, è un modo per comprendere anche ciò che quella catastrofe ha lasciato indietro, cosa ne è stato inesorabilmente travolto: il dramma dei migranti siriani confluiti oltre il confine; la cruda realtà dei campi profughi, non-luoghi in cui la miseria rende impossibile l’idea di una dimora stabile; la corruzione di un ceto imprenditoriale rapace e spregiudicato, sospinto dall’avidità e indifferente a qualsiasi regolamentazione di impatto ambientale, eretto da chi governa a volano di un’economia malconcia e sovente sull’orlo del baratro.

 

Inaugurazione della mostra “La fine di un mondo” (Lavanderia Jefferson, Lecce, foto di Fanny Bortone)

 

Accanto all’incessante lavorio di chi è accorso a raccontare e prestare il proprio aiuti nei luoghi della catastrofe, l’iniziativa “La fine di un mondo” vuole ripartire proprio da quei territori che sono al limite del confine. Muove, infatti, dall’intento di raccontare il terremoto del 6 febbraio attraverso lo sguardo di più autori, che cooperando insieme restituiscono narrazioni in grado di completarsi. Poiché la vastità dell’evento come della zona interessata rende impossibile per un singolo fotografo, giornalista o operatore umanitario essere testimone dell'intera tragedia, la mostra consente di ascoltare le testimonianze di storie diverse, in luoghi diversi e in momenti diversi. Le voci di Emanuele Satolli, Kemal Aslan, Ugur Yildirim, Italo Rondinella, Giuseppe Didonna e Unal Cam narrano momenti differenti dello stesso dramma, tentando di restituire uno “spazio intermedio” al confine tra ciò che è accaduto e il futuro che dovrà venire, tra ciò che è morto e quello che fa fatica a nascere.

 

Antiochia, la città simbolo della distruzione in Turchia (di Kemal Aslan)

 

L’esposizione è attualmente visitabile in via Pappacoda 6/8 (Lavanderia Jefferson) e dal 9 al 22 settembre 2023 si sposterà presso il convento degli Agostiniani. L'ingresso resterà sempre libero e sarà possibile partecipare ad un talk finale il giorno della chiusura dove interverranno autori ed esperti.

L’obiettivo finale è quello di raccogliere fondi attraverso la vendita del catalogo per sostenere il progetto "Run for Turkey". Quest'ultimo si prefigge di fornire un aiuto concreto alle comunità dei villaggi di montagna nelle province di Adi Yaman e Hatai, in particolare a Zey e Incirli, frazioni isolate e ultime nella lista di ricostruzione. Il ricavato sarà infatti destinato all'acquisto di beni e infrastrutture comuni, un piccolo passo per aprire nuove strade verso la speranza di un futuro immediato per chi ha subito così duramente la fine del proprio mondo.

  

Il 10 febbraio a Kahramanmaraš: l’arrivo dei bulldozer (di Emanuele Satolli)