Giovedì, 01 Marzo 2018 07:00

Sparire in America: «Absolutely nothing» di Giorgio Vasta

Scritto da Simone Giorgio

1. Uscito tre anni dopo il viaggio di cui racconta, Absolutely nothing di Giorgio Vasta si pone decisamente al di là dei territori del semplice reportage, e fa subito sospettare che il triennio di lavorazione e meditazione retrospettiva sull’esperienza statunitense sia servito a Vasta per rielaborarla in senso narrativo. Ne è un primo, forte indizio la natura non lineare del tempo del racconto, che pure a prima vista rimane di stampo diaristico: la narrazione procede per giornate, ma le giornate non sono disposte in ordine cronologico. Il tempo del racconto risulta quindi alterato, anche se la datazione che viene riportata permette comunque al lettore più meticoloso di ricostruire l’ordine temporale degli avvenimenti. Trattandosi di un viaggio, spezzare la linearità del suo tempo significa anche intaccarne la consequenzialità geografica. In nostro aiuto, in questo senso, viene invece la mappa che illustra il viaggio posta al termine del libro. Vasta sembra avvisarci subito di questo problema spazio-temporale mentre è a colloquio con una sua compagna di viaggio, Silva, e insieme studiano l’itinerario:

 

Al centro della mappa c’è uno stato blu scuro, il Kansas, non è tra quelli che attraverseremo, ci terremo più a sud. Sopra la superficie del tavolino il Kansas sembra uno strappo, il foro in cui tutta la geografia può precipitare, questo mi innervosisce, vorrei tappare il buco, saldare tra loro i confini, suturare, almeno coprire il vuoto con la mano…[1]

 

In questo passo Vasta esprime il desiderio di riuscire a mettere in ordine la realtà del viaggio che sta per affrontare: prevede il caos a cui sta per andare incontro. Torna su questo tema anche in altri luoghi del libro: le vicende, infatti, sono spesso inframezzate dagli inserti metanarrativi, nei quali Vasta riflette sul viaggio compiuto e sulla sua scrittura. Questi inserti sono segnalati tipograficamente dal rimpicciolimento del carattere: la narrazione dei giorni occupa la parte preminente del libro, ma, pur foriera di molte riflessioni, rimane spesso legata ai vari referenti reali di cui si parla (i luoghi che vengono visitati, gli oggetti, le persone che si sono incontrate); negli inserti invece prevale il tono saggistico: spesso slegati dal resto della narrazione, i dialoghi via Skype con Ramak Fazel, il fotografo di Absolutely nothing[2], portano Vasta a riflettere sul senso del viaggio compiuto; altre volte invece Vasta usa queste oasi meditative per spiegare alcune delle strategie di composizione del libro, come nel caso che segue:

 

Da quando ho cominciato a lavorare su questo libro immagino una manciata di sferette bianche che rovesciate da un contenitore si allontanano rimbalzando in ogni direzione. Ogni pallina è un giorno di viaggio e se ne va per conto suo, insieme alle altre ma indipendente, saltellando autarchica: se anche il viaggio, com’è logico, ha previsto un prima e un dopo, il suo racconto funziona in un altro modo: il tempo si rompe, la linearità si perde, il ricordo si mescola all’oblio, la ricostruzione all’invenzione, il prima e il dopo si fanno relativi e davanti agli occhi e nelle orecchie c’è solo il picchiettio sottile delle palline sul pavimento, la vitalità selvatica di ciò che si sparpaglia[3]

 

Ricostruzione e invenzione: vediamo come. I ventidue capitoli che compongono la storia sono distribuiti in due parti. Confrontiamo le soglie di ingresso nelle due sezioni del testo. L’incipit del racconto:

 

La notte prima di partire per Milano sogno di venire derubato, voglio denunciare il furto ma non ho idea di che cosa mi sia stato rubato, so che mi manca qualcosa, non sono in grado di dire cosa, la denuncia è impossibile[4]. 

 

La seconda parte, che prende avvio nel capitolo diciassette, comincia così:

 

Lasciato l’Ufo Museum di Roswell ci dimentichiamo di voler raggiungere il cratere dell’ufo crash, passiamo dal New Mexico al Texas e arriviamo ad Allamoore[5].

 

Tra le due sezioni, un’epigrafe:

 

Così, scrivevo, è finito il viaggio. Ma non finisce ancora il suo racconto. Considerato che, per dirla con Macbeth e con Ramak, nothing is but what is not, c’è ancora altro da far accadere, ancora altra esistenza da dare a ciò che non è mai accaduto[6].

 

Il racconto, insomma, parte due volte, ed entrambe le volte comincia con una dimenticanza. Ma si tratta di due perdite di memoria ben diverse: la seconda è un mero accidente, un pretesto per far ricominciare la narrazione; la prima, invece, è strutturale, e contribuisce a dare forma e ordine all’intero racconto. Costituisce, infatti, come vedremo, uno dei leitmotiv del libro, tramite i quali Vasta crea delle corrispondenze interne al testo, secondo una sorta di entralacement in miniatura. Sul tema del furto Vasta torna in alcuni dialoghi con Silva, nelle pagine iniziali del libro; viene poi citato fugacemente in altri momenti del viaggio; nel penultimo capitolo, infine, Vasta inserisce un brano, posto al di fuori della vicenda in America, intitolato Tentativo di comprensione di che cosa mi è stato effettivamente rubato in sogno. L’incipit di questo passaggio, nel giro di poche parole, sposta la narrazione al di fuori degli Stati Uniti, e la impreziosisce subito con un breve accenno biografico: «nello stesso periodo in cui finisco di scrivere questo libro mi ritrovo senza fissa dimora»[7]. Segue il resoconto di alcune peripezie legate ai traslochi fra Palermo, Roma e Torino, in cui Vasta ci informa della fine di una sua relazione amorosa. Riflettendo sulla figura della ragazza perduta, la narrazione diventa metaletteraria e, insieme, autobiografica:

 

[…] ora, in extremis, nutrita la scrittura con il suo fantasma, affiora, trapela, o meglio si impone non facendo tornare i conti: tra tutte queste frasi lei si installa soprattutto come coautrice del libro […][8].

 

Per Vasta, capire la natura del furto subito in sogno vuol dire capire la natura del libro che ha scritto sul viaggio, viaggio che inizia proprio l’indomani del sogno; coglie quindi l’occasione per esporre uno dei significati principali di questo libro:

 

…come coautrice del libro: come chi, con il proprio piccolo immenso peso, fa inclinare il piano del testo rivelando che absolutely nothing è in realtà absolutely nobody, e che dunque il nulla radicale del titolo è un modo per dire, evitando di dirlo in modo esplicito, che l’oggetto di queste pagine è la sparizione di una persona – e che il sogno del 30 settembre 2013 e il viaggio nei deserti americani nient’altro sono stati che il presentimento di quello che sarebbe accaduto nei due anni successivi[9].

 

Le inserzioni, così, non portano semplicemente il testo a un livello metaletterario ulteriore: contribuiscono a spiegarlo, e aiutano il lettore a cogliere uno dei messaggi centrali del libro. Messaggio che non riguarda affatto l’America. In effetti, la cultura americana permea il testo nella sua interezza, in ogni sua piega; ma il suo ruolo è semplicemente quello di far da sfondo e offrire spunti all’opera di introspezione di Vasta: l’America e i suoi deserti, la sua cultura narrativa (letteraria, ma anche cinematografica, musicale, artistica) servono a Vasta per ricostruire il suo viaggio, inventarlo e – nell’invenzione – portare allo scoperto la verità che abbiamo appena letto, la necessità di fare i conti con «la sparizione di una persona».

 

 

 

 

2. Gli Stati Uniti, per Vasta, sono quindi una cultura già acquisita, come emerge da una pagina situata all’inizio del racconto, in cui Vasta libera la carica narrativa concentrata nell’oggetto del dollaro, un potere, quello della cartamoneta, quasi tangibile:

 

…una massa narrativa letteraria e cinematografica che dai Topolino letti da piccolo con Zio Paperone che nuota nei verdoni arriva fino alla fisiologica indigenza dei personaggi di Carver e alla dissipazione oscura di Patrick Bateman in American Psycho, passando per la micragna infame dei Lester di Caldwell e del Tom Joad di Steinbeck, per Dean Martin vicesceriffo alcolizzato che all’inizio di Un dollaro d’onore si china a recuperare la moneta dalla sputacchiera, per il denaro infinito di Jay Gatsby e di Charles Foster Kane o per le banconote che alla fine di Rapina a mano armata vengono fuori dalla valigia disperdendosi per la pista dell’aeroporto, tutto il denaro desiderato conquistato e poi perduto che attraversa migliaia di narrazioni, il denaro-salvezza, il denaro-vendetta, l’easy money chimerico con cui comincia ogni storia e il denaro gergale che germoglia dalle bocche – bucks quarter dead presidents long green rock bread grand wool big ones: il denaro-filastrocca, il denaro-nenia, preghiera, ninna nanna, tutto il denaro americano letto e visto nel corso degli anni, fino a quel soldino fondamentale e originario – il mio quarto di dollaro da cento lire – che all’alba degli Ottanta il videogioco di un baretto palermitano mi sollecitava con un elementare insert coin to continue […]. Il denaro cinematografico e letterario è il mio privato capitale, il mio patrimonio unico e inalienabile. I cento dollari che ho appena prelevato non li ho prelevati: li sto ereditando[10]. 

 

Ecco: l’America, in uno dei simboli più celebri e diffusi, il dollaro, è già tutta di Vasta, è il suo «patrimonio». Ma non suo a livello personale: suo in quanto individuo di una generazione – quella nata venti, trenta anni dopo la fine della guerra – per cui l’America non è più né un paese misterioso e da scoprire, né il grande nemico globale: è il paese da cui vengono tutte le narrazioni che accompagnano l’uomo occidentale, dall’infanzia segnata dalla Disney ai grandi romanzi statunitensi, passando per la musica, il cinema, i videogiochi.

Nel Mito dell’America negli intellettuali italiani[11] Dominique Fernandez ha giustamente colto nel periodo del ventennio fascista una prima fase di avvicinamento al mondo letterario americano da parte dell’intellighenzia nostrana. Individua due generazioni, che corrispondono a due differenti atteggiamenti: la prima generazione è quella dei classicisti accademici, prosatori d’arte spesso vicini al regime di Mussolini, il cui campione più noto è senz’altro Emilio Cecchi; la seconda generazione, meno ingessata, più giovane e destinata a ingrossare le fila dell’antifascismo, è quella a cui appartengono Pavese e Vittorini, da Fernandez celebrati come fondatori dell’americanistica italiana. Lo studio della cultura americana, anche se di qualità diversa rispetto ai loro predecessori, rimane comunque disordinato[12] e fortemente teso a far nascere in Italia il mito statunitense, operazione culturale che verrà poi abbandonata nei primi anni del Dopoguerra[13], in favore di uno studio delle cose americane più razionale e distaccato. Non abbiamo qui l’intenzione di fornire un campionario completo ed esauriente delle cronache di viaggio americane della nostra letteratura: si tratta di un’impresa che richiederebbe una ricerca più approfondita e sistematica. Abbiamo comunque selezionato due testi che si collocano nell’età di passaggio dalla prima americanistica alla nostra epoca, testi il cui confronto con quello di Vasta risulta particolarmente interessante. Il primo è il reportage Un ottimista in America[14] di Italo Calvino che rappresenta, per le sue caratteristiche, un caso del tutto opposto al libro di Vasta. Resoconto di un soggiorno compiuto fra il 1959 e il 1960, quest’opera ruota attorno all’interesse del suo autore per la civiltà urbana degli Stati Uniti: mentre Vasta evita le grandi metropoli preferendo la provincia o i (non) luoghi naturali, Calvino viaggia di città in città: approdato dapprima a New York, va a visitare i principali centri urbani degli USA; di ognuno di questi insediamenti prova a coglierne lo spirito, la composizione sociale; a volte, si lascia persino andare a un tentativo di previsione dello sviluppo urbano, come nel caso di San Francisco, vista da Calvino come il punto focale dell’incontro tra l’occidente americano e l’Estremo Oriente di Giappone e Cina:

 

Ma voglio qui solo accennare a una possibilità che, sia pur confusamente, va aprendosi: la ricerca d’un umanesimo nuovo che fonda le esperienze dei due mondi, e che potrebbe avere un suo luogo topico proprio a San Francisco. Sarà il Pacifico il nuovo Mediterraneo d’una civiltà mondiale di domani[15]?

 

A Calvino interessa inoltre trovarsi nel mezzo di quelli che potrebbero essere definiti eventi storici: così, poche pagine più avanti, si trova a colloquiare brevemente con Martin Luther King, e assiste a una dimostrazione per i diritti civili degli afroamericani a Montgomery, in Alabama[16]. Stimolato anche dai ricordi del viaggio nell’URSS di inizio anni ’50, Calvino inserisce gradualmente nel testo anche alcune riflessioni e comparazioni fra le due superpotenze, di natura decisamente più astratta: ma anch’esse tradiscono un intento morale, didattico; queste annotazioni hanno il carattere di studi culturali che dovrebbero aiutare gli europei a capire meglio i due colossi che si contendevano, all’epoca della composizione del reportage, la loro supremazia[17].

Nello stesso 1959 si trova in America anche Arbasino, vincitore di una borsa di studio a Harvard, dove segue le lezioni di Kissinger. Da questa esperienza trarrà una serie di articoli per varie testate italiane, che riunirà poi – assieme ad altri scritti sempre attinenti agli Stati Uniti – nel ponderoso America amore, uscito nel 2011[18]. Libro gemello a quello di Calvino per la curiosità antropologica che lo attraversa, si differenzia da Un ottimista in America per il tono più apertamente giornalistico: come suo solito, Arbasino riesce a catturare varie voci e a comporle in una polifonia resa armoniosa dalla cornice che egli vi giustappone, che è quella della sua scrittura 'ciarliera' e potenzialmente interminabile. Gli articoli che si soffermano su particolari figure della cultura americana (presenti nelle sezioni Harvard ’59 e Trenta posizioni) seguono sempre lo stesso canovaccio: Arbasino 'liquida' in poche parole l’occupazione principale del personaggio, ciò per cui è noto; descrive con velocità ed efficacia la situazione in cui ha colloquiato con tal personaggio; infine lo lascia parlare, dando ampio spazio al virgolettato della figura intervistata, e preoccupandosi semplicemente di creare dei raccordi adeguati tra una parte e l’altra dell’intervista. Anche Vasta ci introduce ad alcuni personaggi ma il suo sguardo non è mai, come quello di Arbasino, curioso e pungente; anzi, Vasta tende a descrivere i personaggi che incontra come inevitabilmente inchiodati al luogo dove si trovano, incatenati. Mentre Arbasino restituisce, attraverso i suoi personaggi, un ritratto dell’America culturale molto vivace, Vasta si preoccupa di esporre persone che sembrano tutt’uno con la natura e i luoghi abbandonati che egli visita. Così parla del ragazzo della ghost town Calico, che gironzola per le case abbandonate vestito da cowboy, in attesa che qualche turista lo fotografi; oppure descrive gli abitanti di Bombay Beach, una cittadina sul Salton Sea (lago sfortunato, la cui salinità, cresciuta improvvisamente, ha posto fine a ogni attività peschereccia, e costretto i più anziani a passare la vecchiaia sulle sue rive). Vasta predilige la gente comune, anonima e periferica, ai confini della civiltà e anzi confitta in una marginalità che fa tutt’uno con gli spazi attraversati, non perché animato da intenti neorealistici, ma perché solo queste persone sono a stretto contatto con la realtà americana che egli intende raffigurare – quella di una popolazione costantemente assediata dalla natura e dal deserto, tanto da non essere più distinguibile da essi. Viceversa, in America amore, se è vero che assistiamo al solito 'vizio' dell’Arbasino affabulatore, bulimico e snob, quello di rivolgersi a lettori che presume essere coltissimi, è anche vero che Arbasino può permettersi il lusso di non fornire informazioni biografiche approfondite sulle persone che incontra e con cui dialoga perché sa che la penetrazione culturale americana in Europa è già in una fase avanzata. Tale presa di coscienza è, per così dire, 'raddoppiata' dalla scelta di riunire questi scritti in un libro edito così di recente: in questo modo, la consueta ironia di Arbasino è ulteriormente rafforzata dall’ironia della Storia, che fa apparire ingenue al lettore contemporaneo, ad esempio, molte delle idee che Arbasino aveva raccolto dagli intellettuali americani tra anni Cinquanta e Sessanta, dalla possibilità che Kennedy cambiasse in meglio gli Stati Uniti alla paura del superamento in efficienza industriale da parte dell’URSS[19].

Abbiamo ragione di credere che Vasta, avido lettore, al tempo della scrittura fosse al corrente di molte di queste opere 'odeporiche' sull’America che hanno preceduto la sua. Ciò che è interessante notare è come in Absolutely nothing, a differenza dei testi di Calvino e Arbasino, la cultura americana sia già compiutamente interiorizzata. Possiamo fare due esempi di questa interiorizzazione e di come essa influisca sul libro. In un incontro tenuto all’Università di Bologna il 24 novembre 2017, Vasta, parlando delle reminiscenze americane contenute nel libro, ha ricordato una scena in cui lui è nel deserto con Ramak e tentano insieme di accendere un fuoco. Vasta ha spiegato che quella scena è, secondo lui, una riproposizione (inconscia, sincronica) di un romanzo breve di Jack London, Preparare un fuoco[20]. D’altronde, un altro segnale della metabolizzazione della narrativa o dell’immaginario americano viene dall’altro grande leitmotiv di Absolutely nothing, ovvero quello della famiglia antropofaga: mentre erra insieme a Fazel e Silva per i deserti americani, Vasta è convinto che stia per imbattersi in una famiglia di selvaggi cannibali, pronti a far pasto di lui e dei suoi compagni. Nella seconda parte del libro, quella più immaginifica, Vasta ne parla con Ramak:

 

Hai sentito?

Cosa?

Non vedi i bagliori?

Quali bagliori?

C’è qualcuno, dico posando il piatto sul marciapiede, preoccupato ma felice di avere detto una cosa del genere (ero già felice mentre dicevo Hai sentito?, ma avere sviluppato la sequenza fino a C’è qualcuno è inestimabile).

Dopo un’occhiata in giro, Ramak riprende a mangiare.

Non facciamo niente?, dico.

Cosa dobbiamo fare?

C’è qualcuno.

Non c’è nessuno.

Come fai a esserne sicuro?

Non ne sono sicuro, ma non capisco qual è il problema.

Hai presente The Texas Chainsaw Massacre?

Sì.

E The hills have eyes?

Sì.

Cannibal Holocaust?

Anche.

Spider Baby?

Di chi è?

Di Jack Hill.

Non ricordo.

Antropophagus?

No.

I bagliori sono le sclere bianche, dico, e i rumori sono i loro passi.

Di chi?

Della famiglia antropofaga.

Non ti seguo.

Nei film sul cannibalismo arriva sempre il momento in cui gli antropofagi si acquattano pronti ad avventarsi sugli umani; nel buio si riconosce il bianco dei loro occhi e il silenzio della foresta è rotto dagli scricchiolii dei loro passi[21].

Poi, poche righe più avanti, Vasta individua in questa immagine il senso del viaggio:

Riguarda il senso del viaggio, dico. L’idea tradizionale e la sua pratica. Si viaggia per aumentare, per incrementare: per arricchirsi, come si dice. Si vuole portare dentro di sé, inglobare, o meglio ancora incorporare.

E cosa c’è di male? Anche noi siamo qui per questo. Prendiamo, tu con la scrittura e io con la fotografia.

Non va bene.

Cosa vuol dire non va bene?

Che un viaggio non è una battuta di caccia, né il catalogo di tutto ciò che si è riusciti ad afferrare.

Perché non può essere così? Nel viaggio siamo predatori, ci appostiamo e aspettiamo, abbiamo bisogno di catturare, che si tratti del Trotter Park o di Mr. ZZ Top.

Non dobbiamo più essere predatori, dico.

E che cosa dobbiamo essere?

Prede.

Prede?

Solo la preda conosce davvero[22].

 

L’idea che l’incontro con l’America rappresenti, nella sua essenza più vera, il sentirsi braccati come 'prede' è sviscerata nel prosieguo del dialogo, in cui Vasta espone a Ramak le leggende sugli abitanti dei deserti americani snaturati dagli esperimenti nucleari, o i racconti dell’epoca della corsa all’oro sui cannibali che si appostavano per divorare i cercatori. Che la famiglia antropofaga sia l’immagine dell’America che assimila – o è assimilata – da Vasta è confermato anche dal finale del romanzo, in cui Vasta, Silva e Ramak sono fermi nel deserto, e la famiglia finalmente si palesa:

 

Quando la nube è a qualche metro da noi, dal suo bozzolo emerge un uomo con la barba, il panciotto lacero e i pantaloni scuri, e dietro di lui una donna con la crocchia disfatta, il corsetto strappato e una gonna consumata lunga fino alle caviglie, e poi un bambino e una bambina vestiti con due camicie luride, e ancora un vecchio che ha addosso solo dei pantaloni di panno sbriciolato, le bretelle che gli si allungano nere sul torace ossuto. Sui volti e sulle braccia della famiglia, segni di sangue scuro. Mentre Silva Ramak e io, ognuno, ancora perduto nella sua spirale, li osserviamo penetrare nell’aria cosparsa di solchi tagli e scie, hanno l’incedere calmo del deserto, la serenità di chi sa che la meraviglia è famelica[23]. 

 

Lo sguardo di Vasta qui è cinematografico, e saccheggia deliberatamente gli horror che aveva snocciolato a Ramak qualche pagina prima[24].

 

 

3. L’idea di essere inglobato e in qualche modo ingoiato è già presente nel Tempo materiale[25], il romanzo d’esordio di Vasta. Lì, il protagonista Nimbo, mentre osserva in tv le operazioni di ricerca del cadavere di Aldo Moro sul fondo del lago Duchessa, immagina che il corpo dello statista democristiano si trovi nella sua minestra e, serafico, lo inghiotte. In Absolutely nothing, la visione è capovolta: sono Vasta e i suoi compagni ad essere ingeriti – si suppone – dalla famiglia antropofaga. Ma il tema – pur rappresentato secondo coordinate culturali così diverse[26] – si ripresenta sempre con lo stesso finale: se nel Tempo materiale Moro e il suo alter ego Morana erano visti come le vittime perfette e necessarie, anche qui Vasta, per conoscere l’America, ha ben presente la necessità di farsi vittima: di sacrificarsi. A Ramak illustra i racconti sui cannibali che aggredivano le carovane, e dice che solitamente si salvava almeno un testimone che poi narrava l’accaduto. Subito però spiega di avere «una visione più radicale»[27]: non devono esserci sopravvissuti. E aggiunge: «Smetterla di andarsene in giro come soggetti, sempre dritti e presuntuosi, e invece dissolversi, diventare oggetto, cibo, nutrimento. Passare da consumatori a consumati. Essere divorati dal viaggio»[28]. Questo colloquio con Ramak, nella suggestiva ambientazione del deserto notturno, occupa qualche pagina e rappresenta l’apice dell’esposizione concettuale del leitmotiv della famiglia antropofaga. Qui è chiaro che la famiglia rappresenta un’altra metafora, una possibile chiave di lettura del viaggio negli Stati Uniti. Vasta parla di «meraviglia che si nutre del meravigliato»[29]: attraverso un’interiorizzazione potremmo dire 'fisiologica' di un topos narrativo tipico degli USA, prende vita uno dei messaggi centrali del libro.

Le qualità di Absolutely nothing non si esauriscono però nel confronto con altre opere italiane o dello stesso autore: il vero pregio di questa scrittura sta nell’abilità di Vasta di trattare l’immagine del deserto - luogo di sparizione e di annullamento per eccellenza - nella sua capacità di farsi vettore o figura di messaggi la cui rappresentazione è affidata a veri e propri leitmotiv che lì, nel deserto, si incontrano: il sogno del furto e della perdita, la volontà di essere metabolizzato e divorato dalla famiglia cannibale, l’interiorizzazione della cultura americana. Abbiamo visto come i primi due siano leitmotiv figurali, che ripetono una stessa immagine più volte, finché Vasta non svela al lettore il suo significato. Il terzo leitmotiv invece è strutturale, e organizza la disposizione informativa degli altri due, facendo anche da pregevole cornice intessuta di citazioni intertestuali. Tutti e tre i motivi trovano infine il loro punto d’incontro nell’idea del deserto, dove peraltro avvengono gli episodi principali del viaggio: il deserto è eletto a luogo principale del libro, tanto che si ritaglia un posto nel sottotitolo («Storie e sparizioni nei deserti americani»[30]).

Nel capitolo diciotto, Vasta immagina di incontrare il fratello del celebre cane Snoopy, Spike, che vive nel deserto. Le immagini o le epifanie di questo personaggio ricorrono in realtà per tutto il libro, puntellando i passaggi di capitolo in capitolo. Nello spiegare il perché della scelta ascetica di ritirarsi nel deserto, Spike dice a Vasta: «Tu credi che io me ne stia inchiodato a questo saguaro come a una croce, e invece io coltivo il deserto, lo allevo, rinsaldo ogni giorno il legame tra desiderio, solitudine e tenacia»[31]. Desiderio, solitudine e tenacia: questo trittico di termini è centrale in questa scena. A livello formale, è la massima prova dell’astrazione straniante presente in queste pagine: l’ambientazione nel deserto, descritto con poche ma efficaci parole, favorisce la messa in scena di quello che potremmo, a tutti gli effetti, identificare come un dialogo filosofico[32]. A un certo punto, mentre parlano del concetto di mancanza, Vasta sospetta che Spike sia al corrente del sogno sul furto, ed è allora che il cagnolino, dopo aver spiegato il significato della parola «deserto» («Vuol dire sciolto, separato»[33]), gli espone la triade di parole che abbiamo riportato, e alla luce di quelle parole si devono interpretare il sogno del furto e il desiderio di incontrare e darsi in pasto alla famiglia antropofaga. Il loro senso sta qui: nel silenzioso lavoro di Spike, che dice di «pensare le parole», di «meritarsi» di stare nel deserto, di essere ingoiato dalla natura, e lì di poter stare a contatto con il linguaggio. Dice: «Tutti i giorni, per tutto il giorno, una alla volta, sopra la testa io do forma alle parole»[34].

L’essenzialità della scena, la purezza cristallina della lingua in cui è resa e la chiarezza concettuale che sottende rendono questo passo il più suggestivo del libro, uno dei brani più riusciti – capace, come abbiamo già visto, di recare con sé e imbrigliare le «sferette bianche» che Vasta, all’inizio del racconto, vedeva scappare via in ogni direzione. Essere ingoiati dalla famiglia antropofaga o lamentare l’assenza di qualcuno sono azioni che hanno senso solo in quanto sintomi dell’accettazione della sofferenza, e della capacità di trarne serenità, fino alla scelta di sciogliere questa serenità nel piacere del linguaggio:

 

Il mio amore, riprende, è una superficie orizzontale. Una distesa interminabile.

Tace di nuovo, mi guarda.

Il mio amore è un deserto, dice e l’arancione del suo viso si fa sempre più intenso.

Desiderio, ripeto dopo un poco, solitudine e tenacia.

Non serve altro, dice lui[35].

 

 

 

[1] Giorgio Vasta, Ramak Fazel, Absolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, Quodlibet Humboldt, Macerata-Roma 2016, p. 10.

[2] La narrazione del viaggio scritta da Vasta è accompagnata dalle foto realizzate da Giovanna Silva in bianco e nero; una terza sezione, posta alla fine del libro, raccoglie gli scatti di Ramak Fazel, che sono riportati in un formato alquanto inusuale per le sezioni fotografiche dei libri di viaggio: anziché occupare tutto o quasi lo spazio della pagina, le foto sono compresse, in formato 1:1, poste l’uno accanto all’altra, cosicché ogni pagina ne possa accogliere una coppia. Le due pagine insieme formano quindi un quartetto di foto, spesso legate da un tema comune; altre volte addirittura viene abbozzata una sequenza narrativa, anche se le foto che la compongono appartengono a momenti diversi del viaggio. È questo un modo di smontare e ricomporre le linee tematiche (e i piani spazio-temporali) di questa esperienza. Per maggiori approfondimenti sull’apparato iconografico del libro, si rimanda a Maria Rizzarelli, Raccontare e coltivare il deserto. Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel, in «Arabeschi»,, n. 10, luglio-dicembre 2017.

[3] Giorgio Vasta, Ramak Fazel, Absolutely nothing, p. 29.

[4] Ibid., p. 9.

[5] Ibid., p. 169.

[6] Ibid., p. 168.

[7] Ibid., p. 230.

[8] Ibid., p. 232.

[9] Ivi.

[10] Ibid., p. 19.

[11] Dominique Fernandez, Il mito dell’America negli intellettuali italiani (dal 1930 al 1950), Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 1969.

[12] Valga per tutti il caso di Pavese, costretto a farsi spedire da un amico americano – peraltro poco avvezzo alla letteratura – le principali novità letterarie statunitensi. È in questo modo che l’autore de La bella estate entrò in contatto con i lavori di Hemingway, Dos Passos, Sinclair Lewis e altri.

[13] Recensendo la traduzione di Edgar Lee Masters effettuata da Fernanda Pivano, Pavese lascia filtrare una nota di nostalgia e disillusione sulle questioni americane: «Parlare di questo libro è perciò risalire alla fonte di qualcuna delle più vivide esperienze poetiche della nostra adolescenza, al periodo eroico in cui gettammo per la prima volta lo sguardo su un meraviglioso mondo che ci parve qualcosa di più che una cultura: una promessa di vita, un richiamo del destino. Storia passata» (Cesare Pavese, Edgar Lee Masters, in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962, p. 65).

[14] Originariamente progettato per la pubblicazione nel 1961, questo libro venne ripudiato da Calvino a opera ormai completa. È stato quindi edito postumo dalla Mondadori nel 2002. Fino a quel momento, i vari articoli che compongono il volume erano stati raccolti seguendo l’ordine di apparizione sui periodici nell’opera omnia curata da Mario Barenghi.

[15] Italo Calvino, Alle porte dell’Asia, in Un ottimista in America, Mondadori, Milano 2015, p. 117.

[16] Calvino, Un ottimista, cit., pp. 173-182.

[17] Parlando degli stili di vita americano e sovietico, Calvino scrive: «È in questo terreno che una compenetrazione tra i due atteggiamenti, quello americano di spregiudicata sincerità e quello russo ancora capace di passioni disinteressate, è più difficile da trovare. Eppure, è quello il punto. Magari potessimo trovarlo noi, questo punto d’incontro, noi che stiamo in mezzo…» (Calvino, Le due morali, in Un ottimista, cit., p. 225).

[18] Alberto Arbasino, America amore, Adelphi, Milano 2011.

[19] Se ne parla in un dialogo tra Arbasino, Schlesinger e Kissinger riportato dall’italiano nel pezzo Schlesinger (America amore, cit., p. 61).

[20] Jack London, Preparare un fuoco, Mattioli 1885, Fidenza 2007.

[21] Vasta, Absolutely nothing, cit., p. 172.

[22] Ibid., p. 173.

[23] Ibid., p. 245.

[24] Si noti la grande maestria con cui Vasta gioca con le contrapposizioni: prima della descrizione della famiglia, aveva descritto gli attimi concitati in cui lui, Silva e Ramak discutono sul da farsi; la descrizione del deserto come luogo di allucinazioni rende la visione dei cannibali quasi trasognata, ma al tempo stesso lucidissima: ne sono prove le immagini degli abiti lacerati e dei corpi deformi dei mostri. La lentezza esasperante con la quale gli antropofagi si avvicinano alle loro prede è data dalla mirata assenza di veri verbi di movimento: il verbo «emergere» imprime l’unica debole sensazione di moto; il verbo «penetrare», qualche riga dopo, è asservito al verbo «osservare», che da un lato lo indebolisce, e dall’altro mantiene il punto focale nelle mani di Vasta, dunque della vittima. Il verbo «incedere», sostantivato all’infinito, è filtrato nella stessa chiave descrittiva.

[25] Giorgio Vasta, Il tempo materiale, minimum fax, Roma 2008.

[26] Ci si riferisce all’ovvia differenza tra il romanzo del 2008, ambientato a Palermo nei giorni del caso Moro, e questo reportage di un viaggio in America, che è avvenuto nel 2013.

[27] Vasta, Absolutely nothing, cit., p. 174.

[28] Ibid., p. 175.

[29] Ibid., p. 176.

[30] È importante sottolineare che il deserto occupa un ruolo così centrale nell’economia del libro che “ruba”, per così dire, il posto dell’annotazione geografica: Vasta non dice che la storia è ambientata negli USA, ma parla esplicitamente fin dal titolo di «deserti».

[31] Ibid., p. 201.

[32] È interessante notare come questo dialogo – pur essendo immaginario - metta Spike nella posizione di maestro maieutico nei confronti di Vasta, che colloquia con lui e comprende vari punti chiave della sua scrittura e del senso del suo viaggio negli USA.

[33] Ibid., p. 200.

[34] Ibid., p. 201.

[35] Ibid., p. 202.