Autore: Emanuele Rochira

Con l’arrivo del Sessantotto e la nascita di un movimento che reciterà un ruolo non secondario nella società italiana almeno fino alla fine degli anni Settanta, Roversi espliciterà la sua vicinanza ai gruppi studenteschi e giovanili per i quali diventerà un punto di riferimento culturale.

La sua fu un’adesione non superficiale, ma interna. Tuttavia, non totale. Come nota giustamente Moliterni nel suo lavoro, Roversi fu sempre esplicitamente critico rispetto ad uno dei nodi del movimento, l’utilizzo della violenza come strumento di lotta politica:

 

Non credo più all’efficacia politica della violenza […]; non perché la violenza per sé sia priva di efficacia, ma perché a me pare che essa, oggi, sia codificata dal sistema, che il sistema sia sempre (e sappia essere sempre) più violento dei suoi contestatori: insomma che la violenza sia un modo tradizionale di aggressione della realtà…

 

 

Molti della mia generazione ne hanno sentito parlare, di Roversi. Eppure quasi nessuno l’ha letto. Quando mi è capitato di seguire un corso su di lui all’Università del Salento, ho capito che era arrivata l’occasione di rimediare. Non sapevo ancora che sarei finito inchiodato.

Roberto Roversi nasce cento anni fa, nel 1923. A Bologna. Al liceo frequenta Pasolini e Leonetti. A vent’anni diserta dall’esercito fascista e si unisce alla lotta partigiana. Rientrato a Bologna fonda una libreria antiquaria e con i compagni di liceo, nel 1955, inizia l’avventura di “Officina”, una rivista che cerca – superato l’estremo spartiacque della guerra – di fare i conti con il Novecento, e che segna il rifiuto dell’ermetismo e del neorealismo, accusato di essere sempre più attestato su posizioni retoriche intorno alla questione dell’impegno e della militanza. Mentre Pasolini diventa una star, anche grazie al cinema, Roversi scrive poesie e interventi critici nei quali avvia le basi della sua riflessione e del suo percorso intellettuale.